Flika
correva come mai aveva fatto in vita sua,
ignorando gli sguardi curiosi e stupiti che si posavano su di lei.
Scappava.
Ma da cosa? Da se stessa e dal proprio
dolore.
Si
muoveva con il disperato bisogno dell’azione
perché fermandosi tutto sarebbe diventato troppo reale
persino per lei, capace
di essere un’eterna stronza.
Ma
Flika conosceva il proprio cuore: dolce,
delicato e contemporaneamente forte, era in grado di provare emozioni
con
un’intensità fuori dal comune; lui, il suo
migliore amico, la definiva
“dolcemente stronzetta” perché aveva
sempre la risposta pronta e la battutina
ironica in costante agguato.
Per
i suoi amici avrebbe dato la vita senza
esitazioni e con chi la criticava, o peggio, la odiava, sapeva essere
perfida.
Sì,
Flika sapeva che molti la disprezzavano per ciò
che era e sapeva anche di essere terribile con quelle persone, ma non
era mai
la prima ad attaccare.
Non
capiva cosa le mancasse: era simpatica,
ironica, dispettosa, intelligente e con lei tutti ridevano, sempre, ma
ciò non
le impediva di saper affrontare con fierezza e serietà ogni
difficoltà che le
si parava davanti.
Aveva
superato il tradimento della madre, che era
svanita nel nulla dicendosi stanca di faticare e, nemmeno lei sapeva
come,
aveva trovato la forza di reagire alla morte della sorella maggiore,
Unika,
uccisa due anni prima da un pirata della strada.
Era
sola con un padre che faceva il doppio lavoro
eppure non guadagnava abbastanza; lui aveva scelto i nomi per le
figlie, nomi
stravaganti che però racchiudevano un destino: Unika, nei
suoi vent’anni di
vita, aveva ampiamente dimostrato di essere speciale ed irripetibile,
mentre il
suo nome, Flika, in svedese significava “bella
ragazza”.
E
lei, con il suo fisico aggraziato, il viso
affilato e dolce incorniciato da una cascata di liscissimi capelli nero
pece e
gli occhi indaco intensi e furbi, era dannatamente bella; quello era
uno dei
motivi per cui alcune ragazze che seguivano il suo stesso corso
all’Accademia
delle Belle Arti capitanate da Ginevra, una stangona tutte curve, la
odiavano:
gelosia.
In
diciannove anni Flika aveva sempre incontrato
persone gelose, poi c’era che la criticava perché
sapeva fare battutine
cattive, chi diceva che era troppo dispettosa e chi non la sopportava
per mille
altri motivi che non le importavano.
Non
si era infatti mai curata del disprezzo altrui;
credeva di star bene, di essere felice. Fino a quel giorno.
Sfinita,
la ragazza si lasciò cadere contro un
albero del parco in cui si era rifugiata: le sembrava che ogni cellula
del suo
corpo stesse urlando mentre il dolore ai muscoli diventava sempre
più intenso
fino a quando sentì i polmoni contrarsi in uno spasmo
terribile e il fiato
morirle in gola. Svenne.
***
“Non
sei mai stata brava a correre.” Disse una voce
lontana e distorta: “Così impari a voler battere
il record mondiale.”
“Cosa
vuoi?” sussurrò Flika sedendosi e cercando di
mettere a fuoco chi aveva seduto di fronte.
“Ben
tornata fra noi, bella ragazza.” Sorriso
dolce. Occhi più neri della notte. Capelli che erano una
perfetta fusione di
ciocche biondissime e ciocche rossissime.
“Write…”
mormorò lei riconoscendo nel ragazzo che
le parlava il proprio migliore amico: “Cosa vuoi?”
ripeté.
“Mm…
non so, vedi tu: arrivo a scuola e quella
piovra di Ginevra mi si avvicina facendo le fusa e dicendo di aver
finalmente
eliminato l’unico ostacolo al nostro amore. Ora, sapendo che
quella cosa che si
spaccia per persona e che mi ha decisamente rotto ti odia
perché sei troppo
bella e sei la mia migliore amica da una vita, ho fatto due conti, mi
sono
guardato intorno e, non vedendoti, sono venuto a cercarti, salutando la
piovra
con qualcosa di molto simile ad un insulto.” Write sorrise
con un lampo di
divertimento negli occhi e rimase in silenzio fissando il vuoto dopo
essersi
seduto al fianco dell’amica, ma le parole di Flika gli fecero
perdere un
battito al cuore.
“Potrei
odiarti, sai?” aveva infatti detto lei
scostandosi la frangetta dagli occhi: “Forse ti odio
già.”
La
mancanza di una particolare intonazione era ciò
che più di tutto spaventava il ragazzo, che aveva spalancato
gli occhi in tutta
la loro grandezza e fissava l’amica con
l’espressione di chi sta solo
aspettando la pugnalata finale.
“E’
tutta colpa tua.” Riprese lei con una calma
innaturale che strideva in confronto alle sue parole: “Sei tu
quello troppo
bello, non io; sei tu quello che Ginevra vuole e sei sempre tu il
motivo per
ora io sono qui, per cui lei mi ha fatto fuggire fin qui.”
Flika sospirò
voltandosi ed incrociando lo sguardo terrorizzato dell’altro:
“Ma non ti odio.
Non posso odiarti perché sei da sempre il mio migliore
amico.” Sorrise mentre
Write tornava finalmente a respirare ed esclamava: “Dio,
Flika, vuoi farmi
morire d’infarto?!”
Lei
ridacchiò prima di rabbuiarsi nuovamente e
chiudere gli occhi privando il mondo della loro intensità:
“Ginevra mi ha
ricordato chi sono: un’artista mal riuscita con ambizioni
troppo alte, con una
madre che molto probabilmente fa la bella vita da qualche parte
fregandosene di
me, una sorella morta e un padre che si ammazza di lavoro per pagarmi
gli
studi. E ha detto tutte queste belle cose perché pensa che
io ti impedisca di
amarla…” si bloccò per non dare il via
libera alle lacrime: odiava piangere.
Non lo avrebbe mai fatto.
“Flika,
ora ascoltami bene.” Intervenne Write con
tono stranamente serio dopo un attimo di esitazione: “Siamo
amici da quando
abbiamo quattro anni e ti conosco meglio di quanto conosca me stesso:
ti ho
vista crescere, fare le tue scelte, combattere contro i tuoi demoni e
persino
sbagliare. Tu non sei una ragazza semplice.” Fece una pausa
per permettere a
quelle parole di fare bene presa nella mente dell’amica:
“Il dolore del tuo
passato e il tuo stesso carattere feriscono il tuo cuore: non
c’è una vera
spiegazione ma sembra che tu sia tormentata di natura. Hai una
personalità
troppo intensa per lasciare molta scelta alle persone: o ti si odia o
ti si
ama. Sei chi sei e non devi pentirtene mai perché sei
straordinaria; sì, è
vero, Ginevra ed altri non ti sopportano, ma cosa t’importa
di loro quando hai
persone mille volte migliori che ti adorano?”
“Non
mi ero mai curata del loro disprezzo, fino ad
ora: oggi le sue parole mi hanno colpita troppo duramente. E’
l’anniversario
della morte di Unika… ha pensato bene a quando attaccarmi.
Ricordandomi tutti i
dolori della mia vita in un giorno simile ha spezzato con
semplicità la mia
illusione.”
Write
sospirò chiudendo a sua volta gli occhi e
stringendo i pugni: in quel momento avrebbe solo voluto far annegare
Ginevra in
un mare di insulti, ma doveva stare calmo per poter aiutare Flika.
Era
arrivato il momento: sapeva che alla fine
sarebbe arrivato fin da quando aveva conosciuto l’animo
tormentato di quella
ragazza.
“Quale
illusione?” chiese comunque, fingendo di non
capire, e: “Quella di essere felice.” Rispose Flika
fissandosi le scarpe
bianche senza rendersi conto di star solo confermando ciò
che Write già sapeva.
“Per
diciannove anni mi sono autoconvinta di star
bene, sapendo dentro di me che in realtà non era vero. Ora
non riesco più a
fingere e… e io…”
Primo
singhiozzo. Flika spalancò gli occhi
portandosi una mano tremante alla bocca, poi prese un respiro profondo
ripetendosi
mentalmente che non doveva assolutamente piangere.
“Sei
truccata?”
“Sei
scemo?” sbottò la ragazza lanciando
un’occhiataccia all’amico, senza capire dove
volesse andare a parare: “E poi
dicono che la fuga di cervelli è
un’invenzione…”
“Bella
ragazza, rispondimi.” Write era più serio
che mai e sostenne senza fatica lo sguardo indaco e confuso
dell’atro,
esortandola a parlare.
Flika,
non sapendo bene come reagire a quella dura
fermezza, si limitò ad accontentarlo annuendo e dicendo che
sì, un po’ lo era.
“Bene.”
Commentò Write senza cambiare espressione:
“Deduco che sia per questo che sembra preferiresti mangiarti
le mani piuttosto
che versare una sola lacrima. Sai, non è che ti corrodi se
piangi.”
La
mora lo squadrò a metà fra il sospettoso e
l’irritato, cercando di indovinare i pensieri del proprio
migliore amico, ma
per la prima volta non riuscì a leggere oltre il nero scudo
che erano i suoi
occhi: “Non mi sembra che tu abbia mai speso più
lacrime di me.”
“Ma
io nemmeno soffro come te.”
Flika
sbuffò infastidita dalla piega che stava
prendendo quel discorso, quindi si alzò spolverandosi
velocemente il retro dei
pantaloni e, dopo aver recuperato da terra la borsa dei libri che si
era
portata dietro nella sua fuga, si allontanò velocemente.
“Dove
vai? Flika fermati!” Write si alzò a sua
volta raggiungendola in pochi passi.
“Piangere
è da deboli…” fece lei, fredda, senza
guardarlo.
“Bella
ragazza…”
“…
e io non sono debole.”
“Flika.”
“Quindi
non piangerò e tu devi…”
“Flika!”
finalmente riuscì a farla fermare: “Stai
scappando da te stessa. Di nuovo.”
“Non
ho bisogno del tuo aiuto.” Ringhiò lei
tornando a camminare.
Per
qualche istante Write non si mosse, fissando la
schiena della ragazza allontanarsi sempre più, quindi chiuse
gli occhi per
schiarirsi le idee: doveva pensare in fretta per impedire a Flika di
sfuggirgli
definitivamente.
Si
riscoprì a ridacchiare: pensare? Con lei? Era
inutile: doveva solo seguire l’istinto.
“Flika!
Parla con me per favore!” Fermati…
fermati…
fermati…
Lei
si voltò e il cuore di Write perse nuovamente
un battito difronte al suo sguardo furioso e determinato.
“Mi
sono rotta, Write, mi sono rotta di parlarti.
Oggi ti ho detto fin troppo quindi lasciami andare via! Non puoi fare
niente
per me.” Fece una pausa per riprendere fiato, ma le parole
“parla con me”
rimbombavano ancora nella sua mente e sembravano ostinate a
costringerla a
continuare.
Aveva
sempre detto tutto a Write, tranne quello che
aveva nascosto anche a se stessa: la propria infelicità.
Lei
ci aveva provato, aveva lottato ogni singolo
istante per cercare di essere veramente felice, ma aveva solo finito
col farsi
male: ogni volta che pensava di avercela fatta e poi quel traguardo le
sfumava
davanti agli occhi, sentiva un pezzo del proprio cuore spegnersi e lei
moriva
sempre un po’ di più.
Aveva
cercato la felicità in sua madre e lei se ne
era andata, quindi aveva provato a trovarla negli amici, ma le calunnie
erano
sempre dietro l’angolo, poi aveva tentato con
l’arte ottenendo solo di
incontrare Ginevra.
Quando
poi Unika era morta qualcosa si era
definitivamente rotto in Flika, che si era rassegnata ad assecondare il
desiderio che da anni la tormentava: fingere di essere felice anche con
se
stessa. Era stata talmente brava a farlo che si era davvero
autoconvinta, ma
ormai anche quell’illusione se ne era andata.
“So
che ti fa male.” La voce di Write la riscosse
dai propri brutti
ricordi:
“Perché per te ogni tentativo di essere veramente
felice è strettamente legato al dolore. Lo so Flika,
ma…”
“Smettila!”
strillò lei, spaventata: non voleva
sentirsi dire ciò che per diciannove anni si era nascosta:
“Tu non sai niente! Sta
zitto! Vattene! Non voglio vederti mai più! Vattene, va via
per sempre!”
“Sì,
Flika, ora me ne vado, ma prima devi
ascoltarmi!” era deciso a giocare il tutto per tutto:
“Ogni volta che ti vedevo
fallire nella tua ricerca parte di me moriva: odio quando soffri. Odio
quando
non riesco ad aiutarti. Ma ora basta: ho sempre saputo che la tua
felicità era
un’illusione e per questo non ti ho mai abbandonata, neanche
quando avrei
voluto, neanche quando te lo saresti meritata. Sei la mia migliore
amica…” si
fermò per prendere fiato e si passò una mano
sugli occhi lucidi ed arrossati:
anche per lui faceva male affrontare qual discorso.
“Sei
la mia migliore amica e io sono felice grazie
a te. Avrei voluto che anche per te fosse lo stesso, che io potessi
renderti
veramente felice, ma così non è stato. Flika, se
prima non ti riappacifichi con
te stessa non potrai mai stare bene con gli altri: prima di tutto devo
trovare
la via in te e poi negli altri. Forse ti farà male, forse
soffrirai, ma non
devi smettere di cercare altrimenti ogni volta che qualcuno
spezzerà la tua
illusione di felicità sarà sempre peggio, fino a
quando diventerà
insopportabile. Ognuno ha un proprio punto di rottura e non voglio che
tu
raggiunga il tuo, perché allora sarebbe troppo tardi:
ricomincia, Flika,
ricomincia a cercare e non mollare, perché io ti conosco e
so che puoi farcela.
Lasciati tutto alle spalle, dimentica, anche me se può
aiutarti, se ricordarmi
ti ricorda il dolore. Non ho paura di farmi da parte. Per te lo faccio
volentieri e se ora vuoi che me ne vada lo farò, ma per
favore non dimenticare
ciò che ho appena detto: combatti per trovare la vera
felicità e non lasciare
che nessuno te lo impedisca. Tu lo puoi fare bella ragazza, ora ne sono
più
sicuro che mai: sei forte e puoi affrontare ogni cosa. Prima cerca in
te
stessa…” Write chiuse gli occhi per calmarsi: era
pronto ad andarsene per
sempre dalla vita della sua migliore amica, come lei aveva chiesto.
Si
voltò, e, senza parlare, senza incrociare quello
sguardo che aveva l’intensità di due colori, si
allontanò da quella che per
quindici anni era stata il suo centro.
Sapeva
che era tutto finito, ma almeno lei, forse,
avrebbe ricominciato, senza di lui. Ricominciato veramente.
“Ehi
stronzo!” la voce di Flika non esprimeva più
rabbia e paura, ma solo gratitudine e voglia di seguire la strada che
Write gli
aveva riaperto difronte nonostante le sue proteste: “Forse
non sarai il mio
arrivo, ma di sicuro sei la mia partenza. Hai ragione, posso farcela,
ma non
sola: resta con me.”
Il
ragazzo non parlò, ma non serviva: i suoi occhi,
il suo sorriso, ogni parte di lui esprimeva la gioia di poter
continuare a
vivere a fianco di Flika.
“Torniamo
a scuola.” Riprese lei con una luce furba
ad illuminarle gli
occhi:
“Voglio salutare la piovra con qualcosa di
molto simile ad un insulto.”
E
mentre, ridendo, prendeva la mano tesa di Write,
Flika Mayor capì due cose: non avrebbe mai smesso di cercare
la felicità e non
avrebbe mai più sofferto come quel giorno.
L’incubo
era finito. L’illusione si era spezzata.
E
Flika, finalmente, si era svegliata su una strada
nuova. Con lei? Un ragazzo biondo e tanta voglia di essere felice.