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Autore: hanabi    26/06/2013    0 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Il fuoco aveva salvato Ran, e un altro fuoco illuminava la festa nel quartiere della Squadra Sacrilega. Ma le porte erano aperte a tutti, e la baldoria era così clamorosa che tutta la Comunità non aveva chiuso occhio nella notte piena di stelle. Le risate e le grida salivano fino al cielo, assieme al fumo e all’odore di pane e carne arrostita.

Ran, vestito a festa e ben satollo di buon vino, si dava all’ennesima riproposizione in chiave epica della fuga da Zakkara, di cui era uno dei pochissimi testimoni; questo arricchiva di particolari emozionanti un evento che Deyan ricordava solo come una catena di colpi di fortuna.

Nell’incertezza seguita alla morte di Jenna, i guerrieri sayanni erano finalmente giunti a dar manforte ai propri compagni. I kelith se li erano visti arrivare addosso e non avevano più avuto il tempo di considerare se rispettare Deyan o trascinarlo in catene a Deera: si erano dati alla fuga, portandosi dietro il cadavere del loro signore. I sayanni da parte loro si erano precipitati all’attacco, senz’altro pensiero che quello di spazzar via gli invasori (a cui probabilmente avrebbero addebitato la perdita del loro tesoro). In quella situazione caotica Deyan era riuscito a liberare Ran dalle sue catene, e insieme a Nemel e al comandante prigioniero (che Ran si era trascinato dietro senza tanti complimenti, pronto a usarla come ostaggio), si era nascosto tra le rocce, giusto in tempo per non essere coinvolto nella battaglia.

Lunghi istanti d’ansia... e poi finalmente il Vortice li aveva presi tutti, e si erano trovati su Luna di Fuoco; Nemel e la guerriera svenuti, Ran sanguinante e in preda alla nausea, Deyan col fianco in fiamme e la follia negli occhi.

Ma ancora vivi!

Ed era quella, la vera impresa. Aver rubato un tesoro senza aver perso nemmeno un uomo, nonostante le incredibili avversità che avevano riunito lì così tanti nemici. 

“Quindici scrigni!” esclamava Ran, concludendo il suo racconto tra le acclamazioni degli ascoltatori. “Il bottino di un’intera stagione... anzi per molti di tutta una carriera... e noi ce lo siamo portato via in una sola missione!”

“Quindici scrigni e una prigioniera,” corresse qualcuno. 

“Quella che stava per farmi schiacciare la testa?... Meritava che la lasciassi ai kelith, quella disonorata. Ma sono un predone dal cuore d’oro...”

“Di dorato tu hai solo le monete nella scarsella.”

Una gran risata seguì quella battuta, e Ran fece la faccia offesa.

“Cos’è questo cinismo? Non fa parte della mia natura. Ho solo... corretto il piccolo sbaglio commesso dalle Divinità con lei, e l’ho messa nel posto più adatto alle sue inclinazioni!”

“Cioè?” chiese Deyan, quando Ran si avvicinò per versarsi un’altra coppa di vino.

Lui si guardò a destra e a sinistra. “L’ho venduta a un bordello dalla robusta clientela: me l’hanno pagata bene perché è una guerriera, e dicono che la mia casta è quella più compressa in certe faccende, ma quando si libera...”

Non finì la frase, con un velo del suo solito imbarazzo.

“Un altro esempio della tua proverbiale saggezza.” 

“Non sono neppure sicuro che sia una vendetta, Deyan-shir. Forse così l’ho fatta felice. Ma del resto dovevo pur ringraziarla per avermi parlato tanti cicli di soli fa di quel tesoro, no?”

“Intanto hai arrotondato il nostro bottino.”

“Mi fa impressione, pensare a quando una cifra come quella mi sarebbe sembrata munifica. E adesso è solo un’aggiunta a un mare di ricchezze.”

“Non sono tutte nostre,” lo corresse Deyan. “In realtà, dedotti i costi di quest’impresa, ne avremo solo per chiudere la stagione con un ricco premio per tutti.”

“Sì, ma adesso siamo una Grande Squadra. Quel che abbiamo fatto è già nei racconti dei trovatori, e la nostra fama è alle stelle. Non è solo il tesoro che ci siamo portati dietro da Zakkara...”

Deyan abbassò lo sguardo.

“No,” mormorò. 

Io mi sono portato dietro l’inferno.

Ran sapeva che Jenna aveva conficcato in lui qualcosa di più di uno stiletto. 

Gli riempì la coppa di vino. “Ogni cosa a suo tempo, Deyan-shir. Non è il momento di pensare, questo.” Gli posò una mano sulla spalla, facendolo trasalire. “Guardati intorno, amico mio. È il momento di festeggiare, di godersi il piacere del successo... e condividerlo con gli altri. Lo dobbiamo a loro, prima ancora che a noi stessi. Inebriati un po’, sbarra la mente ai pensieri e alle angosce... e vivi questo momento di gioia, come un vero predone.” 

Deyan voleva dirgli che non poteva capire quanto fosse profonda l’angoscia che stava provando... ma ricordò di aver davanti un uomo che per ben due volte si era ritrovato sul punto di essere giustiziato, per poi essere messo in catene e quasi imbarcato verso una morte atroce. E ricordò il suo urlo liberatorio quando si era trovato nel Cerchio, nella Grande Casa... i suoi occhi sbarrati in un’esultanza allucinata quand’era uscito da lì, tuffandosi quasi tra gli altri membri della Squadra... l’abbraccio quasi disperato con cui aveva rischiato di stritolare la povera Naysiak, facendola quasi sparire nella propria immensità. 

Anche tu hai le tue ferite, Ran...

Sospirò e fece un pallido sorriso. “Ci proverò.”

Ran rispose al sorriso e si alzò in piedi. Ondeggiò un poco, ma si piantò saldamente sulle gambe e alzò la propria coppa. 

“Ascoltatemi tutti!”

“Ancora?!” fece Chat. 

“No, basta racconti,” disse lui, tra le risate di tutti. “Ma è tempo di brindare: questa compagnia mi sembra troppo poco ubriaca per i miei gusti!”

“Giusto!” gridarono molte voci. 

“Allora: brindiamo ai Marjaban... che quando avranno finito i conti si prenderanno una bella fetta del nostro tesoro, per il disturbo di averci portato qui... certo, sotto il naso di un mucchio di nemici... per cui siano sempre lodati e ringraziati, anche se la pelle la rischiamo noi.”

“Viva i Marjaban!”

“E brindiamo ai nostri bravi musici, ai cuochi e ai fornitori di vino, che stasera ci alleggeriranno ulteriormente per farci pagare la nostra gioia!”

Qualche urlo si levò in risposta, e i tamburi rullarono.

“Sì, compagni predoni: tutti costoro ci strapperanno il frutto del nostro duro lavoro... ma quanto vale, questo momento di gioia e di libertà in mezzo a voi? Esiste qualcosa di simile nel mondo che abbiamo lasciato?” E indicò il disco bianco, bruno e azzurro che dominava il cielo notturno. “Un luogo dove tutto quel che siamo è già stato deciso alla nascita, sia per i kelith che per i sayanni... e a noi non resta che obbedire?” Puntò un dito a terra. “Qui almeno nessun destino è già scritto in partenza. Siamo su Luna di Fuoco, fratelli, e qui nulla è impossibile!”

Ci fu un’ovazione, e Deyan osservò le facce dei predoni, illuminate dal fuoco: erano piene d’orgoglio.

Ran, finalmente cominci a credere a te stesso come Khanshir?

“Già, amici miei: qui tutto può succedere... che io, un bandito perennemente assetato, abbia ora abbastanza ricchezza da poter dissetare tutti coloro che mi circondano... e che mi ritrovi a dover la vita a un nobile kelith!”

Tutti gli occhi si fissarono su Deyan, con un mormorio d’approvazione. 

“Lui è stato la vera mente di quest’impresa... e anche qualcosa di più. Dopo il tesoro, ha rubato... anche me.” E qualcuno rise. “E con questo siamo pari a quando fui io, a rubare lui... entrambi da un’esecuzione. Quel che provo per un amico così leale e coraggioso...” Intercettò uno sguardo ammonitore di Deyan, “... beh, non ve lo dico: sono affari suoi e miei. Ma noi tutti abbiamo un debito con i compagni che l’hanno aiutato, perché grazie a loro la maledetta giustizia sayanni è stata beffata ancora!”

Tutti i sayanni mandarono un urrà. 

“E che dire del mio vecchio socio Nemel, che è rimasto eroicamente ferito...” 

“Presente,” replicò il predone, col volto violaceo. 

“Come, presente? Non posso fare il tuo discorso celebrativo, così. Vai a farti curare!“

“E lasciarti la mia quota di vino?” Nemel alzò la tazza a sua volta. “Ran, ti hanno mai detto che parli troppo? Falla finita con tutti questi discorsi, e beviamo!”

“Beviamo!” assentì Ran, tracannando il vino, imitato da tutti i predoni. 

Deyan trasse un sorso del proprio, e posò la coppa. Non si sarebbe ubriacato: un nobile doveva perdere il controllo solo in luoghi molto riservati, e al limite solo tra suoi simili. E lui di simili non ne aveva: su Luna di Fuoco era completamente solo.

E cominciavo ad abituarmi ad esserlo...

Ma in quel momento gli pesava. Si rese conto che l’aver parlato con Jenna gli aveva messo davanti agli occhi il mondo a cui era sempre appartenuto, e che lo chiamava a sé. E una parte di lui avrebbe voluto salire su quella nave, per stare insieme a un altro membro della Razza Sovrana; pur sapendo che su Kelitha l’attendeva un destino di morte...

E invece sono qui, dove gli unici esseri come me sono le mie schiave. Jenna sarebbe stato una compagnia più interessante, anche a letto dove probabilmente mi avrebbe invitato... prima di uccidermi.

“Musica!” gridò Ran, spronando gli strumentisti.

Le note delle danze sayanni cominciarono a risuonare, aumentando l’allegria dell’intera compagnia; al punto che qualche kelith ubriaco si alzò e si mise a ballarle con le molli movenze del suo popolo; altri batterono le mani a ritmo, divertiti dallo spettacolo.

Ran tornò al suo posto, accanto a Deyan, e si guardò intorno.

“La tua Xarani dov’è?”

Mi sembrava strano, che non chiedesse di Naysiak... 

“Dietro di te, appostata sulle mura.”

Ran si voltò, alzò gli occhi e notò a fatica una sagoma accovacciata, che si stagliava contro il cielo stellato. 

“Perché è lassù?”

“Da là può tenermi d’occhio senza bisogno di starmi vicino.” Un remoto sorriso. ”E finire di ingoiare la sua medicina amara.”

“L’hai fatta punire ancora?!” 

“Deve imparare a rispettarmi.”

Non le chiedo molto di più...

Ma già al suo arrivo se l’era trovata davanti, a squadrarlo con i pugni ai fianchi e uno sguardo di rimprovero che nessuna schiava avrebbe mai dovuto permettersi col proprio padrone. Poi, vedendolo pallido e con un fianco sanguinante, aveva pensato bene di accorrere a sorreggerlo, mettendolo in imbarazzo davanti a tutti. L’aveva trascinato a casa quasi di peso, come se avesse deciso lei che dovesse essere curato, e Deyan era stato troppo provato per impedirglielo; ma non appena il chirurgo era uscito aveva ordinato a Ibal di darle una decina di vergate sulle mani, per insegnarle una buona volta a tenerle a posto. Era una punizione più che altro simbolica per una dura guerriera, ma incredibilmente lei non l’aveva accettata e si era ribellata.

Ne era seguito uno sconcertante litigio, che Deyan aveva accettato unicamente perché gli permetteva di non pensare a quel che era successo a Zakkara...

“Stendi le mani a Ibal, è un ordine!”

“Naysiak non fatto niente male, perché punire?”

“Non devi mai toccarmi senza permesso.”

“Perché? Randanai tocca.”

“Lui è un amico, tu sei soltanto una schiava!”

“Naysiak schiava? Questo non male. Schiave tocca Seriema, lui contento.”

“Per caso la vergine guerriera avrebbe voglia di toccarmi come fanno loro?”

Lei aveva osato fare la faccia offesa. “Naysiak non animale.”

“Le mie albine sono molto meno animali di te.”

“Seriema pericolo, aiutare schiave molli sì padrone oh padrone ancora padrone?” Si era battuta un pugno sul petto. “No! Naysiak aiutare, Naysiak uccidere nemico!... Sacra mano Xarani tocca Seriema, onore grande. Lui punire. Naysiak non capire.”

“Le tue mani per me non hanno proprio nulla di sacro.”

Uno sbuffo. “Seriema kelith, niente sacro per lui.”

“Io, sono sacro. E soprattutto per te. Impara a rispettare i tuoi superiori!”

“Naysiak rispetta superiori.” Aveva alzato un dito al cielo. “Kamoh e Lilia, superiori di Xarani!”

Deyan si era adombrato. Era un’affermazione troppo simile al motto della casata di Shana, Solo gli dèi sopra di noi... come si permetteva quella femmina di farlo proprio?

“Prima dei tuoi dèi ci sono io, il tuo padrone.”

“Naysiak obbedire Seriema per patto con dèi.” Uno sguardo sdegnoso. “Kelith superiori sayanni? Kelith superiori Xarani?!... Hye! Nahin ne!”

“Bada, Naysiak. Non sono dell’umore per sopportare le impertinenze di una schiava!”

“E Naysiak stanca sopportare stranezza di altro schiavo!” era esplosa lei, perdendo ogni ritegno.

Un silenzio agghiacciato aveva seguito quell’incredibile affermazione. 

“Cosa sarei, io?...”

“Kainakai. Schiavo.” Si era puntata un dito alla guancia. “Seriema segno qua.” Poi il suo dito era sceso sul corpo, un po’ dappertutto. “E segno frusta qua, qua, qua, qua...”

“Tu vuoi che ti uccida,” aveva mormorato lui, pallido di furia. 

Lei si era illuminata tutta. “Uccidi. Naysiak contenta!”

“Potrei accontentarti, ma non ti piacerebbe il modo.”

“Molte strade, meta una. Naysiak non paura!”

Deyan l’aveva presa per una sfida, quale effettivamente era: aveva ordinato a Saal di andare ad affittare un carnefice dalle case dei mercanti di schiavi. Ibal aveva rispettosamente fatto notare che la barbara non provava dolore come gli esseri civili, quindi ci sarebbe voluto un vero professionista, e dubitava che su Luna di Fuoco si trovassero. Saal proponeva invece la semplice mutilazione di qualche parte poco utile, o addirittura dannosa (come la lingua), per non sprecare quella che si era rivelata una discreta lavoratrice...

Avevano discusso animatamente, mentre Deyan sentiva la nausea crescere dentro di lui: l’effetto dei residui del veleno che gli erano rimasti nel sangue. E a peggiorare il suo mal di testa aveva contribuito Naysiak che si era messa a cantare marzialmente, con voce da spaccare i timpani, gli occhi fissi al vuoto con espressione da eroina.

Tahond tani kayi tayi! Jinna-ni ue-me aytiyai! Tahond tani kayi tayi! Jinna-ni ue-me aytiyai...”

“Basta!...” aveva ruggito lui, esasperato. 

Tutti s’erano azzittiti, tranne lei che aveva continuato a cantare.

“Sono troppo stanco per combattere anche questa battaglia. Toglietemi di torno questa femmina invasata e chiudetela da qualche parte! Penserò a lei a mente fredda.”

E se n’era andato a riposare nella shanda, mentre Naysiak veniva spogliata e gettata in un pozzetto di raccolta scavato nei sotterranei della casa: un luogo da cui quel fastidioso canto guerriero non desse troppo fastidio. L’avevano ulteriormente attenuato chiudendo la botola, ma la voce squillante di lei era trapelata lo stesso, colma di ostinazione. 

Aveva cantato per svariate clessidre di tempo. Poi la sua voce era divenuta incerta. 

E si era finalmente spenta.

Un silenzio riposante era sceso su tutta la casa, e tutti avevano tirato un respiro di sollievo... ma quando ormai erano convinti che sarebbe durato, un grido si era levato dalle cantine.

Ed era angoscia allo stato puro.

Deyan, sul suo letto, aveva aperto gli occhi con un tetro sorriso. 

Dunque non è vero che non hai paura di niente, Naysiak...

Dopo più di un millennio trascorso da sepolta viva, era diventata claustrofobica. Aveva picchiato i pugni contro le pareti, tra ansiti isterici; gridato con rabbia, minacciato, poi implorato di essere tirata fuori da lì, aveva invocato con voce piagnucolosa gli déi, gli spiriti, il padre e la madre... e alla fine si era messa a strillare in preda al panico.

“Seriemaaaaaa!...”

Deyan si era alzato a sedere tra i cuscini. “Ibal!”

L’eunuco si era immediatamente presentato, con aria rassegnata. “Sì, padrone?”

“Portami due ragazze, e sceglile... tra quelle che piangono più facilmente.”

Lui era rimasto allibito. “Ma il padrone è stanco e ferito...” Uno sguardo tagliente di quegli occhi rossi, e si era subito inchinato. “Questo servo chiede perdono. Provvedo subito.”

Al mattino i servi erano scesi nelle cantine, avevano aperto la botola del pozzo e avevano trovato la sayanni miseramente appallottolata sul fondo, tutta graffiata e orribilmente insozzata: il terrore l’aveva vinta al punto di scioglierle le viscere. Era così sfinita da non riuscire nemmeno a muoversi: l’avevano tirata fuori a forza, lavata e riportata al loro signore, che l’aveva guardata senza più animosità.

“Mi mancherai ancora di rispetto?”  

“Hye, Seriema,” aveva singhiozzato lei, con gli occhi a terra.

“Bene. Perché non farò pulire quel pozzo, lo terrò pronto per la prossima volta in cui ti comporterai male; e stavolta farò inchiodare la botola. Ci siamo intesi?”

Lei aveva annuito, tremante.

“Guardami in faccia e rispondimi.”

Aveva obbedito, umiliata. “Ya, Seriema.”

Deyan si era immaginato la faccia del suo amico, se avesse visto quel viso tondo così rigato dalle lacrime... 

“Sei congedata.”

Saal l’aveva fissato, stupito. Tutto lì? Niente mutilazioni, niente frustate, niente privazioni? 

Lei era barcollata verso la shanda, rintanandosi nel suo giaciglio e cercando conforto nell’abbraccio della pelle di tigre di Ran. Non aveva mangiato nulla e non aveva più detto una parola. Aveva passato tutto il tempo a fissare il vuoto, scuotendosi solo quando aveva sentito che il padrone si apprestava ad uscire: il senso del dovere era stato più forte di tutto. L’aveva seguito in armi, come sempre; ma standogli a distanza, con chissà quali pensieri. 

Ed ora sedeva sulle mura, indifferente al vento freddo, il volto rivolto al mondo... a Sayanna.

“Sei stato tu a vietarle di far festa?” chiese Ran, guardandola. 

“Non le ho vietato nulla. Forse preferisce rimanere da sola.”

“Sciocchezze, Deyan-shir. Nessun sayanni preferisce rimanere da solo.”

Si alzò e andò sotto di lei per parlarle. La musica impedì a Deyan di sentire cosa le diceva, ma la vide sporgersi e scuotere la testa.

Ran ovviamente non si arrese. Fece dei gran gesti, mimò una danza. Poi, visto che lei non si muoveva, andò a una scala a pioli che era appoggiata al muro e la portò con intenzione sotto di lei. A quel punto Naysiak si alzò e saltò giù da dove si era appostata, un balzo di più di quattro stature da cui atterrò con sbalorditiva disinvoltura.

Ran la prese per mano, attirandola verso il gran fuoco. Lei resistette: Pushpa aveva spiegato a Deyan che gli Xarani danzavano solo a scopo religioso. Ma Ran non voleva sentir ragioni: la trascinò ridendo verso gli altri, e siccome lei continuava ad arretrare si chinò ad afferrarla per le gambe, sollevandola di peso per costringerla a ballare con lui. Lei finalmente si lasciò andare a una risata e puntò le mani sulle sue larghe spalle, cercando di divincolarsi; lui la imprigionò ancora più strettamente e si mise a danzare, la faccia praticamente affondata nel suo corsetto... e lei alla fine si arrese, circondandogli il collo con le braccia e lasciandosi trasportare.

Deyan non poté fare a meno di distogliere lo sguardo, con imbarazzo tutto kelith: quella scena gli sembrava troppo intima tra un uomo e una donna per essere mostrata in pubblico. Gli altri sayanni invece erano indifferenti, come se in quell’abbraccio non ci vedessero altro che un normale cameratismo.

Ma è veramente cameratismo? 

Deyan sapeva che Ran, da bravo sayanni, era piuttosto generoso nei suoi abbracci (una cosa che all’inizio del loro sodalizio era stato un incubo per lui, abituato al riserbo della sua razza); ma il modo in cui cercava il contatto con Naysiak era diverso: sembrava trarne qualcosa di speciale, una gioia che i compagni maschi non gli davano. Ma continuava ostinatamente a dire che quello era il normale atteggiamento tra commilitoni. Forse, semplicemente, si rifiutava di ammettere i propri istinti in onore del mito della purezza sayanni; e Deyan pensò torvamente che era ipocrita ad accusarlo di non aver rinunciato a tutti i suoi pregiudizi, quando era evidente che la stessa cosa valeva anche per lui.

Cosa c’è di così innaturale nel provare attrazione per una femmina... perché è femmina?

Ran non resse molto nella sua danza, mezzo ubriaco com’era: dovette fermarsi e lasciar andare la sua prigioniera. Chinò la testa a guardarla in faccia alla luce del fuoco, e Deyan vide un gesto quasi delicato, le sue dita che sfioravano il volto di lei. Naysiak respinse la sua mano e gli assestò un violento spintone, mandandolo a terra; si strusciò gli occhi con una mano furtiva, esitò, poi si riavvicinò, sedendosi accanto a lui. Altri sayanni si accomodarono intorno a loro e si passarono un’anfora di vino; lei naturalmente rifiutò, astemia come tutte le guardie sacre, e nessuno si offese. Ran però non aveva nulla da sorvegliare e bevve ancora, per poi posare la testa sulla sua spalla, con espressione beata. Lei non fece nulla per allontanarlo, gli passò anzi un braccio sulle spalle per sorreggerlo, e fece un lontano sorriso, mentre tutti chiacchieravano intorno a lei. 

Se Ran non si decide, lo farò io per lui, pensò Deyan guardando quei due.

 

 

 

*


 

 

 

Gamosh guardava con una smorfia il nuovo ambasciatore di Deera, un nobile obeso e dalla faccia liscia come quella di un eunuco; anche la voce era piuttosto acuta, e la trovava fastidiosa. 

“Il nobile Jenna-shir... morto?!”

I piccoli occhi dell’ambasciatore si strinsero ancora di più.

“Ahimè, gran principe, sì. Triste è stato il ritorno della nostra nave, che avevamo mandato secondo la tua richiesta... ehm, un segno della nostra amicizia e stima per il tuo potente principato. Un malore improvviso ha stroncato il margravio, e il viaggio è stato interrotto. Il capitano ha riposto le nobili spoglie nella bara con i liquidi conservanti che avevamo approntato per riportarti l’eventuale cadavere di... ehm...”

“Deyan,” completò Gamosh. 

L’ambasciatore deglutì a sentire l’odio con cui il principe pronunciava quel nome. 

“È pur sempre di Razza Sovrana,” disse, con tono di scusa. 

“Apprezzo la sollecitudine”, replicò Gamosh seccamente. “Quindi quella bara non è stata utilizzata per riporvi un criminale, ma è diventata rifugio per le spoglie del nobile Jenna: un discreto insulto per il vostro margravio, ma capisco lo stato di necessità. Immagino che i medici ne abbiano esaminato il corpo, e abbiano potuto stabilire le cause di questo suo malore... mi era sempre sembrato in ottima salute.”

“Sfortunatamente non è stato possibile, gran principe.”

“Che cosa?”

“La nave si è imbattuta in una tempesta che l’ha spinta fuori rotta, e solo dopo molte tribolazioni è riuscita a tornare a Deera. Purtroppo i marosi avevano danneggiato la bara; e dato che mancavano ancora molti giorni all’arrivo, e il nobile corpo di Jenna-shir non avrebbe retto alla disdicevole... ehm, corruzione, il capitano ha ordinato di cremarlo.”

Le labbra di Gamosh si strinsero. 

“Cremarlo?”

“Non c’era altra soluzione per evitare che gli... ehm, sgradevoli effetti della sua morte giungessero alle persone comuni, danneggiando il ricordo della sua... ehm, dignità. Ma tutto è stato fatto nella massima solennità. Le ceneri sono state tumulate poi a Eri in un solenne funerale, alla presenza del nobile Khandar-shir.

Gamosh batté nervosamente il frustino sugli stivali da cavaliere delle sabbie. 

“Immagino che avrete fatto una approfondita inchiesta per verificare la buona fede del vostro equipaggio.”

L’ambasciatore spalancò gli occhi, cavando dalla veste un fazzoletto di garza con cui si tamponò il volto sudato. 

“Non abbiamo motivi per dubitarne, gran principe...”

“Prendere il mare con un nobile di altissimo rango a bordo, il primo dopo decadi... e tornare a mani vuote con quel nobile morto, senza essere stati in grado di proteggerlo, né di vendicarlo... non conosco gli usi della tua nazione, ambasciatore, ma qui a Shana quei marinai sarebbero stati tutti impalati.” 

“Ehm, senz’altro, e anche a Deera...”

Un tetro sorriso. “Invece, raccontando questa storia, quei vigliacchi hanno potuto tornare a casa, restituendo a Khandar-shir un’urna graziosa nella quale si spera che ci siano almeno le ceneri del nobile Jenna, e non quelle di chissà chi... così voi non avete prove della sua morte violenta, e siete costretti a credere alla storia del malore; e vi conviene anche, perché così almeno recuperate la vostra nave e le vostre truppe, che altrimenti sarebbero andate a nutrire le flotte dei pirati.”

L’ambasciatore sudava copiosamente. 

“Gran principe, mi permetto di obiettare a queste... ehm, insinuazioni. Il nobile Jenna era parente del principe Khandar, e universalmente stimato a Deera. Se soltanto avessimo avuto il minimo sospetto di una frode mostruosa come quella che ipotizzi avremmo... ehm, preso provvedimenti.”

“Io avrei fatto torturare gli ufficiali, uno per uno, con gli altri ad assistere. Se ci fossero state delle frodi, prima o poi qualcuno avrebbe parlato.”

“Gran principe, gli ufficiali hanno tutti giurato, e anche il medico di bordo...”

“Non importa,” lo interruppe Gamosh, nauseato. “Spero che almeno il capitano sia stato arso vivo, per aver mancato di rispetto al cadavere di un nobile della casa regnante. Noi albini siamo imbalsamati e inumati, non bruciati come vile spazzatura sayanni!”

“Il capitano è stato... ehm, decapitato, gran principe. Come offerta funeraria sulla tomba di Jenna-shir.”

Gamosh ebbe un’espressione furiosa. 

“Voi di Deera avete una considerazione troppo bassa della vostra nobiltà; lo farò presente all’Augusto Consorzio.”

“Ma, gran principe...”

“Avete mandato un margravio a cercare un criminale, quando poteva bastare un comune cacciatore di taglie.”

“Faccio rispettosamente notare che quel criminale è... di sangue reale...”

“È uno schiavo!” tuonò Gamosh. 

L’ambasciatore chinò la testa, con le mani che tremavano.

“Pensavamo... di renderti onore, gran principe...”

“Prendo nota delle vostre nobili motivazioni,” sibilò Gamosh, in tono minaccioso. “Sappiate che mi sono ben chiare.”

Seguì un pesante silenzio. 

“Però come nobile non vi perdono per aver barattato la vita inestimabile di un membro della Razza Sovrana... in cambio di una volgare nave e la vita di un mucchio di marmaglia senza valore. Pertanto non pagherò la somma che mi avevate richiesto come contributo alla missione. Ritengo che abbiate già avuto adeguata compensazione.”

L’ambasciatore restò a bocca aperta. 

“Gran principe, avevi firmato un accordo...”

“Non è più valido. Vi darò due schiavi sayanni per i giochi funerari, ma solo come mia offerta personale alla memoria del nobile Jenna-shir che ormai era di casa alla mia corte.” Un gesto secco con la mano. “Puoi ritirarti, ambasciatore.”

L’ometto obeso esitò, gettò un’occhiata alle guardie... e poi cercò comunque di inchinarsi con grazia.

“Gran principe,” mormorò, arretrando. 

Gamosh restò a guardarlo, con una smorfia. 

Viscido come il suo predecessore, ma me lo sta già facendo rimpiangere. Era l’unico uomo valido in quel paese di  mercanti parassiti! Si prenda Deera il costo di questo fallimento: io volevo solo Deyan, e quel maledetto l’ha fatta franca anche stavolta. 

Si voltò e si diresse verso i propri quartieri: non aveva più voglia di cavalcare, anzi, era un esercizio che gli dava sempre meno piacere, man mano che diventava più massiccio e meno elastico. Per quanto gli procurassero i corsieri da deserto più grandi e forti e li addestrassero a tenere un passo uniforme, gli scossoni al suo corpo gli divenivano presto insopportabili. Non era mai riuscito a eguagliare la grazia di Bakar, che si esibiva cavalcando in piedi sulla sella col suo corsiere lanciato a tutta velocità; né la linearità di Deyan, che cavalcava con l’attitudine di un carovaniere, più contento di percorrere venti leghe che farne una in un lampo. In quanto a Nabil, si muoveva solo in palanchino. 

E forse è questa la scelta più saggia, per un principe. 

Limitando le cavalcate a quelle che si facevano piacevolmente nella shanda, dove la sua fantasia aveva fatto approntare anche adeguati finimenti per le schiave...

Il pensiero lo eccitò, fece per raggiungere la propria sala del piacere. Ma esitò. 

E si diresse invece verso la stanza riservata al suo ultimo acquisto, senza passare prima per i lussuosi bagni che pure erano già pronti. 

Voglio che senta l’odore della mia cavalcatura, il mio sudore, la polvere sul mio corpo. 

La sorprese in piedi, davanti allo specchio della sua alcova, un elegante cubicolo foderato di stoffe scure che bevevano quasi la luce delle lampade aromatiche. Si stava appuntando i lunghi capelli bianchi, e le braccia alzate mettevano in evidenza le curve generose del seno, mentre il resto traluceva dall'audacissima veste trasparente che le scendeva fino ai piedi, scintillanti di gioielli. 

La bianca dea dell’amore in carne ed ossa. 

Lei lo vide e si voltò di scatto, ma non si gettò in ginocchio: si inchinò nobilmente, un ricordo di quando era ancora Prima tra le Prime. Poi si avvicinò a lui, i tondi seni che sobbalzavano gentilmente ad ogni passo. 

“Benvenuto, mio signore,” mormorò, ad occhi bassi. 

Gamosh la guardò, avidamente. Era bella, e questo era normale nel serraglio di un principe... però aveva anche un fascino adulto tutto particolare, che le altre schiave non avevano. 

Non dev'essere una donna dappoco, quella per cui Deyan ha gettato via il trono di Shana.

Provò a ignorare quel corpo provocante e le mise una mano sugli occhi, coprendole la parte superiore del volto e immaginandola così come il fratello l'aveva vista, la prima volta. 

Anche con una maschera, è sensuale... ha una bocca perfetta. 

Si avvicinò ad essa, sentì il profumo del miele rosso che copriva quelle labbra. C’era un'aroma di spezie, nel suo fiato. Lei rimase perfettamente immobile, disponibile, ma senza timore. Se mai era possibile dominare qualcuno con la sottomissione, lei ne conosceva il segreto alla perfezione. 

“Volevo farti un dono, ma purtroppo gli strumenti che dovevano procurarmelo hanno fallito.”

“È terribile incorrere nella tua ira, mio signore.”

“E la tua? L’hai mai provata?”

“Solo quella che il mio signore ammette.”

“Eri una regina, e uno Shanì in una notte ha cambiato il tuo destino. Reietta, cacciata... venduta.”

La vide irrigidirsi, e fu delizioso. 

“Non sapevo che fosse lui,” sussurrò appena. “Sono stata ingannata...”

“Hai provato piacere tra le sue braccia.”

Lei respirò più forte.

“Mi vergogno, mio signore...”

“E il tuo padrone ti ha punito per questo.” 

“Ero innocente...”

“Mostrami la punizione.”

Lei esitò, poi con movenze morbide si sfilò il vestito di velo, facendolo cadere a terra. Si sedette sull’orlo del letto.

“No. Voltati. In ginocchio, e apri le gambe.”

Lei tremò, ma obbedì. 

Gamosh sorrise a quello spettacolo. Lei sembrava umiliata... e allo stesso tempo complice del gioco. Le si avvicinò, posandole una mano sulla curva della schiena, e chinando la testa a studiarla.

“Queste piccole cicatrici...” Le toccò, e lei trasalì. “Deve averti fatto male, quando ti ha fatto cucire.”

“Sì, mio signore.”

“Ma poi ti ha fatto togliere i punti.”

“Dopo tre giorni... ha cambiato idea.”

“Altrimenti saresti morta.”

“L’avrei preferito, mio signore.” 

“Io ti avrei uccisa,” replicò lui. “Lasciarti viva... per fare confronti?”

“Non oserei mai, mio signore.”

“Quanti maschi ti hanno montata, finora?”

La sentì rabbrividire. 

“Quanti?” ripeté lui. “Non sei giunta vergine nel letto di Estsen, vero?”

“No, signore... fu mio padre a iniziarmi.”

Gamosh fece una smorfia. I divieti all’incesto naturalmente non valevano per gli albini, ma la pratica di mettere le figlie nel proprio letto rovinava la razza, oltre a essere considerata micragnosa. Solo i nobili spiantati si producevano il materiale della shanda direttamente in casa... 

"E poi?" incalzò. "Chi altri?"

 Bella come sei, non sarai rimasta a lungo senza compratori...

“Il... conte Ersha; al primo sangue, mio padre mi vendette a lui. Fu messo a morte, e io fui tra i beni confiscati dalla Corona... così entrai nella shanda del principe Estsen. Poi... arrivò lui.” Prese fiato. “Il nobile Deyan.”

“Quattro.” Gamosh si raddrizzò. “E con me, cinque. Ne hai, di esperienza, per giudicare chi è il migliore di tutti!”

Aveva ancora in mano il suo frustino. Lo guardò, poi lo abbatté sulle natiche esposte della donna, che si contorse con un grido. 

“Ferma. Avrai una frustata per ogni tuo amante. Questa è per tuo padre.”

Il frustino schioccò di nuovo, e un’altra riga rossa si incrociò con la prima. Lei gridò ancora, poi gemette, e fece per portarsi una mano sul segno.

“Non toccarti. Questa è per quell'Ersha, di cui non conoscevo neanche l'esistenza.”

Un altro colpo... un altro contorcimento eccitante.

“Questa è per Estsen.”

La frustata successiva fu la più violenta, e lei gridò senza ritegno, lamentandosi poi con voce fioca.

“Questa è per Deyan.”

Lei si morse le labbra. “Oh basta... basta, signore...” Si strusciò sul letto, il bellissimo volto congestionato, le gambe tremanti. “Se questo bruciore... è la misura del piacere che mi ha dato il nobile Deyan... non potrei sopravvivere... al colpo che prepari... per te.”

Lui restò sbalordito. 

Che cosa?!

Lei lo guardò spavaldamente, da sotto la cascata di bianchi capelli. “La tua frusta mi taglierebbe in due... perché non c’è uomo... che sia pari a te, mio signore. Appartenerti, per me... è la gioia più grande!” Alzò le natiche rigate, con espressione estatica. “Oh signore, splendido e crudele!...”

Gamosh sentì qualcosa di nuovo in sé, uno strano calore che proveniva dal petto, e non solo dai lombi. 

Splendido e crudele.

“Non hai neanche cominciato a imparare quanto posso essere crudele,” sibilò, e alzò di nuovo il frustino: lei si tese tutta con un ansito pieno di aspettativa...

Ma non la colpì. La toccò ruvidamente tra le gambe, e si ritrovò la mano bagnata.

“Osi godere di me?!”

Lei si leccò le labbra. “Sì.”

Provò una deliziosa rabbia, ma mai un insulto gli era sembrato più piacevole. Non aveva mai sentito una tale sensazione di complicità con una schiava: era una cosa nuova, un liquore mai assaggiato. 

Finalmente una donna che sa davvero l’arte di compiacere un uomo!

Pensò ai tanti giochi sadici di cui era esperto, e alla novità di farli con una femmina che li avrebbe goduti assieme a lui, e non semplicemente piangendo o implorando pietà. Ma non avrebbe rovinato quel corpo meraviglioso, piuttosto avrebbe sacrificato qualche schiava di poco conto. La voleva accanto, come una spezia che insaporisse ogni piatto, con tutto il suo disonore eccitante, la compagna ideale per una nuova stagione di segreti divertimenti...

La ribaltò sulla schiena. Lei gemette e si inarcò, ma poi lo guardò con occhi assolutamente adoranti. 

“Possiedimi, mio signore. Ora, subito. Non desidero altro... non esiste altro per me.” Le sue mani ardite salirono ad afferrare i suoi abiti, attirandolo senza smettere di guardarlo negli occhi. “Sei il mio salvatore. Sei l’uomo... più eccitante che esista!”

E Gamosh scoprì di crederlo. Con tutto se stesso. 

 

 


 

*

 


 

 

Naysiak lasciò cadere il secchio che portava.

L’acqua si sparse sul pavimento, e il servo imprecò. Era un bene prezioso, su Luna di Fuoco, e quella barbara l’aveva sprecata...

Ma lei aveva ben altro da fare, che asciugare il pavimento. Senza esitare un istante si mise a correre per tutta la casa, travolgendo Saal che stava portando via un vassoio; non si fermò ad aiutarlo, scavalcò coppe e piatti con un balzo e aprì la porta della piccola stanza delle visite di Deyan.

Lui era sdraiato su un fianco, su un tappeto, la tunica sollevata; e l’azzimato chirurgo kelith si apprestava a controllargli la medicazione, la borsa con gli strumenti aperta accanto a lui. 

La fissarono entrambi, stupiti da quell’intrusione. Ma lei non perse tempo: entrò decisamente nella stanza, si chinò ad afferrare il braccio destro del medico in una morsa d’acciaio, e lo allontanò bruscamente da Deyan ribaltandolo a sedere tra i cuscini.

Il chirurgo lanciò un’esclamazione indignata.

“Come osi toccarmi, lurida schiava?!”

E lurida, in quel momento, lo era: la tunichetta che si era cucita con le sue mani era chiazzata d’acqua e sudore, le scopriva le ginocchia impolverate e le braccia striate di polvere rossastra. 

Saal accorse precipitosamente, scioccato da quell’incredibile incidente. 

“Questo servo chiede perdono,” disse a Deyan, imbarazzato. “La barbara è sfuggita al mio controllo...” Poi fissò su Naysiak uno sguardo di fuoco. “Come ti sei permessa?! Lascia immediatamente il nostro ospite, domanda perdono ed esci subito da qui!”

Lei non lo considerò minimamente. Fiutò il chirurgo, che a sua volta la squadrava ad occhi sbarrati, vedendo da vicino quella sua faccia tatuata, la determinazione mortale in quegli occhi selvaggi. 

“Paura, kelith?”

Gli torse il braccio dietro alla schiena, e lo frugò rapidamente.

“No!” protestò l’uomo, cercando di dibattersi. “È un’indecenza... signore!” gridò, rivolto a Deyan. “Ti prego, richiama la tua schiava... dille di non toccarmi!”

Lei lo ribaltò a faccia a terra, con la solita sconcertante facilità; gli si sedette quasi sopra e continuò a perquisirlo. Mostrò quel che aveva trovato tra i suoi vestiti: un bisturi nella sua custodia, alcune minuscole fiale e un pugnale. Sguainò quest’ultimo e lo puntò sotto l’orecchio del medico.

“No, pazza!” gridò Saal, sconvolto. “Non fargli del male...”

“Seriema comanda,” replicò lei. E guardò Deyan, attendendo ordini. 

Lui si era rimesso a sedere. 

“Naysiak... lascialo.”

Lei obbedì e si inginocchiò alle spalle del medico, ma tenendo il pugnale pronto nella mano. 

Lui si rassettò gli abiti, con aria offesa. “Grazie, signore! Questa sayanni ignorante ha scambiato le mie cure per un attentato alla tua nobile persona...”

“Devi perdonarla, maestro. Non le piace che qualcuno mi si avvicini... con un pugnale.”

L’uomo ammutolì. In tutta Kelitha avvicinarsi a un nobile con un’arma senza avvertirlo era un delitto capitale. E anche se lì erano su Luna di Fuoco, la casa di Deyan era un frammento di quel continente dove gli usi tradizionali erano scrupolosamente applicati. 

“Quel pugnale non è mio!” esclamò il medico, e guardò Naysiak, con malevolenza. “Sarà stata sicuramente lei a metterlo tra le mie cose, per giustificare la sua aggressione!”

Naysiak fece un lieve, amaro sorriso. Deyan si stupì che lei non negasse: ma si ricordò di quanto le era servito, quando l’avevano accusata di aver rubato quello di Aydie...

“Sarà sicuramente come tu dici, maestro.”

Lui si rilassò, con aria soddisfatta. 

“Saal, paga quest’uomo, e accompagnalo all’uscita.”

“Ma... ma signore... non ti ho ancora cambiato la medicazione...”

“Ci ho ripensato. Sei congedato.”

Il medico impallidì, ma Deyan era stato chiaro e reciso... e l’etichetta kelith non ammetteva repliche, specialmente se il padrone di casa era un albino. Raccolse le proprie cose, si inchinò profondamente, si alzò e uscì, seguito da Saal con un’espressione perplessa in viso.

Deyan fece un profondo sospiro, passandosi una mano tra i capelli. 

“Seriema,” mormorò lei, “pugnale di kelith.” E lo posò davanti a sé, sul pavimento.

“Lo so,” annuì lui. “Non ne ho mai dubitato, non temere.”

Lei non alzò lo sguardo, ma il suo volto si distese. 

Deyan si girò ad aprire una cassetta accanto a lui, estraendone il necessario per scrivere: vergò rapidamente un messaggio con la sua calligrafia precisa e regolare, lo rilesse e lo arrotolò, riponendolo in un cilindro. 

“Quell’uomo è da tenere d’occhio," le disse, tendendoglielo. "So che sapresti seguirlo meglio di chiunque, ma mi servi qui; inoltre questa è una faccenda kelith, ed è meglio che ne occupino gli amici di Aydie. Fammi da messaggera, la squadra sa chi sei.”

“Ya, Seriema.”

Lei si alzò e prese il cilindro del messaggio. Poi fece per uscire. 

“Aspetta,” la fermò Deyan. 

Lei esitò, si voltò ancora verso di lui. “Seriema?”

“Perché non hai i tuoi abiti da guerriera?”

“Naysiak...” si corresse, “io lavoro di casa. Portare acqua da pozzo.” Si guardò la tunica. “Perdono per vestito.”

Era un povero indumento, ma lei l’aveva decorato lungo gli orli, con disegni tracciati con un colorante bruno: era sempre occupata a far qualcosa di artistico, anche con le cose più umili. 

“Come hai fatto a sapere che ero in pericolo?”

Tacque per qualche istante. “Io... animale.”

“No,” mormorò lui. 

I suoi occhi scuri si alzarono da terra, e la sua voce si abbassò. 

“Io Xarani.”

Deyan sorrise appena, rammentando un proverbio Shanì: L’orgoglio è come la sabbia, per quanto lo spazzi ti rimane sempre sotto ai piedi. 

La vide uscire, e rimase solo, a fissare l’intrico di disegni del tappeto sotto di sé. Poi si guardò le mani, affusolate ma dai tendini forti, con la loro geografia di zone sensibili e callosità, il sacrificio all’ideale estetico della sua razza che le avrebbe volute morbide e lisce.

Prendere l’acqua... 

Ricordava quando era toccato a lui fare quel lavoro. 

La vecchia casa di Ran non aveva un pozzo, bisognava andare alla fontana nella strada. Ran per qualche tempo mi risparmiò quel compito, per non umiliarmi, e lo sentii irridere e beffare per questo. Ma lo schiavo ero io, così un giorno presi i secchi e uscii per strada. Tutti mi fissarono, mormorando: volevano vedere il giovane di sangue reale servito per tutta la vita, che si apprestava a diventare servitore... mi resi conto che non avevo che un modo per sopportare quell’umiliazione: viverla con orgoglio. Come se fosse una mia scelta, e di nessun altro. 

Ed era lo stesso modo con cui l’affrontava Naysiak. Il segreto della sua dignità anche quando era costretta a dormire in cortile vestita di stracci, o portare secchi sui calli della spada. Perché per quanto portasse quel collare e faticasse come una sguattera, non scordava mai di essere una guerriera sacra.
E questo probabilmente gli aveva appena salvato la vita.

Deyan chiuse gli occhi un istante.

Forse avevi ragione tu, Ran.

 

 

 

 

 

 

Le condizioni di Nemel peggiorarono nei giorni a seguire. 

La sua ferita alla gamba non era sembrata particolarmente seria, e lui l’aveva trascurata. Pushpa l’aveva curata, estraendo la punta metallica che i kelith vi avevano conficcato, e aveva prescritto medicine, riposo e dieta adeguata per recuperare le forze e il sangue perduto. Ma Nemel aveva preferito festeggiare e far baldoria, assieme a tutti i suoi compagni, e all’ennesima sbornia lo trovarono addormentato accanto alle sue grucce... senza più riuscire a svegliarlo. 

Pushpa accorse, e quando vide la situazione divenne grigio in volto. La gamba di Nemel era gonfia, benché la ferita sembrasse richiusa; ma il predone ardeva di febbre e la sua pelle aveva una sfumatura verdastra. Senza perdere tempo, il t’yr lo fece trasportare nelle stanze di cura accanto al tempio delle Divinità, dove un cerusico esperto incise la ferita.

Scoprirono che il male aveva intaccato anche l’osso. 

Drenarono, bruciarono, pulirono tutto il possibile, approfittando dell’incoscienza di Nemel. La febbre scese, e il predone riprese i sensi: ma fu per rimpiangerlo. Il dolore era spaventoso, e Ran si disperava per l’amico. Chiese aiuto anche a Deyan, con la sua esperienza in narcotici, e lui gli mise a disposizione tutto quel che avesse.

Nemel ottenne finalmente un po’ di pace allucinata, e giacque oscillando tra coma e rari istanti di lucidità. Ma il suo corpo non rispondeva alle cure, e si indeboliva sempre di più. Pagava una vita faticosa, le tante vecchie ferite, il cibo troppo scarso e il vino troppo abbondante. Come tanti predoni, aveva vissuto come un uomo che non avesse un domani, e il suo fisico gli presentava il conto. 

Nessuno dei sayanni osò proporgli di amputare la gamba che lo stava uccidendo. Un guerriero poteva perdere qualche parte di sé, ma doveva restare abile al combattimento: se non lo era, era suo preciso dovere sollevare la società dal suo fardello, e uccidersi onorevolmente. A Nemel era però risparmiata anche quella delicata scelta morale, perché i suoi momenti di lucidità diventavano sempre più rari, man mano che le sue condizioni declinavano.

Era sempre circondato dai suoi amici, che non lo lasciavano mai solo e sopportavano la visione e gli odori della sua agonia. Era anche un modo in cui farsi coraggio: i sayanni avevano molta poca paura della propria morte, ma ne avevano tantissima della morte dei compagni, che erano la loro vera famiglia; ed esternavano i loro sentimenti con manifestazioni di dolore al limite del parossismo. Chat era ridotto a un fanciullo in lacrime, perché Nemel non lo riconosceva più e lo chiamava “madre”; e Ran era il ritratto della disperazione: tuonava, gridava, piangeva, si strappava i capelli. Deyan non poteva che assistere da lontano: come kelith non era il benvenuto in quella tetra veglia. 

Ci mandò Naysiak, e lei gli chiese il permesso di riprendere per un giorno il suo mantello da sciamana. Con quello sulle spalle, entrò nella stanza dove Nemel giaceva, e tutti si allontanarono lasciandola sola col moribondo, per la Danza dell’Addio.

Nel silenzio si udì solo il fruscìo dei suoi piedi sul pavimento, e la sua voce femminile che cantava. Una nenia sommessa, intima, antichissima, che tutti ascoltarono con le lacrime agli occhi. Era come la ninna nanna di una madre, che prendesse per mano le anime e le portasse via. E si sentiva una nota di dolce invidia, mentre le antiche parole si susseguivano nel canto, raccontando la pace gloriosa che attendeva là, nel mondo senza tempo e senza dolore...

Nemel si incamminò nel suo viaggio tra rutilanti piume azzurre, col sorriso sulle labbra. 

 

 

 


 

 

Quando tornò a casa, Naysiak restituì il mantello a un Saal cupamente silenzioso. Poi percorse le varie stanze, in cerca del suo Liberatore. 

Lo trovò nella stanza degli ospiti. Assieme a Ran, che giaceva sdraiato tra i cuscini.

Spalancò gli occhi, sorpresa. 

Gli sta tenendo la testa in grembo?!

Lui la guardò e si portò l’indice sulle labbra. Teneva tra le dita una stecchetta d’argento: accanto a lui, un piccolo vaso di cristallo era aperto, con una pasta verdognola. Davanti al volto di Ran finiva di fumigare la brace di un minuscolo incensiere: il profumo era intenso, aromatico.

Lei si inginocchiò silenziosa, guardando quella scena incredibile: il grande guerriero sayanni distrutto dal dolore, con la testa posata sulla tunica impeccabile di un albino kelith. 

Ran non piangeva più. I suoi occhi arrossati erano persi nel vuoto.

“Nessuno meglio di me conosce il valore dell’oblio,” mormorò Deyan; e coprì l’incensiere soffocandone il filo di fumo. “Khal... un istante di pace nel dolore... era tutto quel che potessi offrirgli.”

Quasi con una carezza, coprì con la mano gli occhi del sayanni.

“Adesso dormi, amico mio. Lasciati andare.”

“Nemel... Ne... mel...”

Ran non riuscì nemmeno a finire la frase, le sue membra si rilassarono. 

Deyan attese, con pazienza, finché non sentì il suo respiro farsi lento e profondo. Allora gli tolse la mano dagli occhi: erano chiusi. 

“Ecco,” gli sussurrò, con triste dolcezza. “Vola lontano, Ran delle Montagne. Fa’ riposare il tuo spirito. Il tuo corpo resterà qui, al sicuro.” Alzò gli occhi a lei. “Con noi.”

Naysiak ebbe un brivido a quel tono, alla tenerezza struggente di quelle parole. 

Questo diavolo bianco ha un cuore!

Contemplò quasi con stupore la sua figura elegante ed equilibrata, quel suo profilo cesellato, nobile, i bianchi capelli ondulati che gli sfioravano le spalle.

E seppe che da quel giorno non sarebbe mai più stata in grado di odiarlo davvero.

  
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