Non
lasciatevi trarre in inganno dal titolo, non c’è niente da ridere.
Tarda estate 1995, Grimmauld Place.
1000
parole.
La risata
La
scena gli è tornata in mente la prima volta che ha rivisto le labbra di
lui piegarsi in un sorriso appena accennato. Vero. Non uno dei suoi ghigni
d’amarezza, o quella risate sarcastiche e cattive
che ora sono l’unica sua espressione di divertimento, se così lo
si può chiamare.
Un
sorriso spontaneo, lievissimo, quasi invisibile. E’ sparito prima ancora
che lui fosse sicuro davvero di averlo visto, e quel volto smagrito e devastato
si è immediatamente ricomposto nella cupa espressione di dolente,
sprezzante indifferenza.
Quel
sorriso non lo vedeva da tanti anni. E anche se è durato un secondo, se
è stato minimo – appena un movimento delle labbra verso
l’alto - ha fatto tutta la differenza, perché lo sguardo grigio
per un istante si è acceso di quella luce che lui conosce bene.
E
gli ha fatto male come un Cruciatus e bene come
nettare, perché ricorda bene quel brillio che in fondo, nonostante gli
sforzi per rimuoverlo dalla memoria, gli scorre nel sangue da tutta la vita.
“Ma la vuoi
piantare?”
Sirius non risponde, continua
solo a sghignazzare. Ha la testa piegata indietro, come se la risata che lo
squassa fosse talmente grande e intensa da aver bisogno di più spazio
per allargarsi. La sciarpa rossa e dorata gli dondola morbida
sulle spalle, circondando il collo latteo.
“Finiscila, Pad, non
è divertente.”
Vorrebbe che la sua voce
suonasse più secca, più imperiosa. E lo farebbe, se soltanto
l’altro non fosse così bello. Se il suo volto non si illuminasse
in quel modo incredibile e gli occhi d’argento non brillassero tanto
vividi, lui risulterebbe più convincente. Se quel suono sgraziato e
scomposto non paresse tanto perfetto alle sue orecchie, Remus avrebbe tutt’altra autorevolezza.
“Insomma, basta!”
protesta esasperato, senza evitarsi di sorridere. “Il riso abbonda sulla
bocca degli stupidi, Pad. Il che ci porta ad una consapevolezza nemmeno poi
sorprendente a proposito della tua persona.”
Ma Sirius continua a ridere. Si
lascia cadere sulla panca, accanto al lampione, china il capo cercando di
frenarsi silenziosamente, ma non ce la fa: reclina di nuovo il capo indietro,
bruscamente, e il suo ridere frenetico esplode di nuovo in un arcobaleno di
colori sgargianti che baluginano dentro la testa di Remus e gli sfarfallano
nello stomaco.
“Sc-scusa,
Moony…Mpf…” Un altro tentativo di
calmarsi, un nuovo scroscio di risa incontrollate.
“Ho solo inciampato e
sono caduto. Non c’è il caso di fare tutta questa scena,
sai?” replica lui, incrociando le braccia al petto in quella che vorrebbe
essere una posa sdegnosa, del tutto guastata dal sorriso che gli arcua appena
le labbra. “Perché devi ridere continuamente?” aggiunge
esasperato.
Sirius s’interrompe
davvero, per un istante. Ha la bocca aperta in un’espressione stupita,
gli occhi leggermente sgranati che risplendono ancora di divertimento. Col naso
arrossato di freddo, sembra una pesca, pallida ma sfumata di rosso.
“Beh… E’
divertente, ridere,” risponde, quasi sorpreso
della domanda. “Non sopporterei di non ridere più, sarebbe
terribile,” aggiunge, quasi solennemente.
“E poi non sei solo caduto, hai tirato una facciata in una pozza di
fango!” protesta, e di nuovo riprende a sghignazzare.
“Capito,”
risponde Remus, con fare estremamente paziente e annoiato.
Sirius lo guarda, in quel modo
che gli provoca brividi caldi anche con tutto quel freddo. Il naso gli si
storce leggermente, con malizia.
“Non lo sopporteresti
nemmeno tu,” osserva, saputo, “che io non
ridessi.”
La
scena gli è tornata in mente e non se n’è andata
più. Lo insegue ogni giorno nel cupo grigiore di Grimmauld Place, lo
martella con insistenza durante le riunioni, in cui la voce ora rauca e
naturalmente malevola di Sirius cancella lentamente il ricordo splendente di
quel ragazzo esagitato che rideva sempre, con gli occhi, anche quando il suo
volto era composto in una ludica serietà. Lo insegue persistente nei
pomeriggi e nelle serate silenziose in cui il padrone di casa si abbandona
sulla poltrona con una bottiglia, perso nella contemplazione della fiamma che
ondeggia nel camino e nei ricordi dolorosi che Remus sa, pronunciando qualche
tetra parola di tanto in tanto; o quando sparisce per ore nella stanza al piano
di sopra, con Fierobecco, per poi riemergere
più disteso ma sempre fosco, sempre ostile. A nessuno in particolare,
quindi a tutti.
Remus
l’ha cercata, quella risata. All’inizio ha pensato che forse, col
tempo, sarebbe riuscito a risvegliarla in qualche modo. O magari si sarebbe
risvegliata da sola, perché davvero Sirius ha sempre avuto bisogno di
ridere, è una cosa che fa parte di lui.
E
poi, dopo un po’, ha capito. Controvoglia, con rabbia, ma ha capito.
Non
c’è più, quella risata. Come quasi tutte le altre cose che
facevano parte di lui. Non c’è più la risata, non
c’è più il ciarlare insistente, non c’è
più l’incedere sinuoso, non c’è più persino il
senso dell’umorismo feroce, sferzante. E’ tutto cancellato, tutto
perso.
C’è
solo un guscio vuoto e rattrappito, e occhi grigi e spenti in cui è
stampato il dolore, che urlano disperatamente sempre lo stesso nome, in una
colpa infinita.
A
volte pensa di fingere d’inciampare e tirare una testata contro il tavolo
della cucina, chiedendosi come reagirebbe Sirius adesso. Ma crede di saperlo:
gli regalerebbe uno sguardo distratto, vacuo e perso, poi forse arcuerebbe le
labbra in una smorfia sprezzante di compatimento. Forse nemmeno questo.
Magari
non se ne accorgerebbe neanche, persino se l’avesse proprio accanto.
L’estate
è quasi finita e Harry arriverà presto, trascorrerà
qualche giorno con loro prima di tornare a Hogwarts per il suo quinto anno.
Forse
il ragazzo potrà cambiare questo stato di cose.
E
forse lui potrà sentire un’altra volta quella risata che non ode
da tanto tempo, anche se questo non gli permetterà di respirare davvero;
perché se anche Sirius ridesse, non sarebbe più la stessa
cosa.
Il
ragazzo che rideva, quello che lui ha amato, era un ragazzo vivo e solare come
un albero in fiore; questo è un uomo morto che continua a camminare, e
la risata non sarà mai la stessa.
Ma
lui vorrebbe comunque sentirla, un’altra volta, una sola.
Davvero.
Ahm.
Sono
di nuovo qua.
E
non dovrei. Non vorrei.
Ma
questa cosa mi è scivolata fuori dalle dita
stamattina, e visto che ormai c’è, mi sento di omaggiarne
qualcuno.
Sono
sempre molto riconoscente a tutti coloro che mi lasciano un commento,
indistintamente: ricevere recensioni è un piacere, perché mi
avvicina a chi mi legge e mi dà la dimensione della piacevolezza –
o sgradevolezza – di ciò che scrivo.
In
questa particolare occasione, tuttavia, mi sento grata ad alcune persone
particolari. Pertanto, sento di voler dedicare questa sciocchezza - mille
parole di troppo che preferirei non aver scritto - su EFP a billy,
luz79, fog, squizz, Jane Gallagher, Briseide e Giulia, il cui caldo bentornata mi ha davvero un
po’ aperto il cuore.
Sul
serio, grazie.
A
poi.
suni