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Autore: lilac    11/01/2008    4 recensioni
La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti... Ma che cos'è il nulla per i vivi e... per i morti?
Genere: Generale, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Credits: - La frase da cui ho tratto ispirazione e che ho scelto anche come introduzione (in corsivo), è del filosofo greco Epicuro. In questa storia, tuttavia, mi rifaccio alla frase in sé, decontestualizzata dall’apparato filosofico entro cui è stata formulata, come semplice aforisma, senza quindi alcuna pretesa di interpretazioni filosofiche di sorta XD.
- La scena conclusiva della storia trae invece fonte d’ispirazione da un episodio della serie televisiva Supernatural; anche se (ovviamente^^) la storia è diversa e di tutt’altro tipo, è stata comunque influenzata da un’immagine che tuttora continuo a rivedermi nella testa per le suggestioni che mi ha lasciato. A tutti gli amanti dell’horror e del sovrannaturale che non conoscessero la serie, consiglio vivamente di vederla^^.



IL VESTITO DI SETA CELESTE




C’era una volta, tanto tempo fa, in un paese come tanti, in una contea come tante, una ragazza come poche. Il suo nome era Celeste.
Forse Celeste non era per davvero il suo nome. Tanto di quel tempo è passato da che si raccontava questa storia, in realtà, che ormai nessuno se lo ricorda più. E forse nessuno si ricorda più nemmeno della storia; ma, a Celeste, questo non importa.
Celeste era nata ultima di cinque fratelli, figlia di un pasticcere e di una sarta. Minuta d’aspetto, assai gentile e dolce, come le torte di zucca del suo babbo. Buona per carattere, ma forte e intelligente, Celeste era davvero una ragazza speciale, la più graziosa e dotata di tutto il paese. Lo dicevano, a ragione, i suoi compaesani; tanto speciale che tutti spesso si domandavano se Celeste fosse davvero la figlia del pasticcere e della sarta o se non fosse che i suoi, dopo aver avuto quattro ragazzoni robusti e con le ossa grandi, buoni solo per lavorare di braccia, non l’avessero trovata sotto un ponte, una ragazzina così sveglia e aggraziata nei modi.
Il signor Anselmo, il fornaio, raccontava che Celeste era stata abbandonata vicino al fosso del pero, appena fuori il paese, da una compagnia di zingari circensi, e che la signora Beatrice, la sarta, l’aveva trovata una mattina rientrando da una commissione. L’aveva sentita piangere e, quando si era avvicinata e l’aveva presa in braccio, Celeste aveva smesso di strillare e le aveva fatto un sorriso. La signora Beatrice non aveva potuto lasciarla per strada, essendo una donna ben provvista di carità cristiana e dall’animo assai gentile. Da quel giorno, Celeste era diventata figlia sua e del signor Pietro, il pasticcere, che per la gioia di avere in casa una bambina così bella pareva avesse cominciato a cucinare dolci buonissimi, tanto che venivano a comprarli anche dai paesi vicini e da tutta la contea.
Questo, il signor Anselmo lo raccontava ogni santo giorno. Seduto fuori dal negozio, vedeva passare Celeste fin da bambina, mentre correva a scuola, e si metteva a raccontare questa storia come se gli venisse in mente proprio in quel momento per la prima volta. A volte lo raccontava a Guido, il garzone del forno, che lo ascoltava sempre come fosse un oratore sul pulpito, con gli occhi spalancati dallo stupore e dall’ammirazione; perché il signor Anselmo sapeva sempre tante di quelle cose importanti! Altre volte si metteva a raccontarlo a Paoletto, lo spazzino, che si trovava a ramazzare da quelle parti e si lasciava prendere dal racconto come fosse un bambino di fronte ad una favola; a Mariolina, la fruttivendola, che andava a prendere il pane di buon mattino e non vedeva l’ora di fermarsi a chiacchierare; e a chiunque passasse di lì e avesse voglia di starlo a sentire.
I capelli biondi come le spighe del grano e gli occhi celesti come il cielo d’estate, non rassomigliava affatto ad alcun membro della sua famiglia! Puntualizzava poi il signor Anselmo scuotendo il capo, dopo aver terminato; e tutti annuivano convinti, a dargli ragione.
Per più di vent’anni il signor Anselmo continuò a raccontare di come Celeste era arrivata in paese, e ogni volta aggiungeva un particolare, per arricchire il racconto. Tante di quelle volte lo raccontò che, col tempo, la gente in paese non si ricordava più se quella storia fosse vera o se fosse semplicemente una favola da raccontare ai bambini, prima di dormire. Una volta erano gli zingari circensi, un’altra erano gli attori delle compagnie di teatro itinerante, un’altra ancora erano addirittura i banditi in fuga. Un particolare, però, era sempre lo stesso: la copertina celeste in cui era stata trovata. Nessuno l’aveva mai vista, ma tutti erano convinti che la signora Beatrice la conservasse ancora come fosse una reliquia.
Che la storia fosse vera o meno, a Celeste non interessava gran che, né interessava alla sua famiglia. In fondo, al paese tutti le volevano bene e poco le importava se pensavano che non fosse figlia della sarta e del pasticcere. Celeste aveva la sua vita e, si sa, della propria vita ognuno risponde a se stesso, perché dove si va è sempre più importante che da dove si arriva.
Questo le avevano sempre detto i suoi genitori e Celeste, che era una ragazza intelligente, ne aveva fatto la sua ragione.
Che Celeste fosse più brillante dei suoi coetanei lo si era capito subito; quando, ad appena due anni, aveva cominciato a leggere l’abbecedario di suo fratello Alfonsino e aveva mostrato interesse per la scuola, invece che per le bambole di pezza che le cuciva la sua mamma. Ai suoi genitori era apparso già fin d’allora, chiaro come il sole, che quella bambina sarebbe diventata una persona importante. Con gli occhi colmi di orgoglio e il portafogli fin troppo vuoto, la signora Beatrice e il signor Pietro avevano assecondato di buon grado le straordinarie inclinazioni della bambina, cominciando ben presto a regalarle libri, invece che balocchi. Li facevano arrivare dalla città e si rallegravano della felicità di quegli occhi innocenti che si colmavano di meraviglia nelle pagine troppo poco colorate, per i gusti di tanti altri bambini della sua età.
Inutile dire che, quando Celeste cominciò ad andare a scuola, anche tutto il resto del paese si accorse delle sue doti, di come imparava in fretta e di come fosse portata per lo studio. E tutti giù a fare i complimenti alla signora Beatrice e al signor Pietro, che parevano rinati e attraversavano una seconda giovinezza.
Celeste, dal canto suo, seppe ben ripagare i sacrifici che avevano fatto i suoi per nutrire la sua curiosità e le sue attitudini. All’età di soli dodici anni si dava già un gran da fare in tutto il paese per dare ripetizioni ai suoi compagni e ai bambini del vicinato. A lei, d’altra parte, non pesava affatto come un lavoro, ma portava alla sua famiglia svariati doni e servigi; come le ceste di noci della signora Caterina, che riuscì a far diplomare quello zuccone del suo figliolo Alberto, o i sacchi di farina del signor Anselmo, la cui pestifera bambina imparò le addizioni in men che non si dica. E poi ci fu anche il figlio del postino, la nipote del giornalaio e perfino la sorella dell’impagliatore, che imparò a leggere in tarda età, assieme ai suoi quattro bambini, quando tutti credevano che non ci sarebbe mai riuscita. Insomma, la famiglia di Celeste diventò una delle famiglie più amate e rispettate del paese e la signora Beatrice e il signor Pietro non potevano essere più felici.
Celeste era, agli occhi di tutti, una bambina giudiziosa, gentile e, soprattutto generosa, ma quando crebbe divenne anche una ragazza bellissima. I biondi capelli dorati, del colore caldo dei campi d’estate e quegli occhi celesti e profondi, che parevano dipinti da un pittore col colore del cielo terso della campagna, incantavano tutti i ragazzi del paese al solo posarsi sulle cose e tanti avrebbero sognato di tenere fra le mani quel viso gentile e delicato e sfiorare quelle labbra rosse color delle ciliegie mature.
Eppure Celeste non sembrava interessata ai ragazzi. Anzi, pareva che non fosse interessata a nulla che non fosse di quel mondo.
Lei viveva in un mondo diverso, fatto di cose diverse, in compagnia dei suoi amici fantastici e circondata dai tesori nascosti nelle pagine dei suoi libri; l’unico mondo in cui Celeste era a suo agio, dove poteva parlare della vita vera e non della sorella dell’impagliatore o del figlio della levatrice, con chi l’avrebbe capita e le avrebbe risposto. Sì, perché Celeste amava tanto la sua famiglia e il suo paese, ma spesso soffriva. Nessuno, infatti, poteva vedere il mondo che vedeva lei e nessuno avrebbe mai capito che cosa avesse dentro e perché, a volte, si sentiva molto sola.
Se ne accorse molto presto, Celeste, che quello dove viveva non era il suo mondo; fin da bambina, quando la maestra Penelope iniziò a chiederle sempre più spesso il perché di ogni cosa che raccontava, come se non capisse un'acca. All’inizio, Celeste pensò che fosse strano, ma col tempo si accorse che era lei ad essere strana, diversa. Se ne accorse ascoltando i discorsi delle sue coetanee, che parlavano sempre di come volessero prender marito o essere invitate a ballare dal ragazzo tal dei tali, o i discorsi dei suoi genitori e dei suoi fratelli, che le auguravano con tanto affetto di diventare la maestra della scuola e sposare un uomo importante; e se ne accorse dalle attenzioni dei ragazzi, che si facevano belli e gonfiavano il petto al suo passaggio, ma che abbassavano lo sguardo, impauriti e sconcertati, scappando a gambe levate un secondo dopo, quando cercava di parlare con loro.
E fu così che, giunta all’età di venticinque anni, una ragazza tanto bella e speciale come Celeste non si era ancora sposata. Celeste aveva continuato a vivere la sua vita con la generosità e la disponibilità di sempre, prendendo il posto della maestra alla scuola e accontentando le aspettative, pur misere ai suoi occhi, dei suoi familiari e di tutti i suoi compaesani. Ma ormai quasi nessuno, a parte la vecchia signora Beatrice, le rivolgeva a stento la parola.
Celeste era diventata per tutti, col passare del tempo, una ragazza bizzarra e stravagante, troppo chiusa in se stessa, con cui non si poteva tanto avere a che fare. Mica come la Sandrina, che veniva dal paese vicino a insegnare musica, che era sempre allegra e cantava come un usignolo e si vestiva sempre di rosso acceso. Celeste era strana. E lo era sempre di più, man mano che cresceva, e le sue buffe stramberie di bimbetta dotata erano divenute qualcosa di troppo astruso per quella comunità di gente semplice e alla buona.

La goccia che fece traboccare il vaso, come per ogni storia che si rispetti, accadde una mattina di maggio, inaspettatamente. Celeste aveva appena sedici anni e fu un giorno che per tutto il paese venne ricordato come uno dei giorni più tristi degli ultimi anni.
Il signor Pietro, mentre cucinava una delle sue torte di zucca rinomate in tutta la contea, fu colto da un malore e morì; così, all’improvviso, fra le braccia del figlio Angeluccio e della nuora, che assistettero impotenti alla sua dipartita da questo mondo. Il dottore disse che non avrebbero potuto fare niente, che la sua ora era giunta e che l’unica cosa appropriata da dire, in questi casi, era che il povero signor Pietro avesse, se non altro, avuto la fortuna di andarsene in fretta. La tesi fu avvalorata da Don Felice che, con accorata commozione, durante il funerale si profuse in tanti elogi e benedizioni da riempire il libro dei santi. La processione di gente che venne a porgere le condoglianze alla famiglia in chiesa e a dire la sua su quanto fosse buono, rispettabile e degno di assurgere alla gloria del Signore il signor Pietro durò per una buona mezza giornata, tra le occhiate addolorate, commosse e pur orgogliose di tanto affetto, della vedova e dei figli. Quando qualcuno, dal fondo della chiesa, propose che fosse Celeste a dire qualcosa per ricordare il suo adorato padre, confidando nella sua saggezza e nella sua istruzione, lei accettò di buon grado; ma ciò che disse disegnò per sempre un contorno insuperabile tra lei e il resto del mondo in cui viveva.

La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti...

Celeste aveva letto questa frase in uno dei suoi libri e ci aveva pensato spesso, da quel giorno in avanti. Rassegnata al fatto che degli argomenti di cui le piaceva discutere e delle cose che voleva conoscere non avrebbe mai potuto domandare alle sue compagne di scuola, né a nessun altro in paese, preferiva riflettere per conto suo. Ci aveva provato, qualche volta, a condividere i suoi pensieri, ma aveva avuto in risposta solo sguardi perplessi, quando non erano state risate di scherno. Una volta suo fratello Filippo era rimasto a fissarla inebetito per un bel quarto d'ora! E da allora Cenerino, il gatto di casa, le era sembrato un ben più degno interlocutore.
Da tempo Celeste teneva per sé le sue domande e trovava da sé le sue risposte, come sempre le capitava quando qualcosa attirava la sua attenzione, finché non sentiva di giungere ad una conclusione abbastanza soddisfacente. Così, aveva pensato spesso alla vita, al senso che aveva alzarsi ogni giorno e trascorrere le sue giornate… perché dove si va è sempre più importante che da dove si arriva… E aveva pensato spesso anche alla morte.
Quella frase, letta in una lingua antica, aveva avuto il potere di farla riflettere a lungo, e le era tornata in mente quella mattina che Angeluccio aveva fatto irruzione in casa e aveva dato loro quella notizia, con le lacrime agli occhi e la voce tremante. L’avevano colpita quelle parole come fossero pietre, quando aveva assistito al pianto incontrollato e alla disperazione del fratello più grande, un uomo bello e fatto che non aveva mai pianto di fronte a niente e a nessuno, che le rivolgeva lo sguardo in cerca di conforto; lui, che a malapena le aveva mai rivolto altre parole se non quelle dettate dalla civile convivenza fraterna. La morte di suo padre l’aveva gettata nello sconforto, ma si era interrogata a lungo, quel giorno, sul significato di quelle parole che in qualche modo avevano avuto il potere di procurarle una qualche consolazione.
Le aveva ripetute quel giorno in chiesa, pur senza averne ancora colto appieno il significato, convinta che avessero sugli altri almeno lo stesso effetto che avevano avuto su di lei.
La morte non deve farci paura, aveva ribadito convinta, col sorriso sulle labbra, perché per tutti noi non è che è il nulla e il nulla non fa paura. Chi ha paura della morte ha paura della vita. La vita è bella, invece, aveva cercato di spiegare Celeste, come tutto ciò che vive.
Quello che avevano capito i suoi compaesani però, sul momento, era stato solo che Celeste non soffrisse abbastanza, che non amasse abbastanza suo padre da struggersi nel dolore come facevano i suoi fratelli. Non gliene fecero mai una colpa, sapevano da sempre che lei era diversa da loro, ma agli occhi di tutti Celeste diventò da allora distante, e un'estranea. E a tutti quanti, senza che quasi se ne accorgessero, cominciò a far paura.
Fu un po' come con Beppi il macellaio, quell'anno che ingrassò di ben venti chili e nessuno lo notò, perché ne prendeva un grammo alla volta, una volta al giorno... E poi un bel giorno era diventato Beppi il Grosso, per distinguerlo da Beppi Due Zeppi, il figlio del sindaco, che era magro come un chiodo... Proprio come con Beppi il macellaio, Celeste cominciò a far paura un grammo alla volta, una volta al giorno, e un bel giorno, tra il suo mondo e quello di chi viveva accanto a lei, non si poteva passare più.
Fu da quel giorno di maggio che Celeste si chiuse sempre di più in se stessa, un grammo alla volta, e cominciò a non uscire più di casa, se non per andare a scuola; dal giorno in cui al posto di sguardi stralunati e divertiti aveva riconosciuto invece l’inquietudine.
Da quel giorno Celeste, un giorno alla volta, dopo aver letto la delusione e la confusione negli occhi di sua madre, capì piano piano che non sarebbe mai andata dove avrebbe voluto, e che gli altri non avrebbero mai capito. E piano piano, un grammo alla volta, si rassegnò.

Celeste si diplomò due anni dopo, ovviamente con il massimo dei voti, e decise di fare felice almeno sua madre, presentando domanda per insegnare nella scuola del paese. L’anziana maestra, la signorina Penelope, accettò di buon grado di lasciarle il posto, per dedicarsi ai suoi nipotini, e sua madre fu ben felice che Celeste mostrasse di voler far parte della comunità. Pur rattristandosi in cuor suo che non avesse mostrato invece la minima intenzione di mettere su famiglia, come avevano fatti i suoi fratelli, la signora Beatrice restò così, per tutti quegli anni, l’unica vera compagnia di Celeste; unica ascoltatrice dei suoi racconti e dei suoi stravaganti pensieri e l’unica persona che non perse mai nemmeno un briciolo di confidenza e di affetto per quella ragazza, che ai suoi occhi continuava ad essere speciale, piuttosto che strana.
Come tutte le madri di questo mondo, la signora Beatrice continuava a prendersi cura di Celeste e a preoccuparsi per lei e, come tutte le madri di questo mondo, non aveva ancora perso la speranza che la sua figliola trovasse un giorno l’amore e coronasse il sogno di indossare un bel vestito bianco davanti all’altare. Per questo motivo, tra un discorso e l’altro sul senso della morte e della vita e un racconto e un altro di eroi mitologici e semidei dai poteri meravigliosi, la signora Beatrice si intestardiva ad introdurre suggerimenti e consigli per dare un senso più concreto alla vita della figlia e insisteva affinché Celeste si decidesse a frequentare le altre ragazze della sua età e a partecipare alle feste. Di solito, Celeste era solita ascoltare paziente e ribattere puntualmente che la sua vita le piaceva così, che non aveva bisogno di andare alle feste da ballo delle ragazze del paese o di vestirsi all’ultima moda del momento. Tra i sospiri rassegnati della madre, le battute ironiche sulle frivolezze delle sue coetanee finivano sempre per tramutare la preoccupazione della signora Beatrice in una sonora risata, accompagnata da qualche rimprovero per la scarsa carità cristiana che dimostravano i suoi commenti e le sue considerazioni.
Gli anni intanto passavano, e Celeste si era fatta ormai una donna di venticinque anni. E così come gli anni passavano leggeri su di lei, passavano anche sui suoi compaesani e sul suo stesso paese, che da piccolo borgo di campagna divenne, grazie all’avvento di qualche facoltoso imprenditore straniero, una cittadina in fervente attività e un posto di passaggio per operai e lavoratori che si spostavano, in cerca di fortuna, dai paesi vicini. Ormai non era più così insolito vedere anche le automobili sfrecciare sulle strade fuori città, quegli strani e affascinanti mezzi di trasposto che diventavano sempre meno appannaggio dei ricchi e sempre più immagini consuete, da non suscitare nemmeno più la meraviglia di un tempo. Era stata una novità degli ultimi anni anche la fortunata idea di costruire un locale da ballo, poco fuori del paese. Accolto con riluttanza dagli anziani, capeggiati dal signor Anselmo e da Don Felice, era stato invece salutato con entusiasmo dalla gioventù del luogo come segno di emancipazione e di un cambiamento dei costumi in favore della libertà e dell’indipendenza in fatto di consuetudini sociali.
Tra coloro che avevano gioito di una simile novità c’era stata sorprendentemente anche la signora Beatrice, convinta che, in virtù del fatto che ormai per le giovani del paese non era più considerato sconveniente recarsi ad una festa non accompagnate, la sua Celeste avrebbe finalmente cominciato a godersi un po’ di più la vita. Memore di quelle parole che ancora le tornavano con malinconia alla mente, aveva troppo a cuore la felicità della sua figliola per non accorgersi che agli occhi di Celeste, la vita non era stata più così bella come avrebbe dovuto, dopo quel triste giorno di maggio. Il cambiamento dei costumi che si notava ultimamente in paese le aveva regalato infine una speranza che Celeste, vincendo la sua proverbiale ostilità verso le cerimonie e le affettate convenzioni sociali, magari le avrebbe permesso finalmente di lasciare questo mondo con la tranquillità di vederla costruirsi una vita serena, come tutte le altre ragazze della sua età.
Fu così che, un giorno di aprile, in una delle loro solite chiacchierate serali, la signora Beatrice si mostrò particolarmente insistente affinché la figlia partecipasse alla festa che si sarebbe tenuta, di lì a qualche giorno, in quella sala da ballo, in occasione della primavera. Dopo un momento di totale riluttanza, ammettendo fra sé e sé l’inutilità di contrariare inopportunamente una povera vecchia per qualcosa che, in fondo, non le costava alcuna fatica, Celeste si risolse ad accontentare, suo malgrado, la madre e a concederle una mezza promessa, convincendosi in cuor suo che la sua posizione nel mondo non ne avrebbe risentito particolarmente e che, d’altra parte, invece, l’umore di sua madre ormai anziana, ne avrebbe risentito in modo del tutto positivo.
La felicità che lesse nello sguardo della donna sarebbe stata di per sé una ricompensa più che sufficiente a quel misero sacrificio, se non fosse che l’umore della signora Beatrice fu alle stelle per giorni e giorni e che quella sera, infine, specchiandosi prima di uscire con indosso il vestito di seta celeste che sua madre aveva cucito apposta per lei, si vide per la prima volta in un modo in cui non si era mai vista. Il colore della stoffa, che richiamava sapientemente e con naturalezza la tonalità più profonda dei suoi occhi e le si adagiava morbido sui fianchi, addolciva le sue forme e l’espressione del suo viso, incorniciato dai capelli morbidi che le ricadevano ordinati sulle spalle e, per la prima volta in venticinque anni, Celeste pensò di essere bella.
Si sorprese ad avere voglia di uscire e divertirsi e ad aver voglia di conoscere altre persone, di parlare con la gente, anche di banalità, fosse stato il caso. Un lieve rossore le apparve fugacemente sul volto quando pensò, del tutto involontariamente, che forse avrebbe potuto davvero conoscere degli uomini, magari affascinanti, qualcuno venuto da fuori. Si sorprese soprattutto nel sentirsi una persona come tante e si arrese a questa sensazione come se le fosse mancata e l’avesse ritrovata in quel momento, finalmente, dopo tanto cercare.
Uscì di casa, quella sera, consapevole che forse avrebbe potuto essere un po’ più felice, in un modo diverso da quello che aveva sempre pensato; uscì consapevole che quella sera, tornata a casa, probabilmente Celeste sarebbe stata una ragazza un po’ diversa da quello che era stata fino al giorno prima.
Era però totalmente inconsapevole, per la prima volta nella sua vita, che a casa non sarebbe mai più tornata.

La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti...

Celeste non pensò alla sua vita, al senso che aveva per lei e per tanti altri svegliarsi ogni giorno al mattino e vivere la propria giornata, quella sera; né pensò alla morte. Per una volta in tutta la vita, aveva smesso di interrogarsi sul senso di quella frase di cui ancora non era riuscita a darsi veramente una spiegazione. E la morte la colse di sorpresa, come nulla fosse.
Trascorse una serata che si rivelò piacevolmente noiosa, tra chiacchiere inutili e qualche tentativo di arrembaggio da parte dei ragazzi del paese vicino, che si trovavano nella posizione congeniale di essere abbastanza estranei da non sapere chi fosse e abbastanza simili a lei da trovarla affascinante. Ad una certa ora decise tuttavia che ne aveva avuto abbastanza della mondanità e dei convenevoli sociali, per quella sera; salutò educatamente le persone che conosceva e si diresse a piedi verso il paese, con la voglia di raccontare alla signora Beatrice la serata e, forse, in qualche modo felice. Non vide quell’automobile sbandare sul ciglio della strada. Forse Celeste non aveva visto un gran numero di automobili nell’arco della sua intera vita. E chi guidava l’automobile non vide lei. Il vestito celeste, divenuto grigio come il manto del vecchio gatto Cenerino, nella nebbia e nell’oscurità della sera, e i sensi offuscati dall’euforia di un bicchiere di troppo, non si fermò nemmeno e la lasciò a morire lì, da sola, come non fosse mai esistita.



Da allora è passato davvero tanto tempo e nessuno ormai ricorda più questa storia, né chi fosse Celeste. Nessuno ricorda più il suo nome. Nemmeno io, che quella sera la vidi sul gelido acciottolato della strada, il vestito di seta celeste imbrattato di sangue e gli occhi rivolti al cielo. Ricordo solo il suo respiro appena percettibile e quegli occhi, come fossero assenti, assorti in qualcosa che non era più di questo mondo, eppure non ancora in un altro. Nel nulla.
Ho pensato anch’io a quelle parole, in quel momento… La morte… Non è nulla né per i vivi né per i morti... E ho capito... E ho deciso.

Non so chi fosse Celeste, perché attraversò senza lasciare alcuna traccia il mondo dei vivi; lei, che avrebbe potuto lasciarne. Non so che senso ebbe la sua vita, dimenticata in fretta e sepolta nel vuoto dell’oblio. Non so nemmeno che senso ebbe la sua morte per chi è restato dopo di lei, né per chi se ne andò prima; non posso saperlo, né dagli uni, né dagli altri.
Ricordo solo che quel giorno ho visto il nulla… O forse non è un ricordo…
L’ho guardato negli occhi. E ho capito perché il nulla fa paura. So che c’è qualcosa che mi lega ancora a questo posto, so che devo restare qui e non posso fare altrimenti… dove si va è sempre più importante che da dove si arriva…
Forse non avrei dovuto, ma non ho potuto non farlo. Forse quel qualcosa è rabbia, forse è dolore. Forse sto soffrendo, ma non sento nulla. E il nulla è tutto ciò che mi rimane.



La musica dello stereo rimbomba nell’abitacolo della macchina ad un volume molto alto, quasi assordante. Il ragazzo ci fa a malapena caso, canticchia a voce altrettanto alta, sguaiata, distorta dall’ebbrezza di un bicchiere in più, bevuto troppo in fretta prima di salutare gli amici, tutto d’un fiato. Distoglie per un momento gli occhi dalla strada, spegne la sigaretta nel posacenere e controlla il cellulare; che ci sia campo, visto che sta viaggiando in una strada piuttosto isolata, a qualche chilometro dal più vicino centro abitato e dalla civiltà, che nel suo immaginario equivale ad un McDonald's, possibilmente di quelli con lo sportello automatizzato, considerato che fa freddo e non ha voglia di scendere dalla macchina.
Una frazione di secondo ed è già di nuovo con gli occhi sulla strada, e fa appena in tempo a scorgere una figura sfilare di fianco a lui. È emersa dal fitto del bosco e dalla nebbia come un miraggio. Si volta di scatto perplesso, pigiando istintivamente il pedale del freno. È convinto di aver preso un abbaglio, visto il suo stato e l’ora tarda. Nello specchietto retrovisore scorge invece l’immagine di una ragazza e si ferma, innesta la retromarcia e torna sui suoi passi incuriosito. La invita a salire in macchina, dopo aver abbassato il volume della musica. Forse si è persa, pensa tra sé e sé, senza curarsi del vestito troppo leggero per quella stagione e della risposta fin troppo repentina e gentile di lei, che sale così velocemente che sembra sia già lì da qualche minuto, prima ancora che lui finisca la frase.
Il ragazzo riparte, abbassando ulteriormente il volume dello stereo e prova ad intavolare una conversazione. La ragazza è davvero bella, per un momento il pensiero di aver avuto un colpo di fortuna lo fa sorridere malizioso, tra sé e sé.
La fissa inebetito quando lei, ai suoi convenevoli, risponde però enigmatica, con una strana frase sulla morte. Continua a guardarla stralunato con la coda dell’occhio e ride, tra l’imbarazzato e l’impertinente, chiedendole che cosa voglia dire e fissandola per un attimo come se avesse qualche rotella fuori posto. Lei gli sorride gentile, di rimando, abbozzando un nulla, appena sussurrato.
Il ragazzo appare confuso per un momento, si convince che forse è perché ha bevuto troppo che non riesce a cogliere appieno il senso di quello strano scambio di battute. La rassicura sul fatto che lui regge bene l’alcool, come se ne sentisse per qualche strano motivo il bisogno.
Lei, non risponde, fissa la strada davanti a sé.
Come ti chiami? Le chiede poi lui, riprendendo le fila del discorso.
Celeste. Risponde la ragazza, sorridendo senza voltarsi.
Dove vuoi andare, Celeste? La sua domanda successiva, il tono compiacente.
Qualcosa nella risposta di lei infine lo turba. Non riesce a spiegarselo, ma uno strano senso di inquietudine comincia a farsi concreto e inizia ad avere paura. La voce di lei ha un che di innaturale, risuona nell’abitacolo dell’auto come si trovassero nel nulla più assoluto.
A casa.


FINE


  
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