Gallavich Week.
Day 7 (June
29th) - Future Gallavich
(let’s
share our hopes for the boys’
future)
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quella di cui vado fiera.
Spero che piaccia anche a voi ^^
The
soldier’s
wife
Missioni di pace un cazzo. Mickey passava giorni e
notti nel puro terrore
di accendere la tv e sentire al notiziario il nome di Ian Gallagher
morto da
eroe per mano di qualche fondamentalista troglodita figlio di puttana.
Puntualmente, prima delle partenze, il soldato gli prometteva
“Nessuno mi farà
il culo. Sono un Gallagher.” e Mickey lì per
lì ci credeva. Famiglie dei bassifondi,
già, ti fanno la pellaccia dura. Ma comunicare con lui che
era all’altro capo
del mondo non era sempre possibile; così, quando gli impegni
militari tenevano
Ian lontano da una connessione internet, Mickey ricominciava ad aver
paura. Chi
gli garantiva che durante quei giorni di silenzio non avevano piazzato
qualche
ordigno nei pressi della base e magari a Ian non era saltata una mano,
una
gamba o
chissà cos’altro?
Quel giorno il reparto di Ian rientrava in patria;
il volo speciale AX-03
sarebbe terminato al Chicago O'Hare International Airport, con atterraggio
previsto per le sei di
pomeriggio.
Attraversata la struttura, Mickey varcò
la soglia che conduceva alla
pista, fermandosi entro il limite consentito. Si scoprì poco
entusiasta di non
essere lì da solo. Le compagne di altri soldati aspettavano
come lui di poter
riabbracciare i loro uomini e questo lo metteva un tantino a disagio.
Che cazzo
ci faceva lui in mezzo alle donne? Non potevano levarsi, ingannare
l’attesa un
po’ più in là? Giusto pochi metri? No,
si erano piazzate giusto dove stava lui.
E andiamo, era arrivato per primo! Si spostò di qualche
passo a destra,
prendendo le distanze da loro. A braccia incrociate si strinse nella
giacca di
pelle e si godette il suo angolino di solitudine osservando le piste
d’atterraggio che si estendevano a perdita
d’occhio, con il cielo che esplodeva
di colori caldi e il tramonto a bruciare fra rade nuvole violacee.
Durante l’attesa, un bambino che era
rimasto per una buona fetta di tempo
attaccato alla gonna della madre, annoiato dai discorsi che sentiva
attorno a
sé (decisamente poco attraenti per la sua
curiosità) decise di stringere
amicizia con lui. Non appena gli si parò davanti con quegli
occhialini
tondeggianti e il sorrisetto da monello, Mickey lo
classificò immediatamente
come “nanetto biondiccio”. Non che lui stesso fosse
molto alto, poi, ma lo
scricciolo gli arrivava sì e no alla vita. Il piccoletto
cominciò a squadrarlo
dalla testa ai piedi. Dapprima Mickey fece finta di niente e
continuò a
guardare dritto davanti a sé, ma quegli occhietti vispi lo
fissavano con
insistenza. Allora, quando lo sconosciuto meno se
l’aspettava, il giovane uomo
dirottò lo sguardo su di lui e gli fece una smorfia alla
Milkovich. Il suo obiettivo
era di essere vagamente spaventoso, ma fallì
nell’intento, considerato il fatto
che il bambino si portò le manine alla bocca e
cominciò a ridacchiare.
«Ehi, nanetto. Ridi di me? Come ti
chiami?» chiese Mickey in un sospiro,
perplesso per il modo in cui il piccolo sembrava fidarsi di lui ma
anche
intrigato da ciò. Intavolare una specie di conversazione era
pur sempre un modo
per far trascorrere i minuti più velocemente.
«Bil-lie. Billie Jameson.»
sillabò quello, ciondolando sulle Converse blu
elettrico.
Proprio in quel momento la madre lo
richiamò, scuotendo la testa.
«Williaaam! Lascia stare il ragazzo, gli dai
fastidio!»
Mickey, spinto suo malgrado a confrontarsi col
gruppetto vociante, alzò
una mano come per dire “si figuri” e disse:
«Nessun problema. Io e l’ometto qui
inganniamo il tempo.» L’aveva detto per davvero? Si
meravigliò di se stesso. Di
solito non faceva una buona impressione sulla gente, perciò
ritenne di dover
dare una possibilità a quel Billie. Era così da
diciotto anni e c’era abituato,
se si toglievano i primi sei in cui agli occhi del mondo risultava
ancora una
creaturina adorabile…
La donna, una brunetta che reggeva una borsa quasi
più grande di lei e
aveva tutta l’aria di essere cordiale, agitò la
testa boccoluta tutta contenta.
«Oh, bene, allora.» E tornò a
chiacchierare fittamente con le altre.
«Quindi, uhm… Stai aspettando
tuo papà?» domandò Mickey al biondino,
infilandosi
le mani nelle tasche dei jeans e imitando il movimento ondulatorio del
bambino
che si slanciava sulla punta delle scarpe e poi ricadeva sui talloni.
Billie si accorse che lui gli faceva il verso e
smise immediatamente.
«Sì.» rispose, e si grattò la
testa «La mamma ha detto che domani per
festeggiare andremo allo zoo!»
«Allo zoo? Ti piacciono gli
animali?»
«Ah-ah.»
«E qual è il tuo
preferito?»
«Il rinoceronte, perché
può infilzare quelli che lo fanno arrabbiare!»
esclamò il bambino con convinzione.
Mickey scoppiò a ridere. Ora intuiva
perché fra lui e Billie si era
instaurato un certo feeling naturale. Tuttavia non sapeva
cos’altro dire per intrattenerlo perché: 1) non
era mai stato un tipo
definibile loquace; 2) con i bambini non aveva di solito molto tatto.
Fortunatamente Billie non si lasciò
scoraggiare dal silenzio che era
calato fra loro e si aggrappò alla manica della sua giacca
dandogli un leggero
strattone. «E tu invece chi stai aspettando?»
«Oh, bimbo. Non mi tirare la giacca,
cazzo.» Mickey gelò sul posto e
rispose in maniera brusca. Billie mollò immediatamente la
presa e gli diede le
spalle, offeso. L’altro si pentì immediatamente,
aprì la bocca e
aggrottò la fronte. Finì col non dire
nulla e con lo sfregarsi nervosamente la guancia in cerca di
ispirazione. Con
la coda dell’occhio notò che il bambino continuava
a tenergli il broncio.
Sentendosi in colpa, un tipo di sensazione che
detestava, Mickey impiegò
un bel po’ solo per un: «Si chiama Ian.»
«Oh, stai aspettando… Ian.
Okay.» ripeté il piccolo, mostrandosi, per
ripicca, per niente impressionato.
«Ehi, guarda là!»
esclamò Mickey, puntando il dito verso il punto bianco
che si espandeva nel cielo e veniva verso di loro. Ottimo tempismo.
Billie
saltava come un pazzo, così Mickey lo prese in braccio a
sorpresa e gli urlò
nell’orecchio: «Saluta tuo papà!
Salutalo! Forse già ti vede!»
Il bambino non se lo fece ripetere due volte e
cominciò a menar le mani
per aria, allegro e sovreccitato. Mickey poteva dire di essere felice
esattamente allo stesso modo, sentiva il cuore spaccargli il petto per
la
gioia. Il rumore crescente si propagò nell’aria.
L’aereo si avvicinò pian piano
e quello che all’inizio era un ronzio si tramutò
in un boato assordante.
L’apparecchio si abbassò con eleganza, il
meccanismo fece scattare gradualmente
le ruote all’infuori e il bestione di metallo
toccò terra scivolando sulla
pista come se fosse leggero. Billie prese a sgambettare e Mickey lo
mise giù,
scaldato da una dolce percezione di empatia mentre lo vedeva correre a
strillare dalla mamma.
Il portello si aprì e venne accostata la
scaletta mobile. Le persone in
attesa, un certo Milkovich musone compreso, si accalcarono verso i
primi uomini
che scendevano. Le mani di Mickey erano umidicce per
l’emozione. Si sentiva
accaldato come una cazzo di adolescente ma si disse che non poteva
farci niente
e che, in fondo, poteva permetterselo: non vedeva il suo compagno da
quattro
fottuti mesi, troppo. Intorno a lui alcune donne stavano già
baciando mariti e
fidanzati, e perfino Billie era già fra le braccia di suo
padre.
“Scendi, scendi, scendi. Ti amo.
Scendi.” si ripeteva ossessivamente
Mickey, con un’angoscia irrazionale a montargli nello
stomaco. Se fosse
successo qualcosa a Ian l’avrebbero avvisato, no? Era tutto a
posto. Era ovvio
che fosse tutto a posto. Lui era solo impaziente e il suo cervello non
faceva
che sbattergli in faccia paure che in quel momento non avevano senso di
esistere…
E finalmente, eccolo, lo vide. I cortissimi capelli
rossi erano un
incendio sotto i raggi morbidi di sole cinabro del tardo pomeriggio.
Mickey
pensò che fosse uno spettacolo, che meritasse una foto.
«Ian Clayton Gallagher!»
chiamò a gran voce e, non appena il soldato
sentì il proprio nome, s’illuminò di un
sorriso commosso, radioso. Quello accelerò
il passo, lasciò cadere a terra il borsone in un tonfo e
abbracciò il suo uomo
talmente stretto da fargli male. Mickey ignorò il dolore
alle costole, si morse
le labbra, si concesse di dargli un’effimera occhiata e poi
lo baciò di fronte
a tutti, ora che nessun mostro dotato di patria potestà
poteva sopprimere
quello che provava per lui. Fu uno sferzante e repentino scontro di
lingue,
interrotto giusto dall’esclamazione sbigottita di Billie:
«Voi due siete
fidanzatiiii?»
La faccia di Ian si arricciò in un
cipiglio sorpreso e divertito mentre
Mickey, arrossendo, rideva e guardava per terra.
«Sì, piccolo. Vuoi dirmi che
non siamo più amici?» domandò, facendo
spallucce.
La mamma e il papà di Billie cercarono
di scusarsi per l’importunità
dello scricciolo ma quello, nella sua simpaticissima arroganza
infantile, li
zittì: «Sssssshhh.» Corse poi dal suo
Mickey e assunse una posa terribile:
pugnetti chiusi sui fianchi, pronto al rimprovero. «Guarda
che siamo ancora
amici. Anche se prima ti sei arrabbiato con me e non mi hai neanche
chiesto
scusa perché hai detto una parolaccia.»
«Mickey! Sul serio?» il rosso
finse d’indignarsi e tese la mano al
piccolo. «Piacere, Ian Gallagher. Lascia stare,
lui…» ammiccò in direzione del
suo ragazzo «…è sempre
antipatico.»
«Conosci il mio
papà?» Billie starnutì e fece un gesto
per indicare alle
sue spalle.
«Sì, certo. È un
grande il tuo papà, devi essere orgoglioso di
lui.»
spiegò Ian, accennando un saluto verso il collega.
«Sì, lo sono. Però
mi manca tanto quando va via. Mi viene da piangere. Io
vorrei che restasse sempre con me. Quando lui non
c’è, mi sento vuoto e triste
perché non c’è nessuno che giochi a
baseball con me.»
Lo sguardo di Mickey e quello di Ian si
congiunsero. Il rosso alzò gli
occhi al cielo come a dirgli “Che aspetti?” e
all’altro partì un labiale del
tipo “Io? Mi prendi per il culo?”. Poi il bruno
guardò Billie che si
stropicciava la maglietta, ripensò alla faccenda del
rinoceronte e alle sue
manine che gli tiravano la giacca. «Se per i tuoi genitori va
bene, quando tuo
papà parte io posso venire a giocare con te.»
azzardò, facendo su e giù con la
zip della giacca.
«Dici sul seriooo?»
trillò il bambino, zompando con enfasi appeso al suo
braccio.
«Sì,sì, per la
miseria… Non farmi fuori prima, eh.»
ridacchiò Mickey.
Billie si precipitò da mamma e
papà per domandare il permesso, mentre
Mickey digrignò i denti contro Ian.
«Mi hai incastrato, firecrotch. Ora mi
toccherà fare il babysitter! Io?
Mi ci vedi, cazzo?»
«Guarda che hai fatto tutto da
solo!» l’altro si difese con nonchalance e
alzò le mani «Anzi, sai cosa penso?»
«Sentiamo.»
Il rosso abbozzò un ghignetto e scosse
la testa. «Che lo vorresti un
bambino. Un bambino nostro.»
«COSA?» Mickey si
batté i palmi sulle cosce e cominciò a schernirlo
«Oh
mio dio. Amico, hai le visioni. Passi troppo tempo in quei cazzo di
posti
strani. Sai cosa voglio?» Afferrò Ian per
l’uniforme mimetica, a piene mani, e gli
respirò in faccia, avido di un tocco che gli era stato
sottratto per mesi. Guardò
quel viso segnato dalle fatiche e dalla polvere del deserto. Avrebbe
voluto che
non partisse mai più. Avrebbe voluto che lui non dovesse
più custodire un orrore
nascosto, come un velo, nelle iridi cinerine. Avrebbe voluto smetterla
di far
parte delle “mogli” ogni volta che andava a
prenderlo in aeroporto. Avrebbe
voluto svegliarsi sempre accanto a lui al mattino. Avrebbe voluto
essere
costantemente felice come lo era in quel preciso istante. Avrebbe
voluto tante
cose, molte delle quali ancora non aveva il coraggio di desiderare a
voce alta.
«Voglio che mi scopi in macchina, adesso. Perché
fino a casa, sai, non
c’arrivo.»
Ma è finita davvero questa settimana?
Sigh :’(
Spero solo di non avervi annoiato,
e soprattutto che Mickey e Ian non vi siano
sembrati OOC.
Un bacio a chi mi è stato vicino in
questi pazzi pazzi giorni
un bacio a chi ha letto/commentato queste mie
piccole creature,
un bacio a Ceci che ha fatto tantissimo per me,
un bacio a Federica per la Gallavich as Kurtofsky,
un bacio a Ilaria che ha partecipato alla week perché io
insistevo,
un bacio a Frà che ha letto per prima "Shot through the
heart".
E
niente, se non si fosse capito, mi piace troppo quando Mickey
chiama Ian firecrotch.
Phoenixstein