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Autore: Lisaralin    30/06/2013    4 recensioni
Un bambino che porta il nome di un grande poeta della sua terra, pallido ricordo di un passato spazzato via dall'orrore della guerra e dalla follia degli uomini. Un bambino speciale. I suoi poteri, come per tutti i Cavalieri del Cancro, sono legati alla Morte; e la Morte regna incontrastata attorno a lui. Il suo scopo pero' e' uno solo: sopravvivere.
[Saint Seiya Omega - Schiller del Cancro]
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Cancer DeathMask
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ed ecco il secondo capitolo. Avviso subito che per il terzo e ultimo potrebbe volerci un bel po' visto che al momento non sono molto ispirata a scrivere, anche se ho tutto in mente :(


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Capitolo 2

Berlino, aprile 1945



Si combatteva strada per strada, casa per casa.
Il Reich che doveva durare mille anni alla fine aveva ceduto: i nemici si riversavano da ogni parte per le vie della capitale, ma i difensori ancora si ostinavano, contro ogni logica, a combattere.
Stupidi. Moriranno tutti.
Che senso aveva dare la vita per difendere un ammasso di rovine annerite dal fuoco?
Ormai non restavano più nemmeno i ratti da mangiare. Schiller andava avanti da giorni bevendo l'acqua delle pozzanghere, scappando ogni volta che vedeva una divisa nemica e nascondendosi tra le macerie quando gli aerei passavano a distribuire il loro carico di morte. I giorni si confondevano l'uno nell'altro in una spirale di paura e stanchezza, in un eterno trascinarsi, sempre più stremato, da un rifugio all'altro.
Aveva visto qualche disperato cibarsi dei cadaveri che si ammassavano per le strade, ma lui non ci riusciva. Per qualche ragione inspiegabile quei corpi straziati gli facevano quasi più paura dei soldati nemici. Nei morti non c'era nessuna energia, solo un vuoto profondo e assoluto, e lui non riusciva a sentirli. L'odore che aleggiava intorno a loro gli invadeva le narici, gli penetrava fin nella gola come un artiglio e lo faceva piegare in due dalla nausea. E non si trattava semplicemente della puzza di decomposizione che normalmente accompagna i cadaveri. No. Era come... sembrava... come se fosse la Morte stessa a emanare quell'odore. E allora Schiller correva via, scappava ancora più veloce per mettere più distanza possibile tra sé e quell'orrore.
Quel giorno però aveva avuto fortuna. Tra le macerie di un palazzo aveva trovato, un po' schiacciato e impolverato ma ancora commestibile, un filone di pane. A giudicare dalla consistenza doveva essere di due o tre giorni prima, probabilmente conservato gelosamente dagli sfortunati che avevano abitato la casa bombardata. Ad ogni modo, a loro non serviva più. Tenendo il bottino nascosto nella camicia sdrucita Schiller si insinuò tra detriti e calcinacci fino a raggiungere una casa miracolosamente rimasta in piedi, ad eccezione del soffitto crollato. Pregustando il primo pasto decente da giorni si accoccolò con la schiena contro una parete, scostando rifiuti e detriti con i piedi per mettersi comodo, e tirò fuori il pezzo di pane.
“Aiutami... “
Sussultò, bloccandosi nell'atto di dare il primo morso. Un'ombra grigia si mosse strisciando da dietro un cumulo di macerie, avanzando verso di lui. Schiller si alzò di scatto, appiattendosi contro il muro.
“Ti prego... ho fame... “
Era un uomo di mezza età, magro e cencioso, con una coperta di colore indefinibile sulle spalle che gli ricadeva fino ai piedi a mo' di mantello, e lo fissava con un sorriso sdentato. Dove avrebbe dovuto esserci il suo occhio sinistro si apriva una voragine incrostata di sangue rappreso. Schiller rabbrividì, rafforzando la stretta sul pezzo di pane.
“Non ti faccio male, ragazzino... “ la voce dello sconosciuto ricordava il raschiare del legno contro la pietra, come se non la usasse da tantissimo tempo. “Voglio solo un pezzo del tuo pane... un pezzo piccolo piccolo mi basta... ti prego, non mangio da giorni... “
Anch'io non mangio da giorni, avrebbe voluto rispondere, ma la voce non gli uscì. Paralizzato, non riusciva a staccare gli occhi dal pozzo di sangue sul volto dell'uomo, terrorizzato e affascinato allo stesso tempo.
L'uomo si fermò a poca distanza da lui e sollevò le braccia, mostrandogli i palmi vuoti per indicare che non aveva cattive intenzioni.
“Anche tu sei rimasto solo, eh?” continuò, incurante del fatto che Schiller non gli rispondesse. “Avevo un bambino più o meno della tua età, sai? Andato, anche lui. Non hanno trovato nemmeno un'unghia né di lui né della mia Nina quando la bomba ha distrutto la nostra bella casa a Dresda... nemmeno un'unghia... vivevamo bene, ma adesso... adesso ho tanta fame...“
Lentamente, senza staccare lo sguardo dal viso sfigurato dello sconosciuto, Schiller staccò un pezzetto di pane e lo tirò verso l'uomo, senza avvicinarsi. Quello lo raccolse e lo divorò in due bocconi, il volto trasfigurato da un'espressione di beatitudine.
“Aaaah... grazie... avevo quasi dimenticato che sapore avesse... all'inizio noi dell'esercito avevamo pane ogni giorno, ma poi... io ero un soldato, sai? Ho dato tutto per la patria e per il Führer, tutto me stesso... e cosa ci ho guadagnato alla fine?” si indicò l'occhio mancante. “Solo questo... solo e soltanto questo... “ la sua voce si spense, e per un attimo l'uomo sembrò perdersi in qualche buio recesso della sua mente.
“Ma tu sei stato molto gentile” disse infine, di nuovo presente a se stesso. “Grazie. Grazie di cuore”. L'ex soldato sorrise, e Schiller, timidamente, si ritrovò a ricambiare.
“Mi chiamo Klaus” disse l'uomo tendendogli la mano. “Klaus Spiegelberg.”
“Schiller...” mormorò porgendogli la sua.
“Schiller” ripeté l'altro. “Come il poeta. Un nome importante.”
La stretta di Klaus era forte e sicura. Schiller gli strinse la mano a sua volta... e tutto d'un tratto si ritrovò per terra. Prima che avesse il tempo di capire cos'era successo il soldato si stava già allontanando a grandi passi, il resto del filone di pane stretto tra le mani.
“Mi dispiace ragazzino, ma tanto tu non ce faresti comunque!”
Era successo tutto in pochi attimi. Il pane... il suo unico cibo...
La risata del soldato, aspra e stridente, risuonò gelida tra le macerie.
Tu non ce la farai comunque...
Non ce la farai...

Schiller si rimise in piedi e gli corse dietro mentre lacrime di rabbia gli rigavano le guance.
“RIDAMMI IL MIO PANE BASTARDO!!”
Era come se una diga si fosse rotta dentro di lui. Con un urlo immane cacciò fuori tutta la rabbia accumulata in mesi di miseria e sofferenze, tutta la furia contro quel mondo maledetto che gli aveva tolto ogni cosa, e caricò il soldato sferrandogli un pugno con ogni briciolo di energia che aveva in corpo. Tra le lacrime che gli appannavano lo sguardo vide una luce brillare sul petto dell'uomo, nel punto esatto in cui lo aveva colpito. Qualcosa di caldo e vischioso gli schizzò in faccia mentre Klaus si afflosciava a terra con un tonfo sordo, gli arti scomposti come quelli di una marionetta rotta.
Schiller ritirò pian piano la mano, che ancora splendeva di una flebile aura luminosa. La sentiva pulsare di vita e di un'energia incontenibile, come mai aveva percepito prima di allora in nessun essere vivente.
Poi il familiare odore della Morte gli aggredì le narici e lo fece cadere in ginocchio, travolto dalla nausea.
A pochi metri da lui Klaus giaceva riverso, l'occhio sano sbarrato e rivolto verso il cielo e un buco grande quanto un pallone da calcio aperto in mezzo al petto. Intorno al suo corpo una pozza di sangue si allargava pian piano.
Poi Schiller vide qualcosa sollevarsi dal suo corpo martoriato, una nebbia diafana che sembrava sorgere direttamente dalla ferita sul petto. La nebbia prese forma e assunse braccia e gambe, e due occhi – due! - fissarono Schiller con uno sguardo pieno di tristezza da un viso spettrale che emanava una tenue luce azzurrina. Ma era il viso di Klaus, su questo non c'erano dubbi.
Schiller vomitò, lo stomaco contratto da crampi lancinanti. Si rimise in piedi su gambe che lo sorreggevano a stento e fuggì barcollando, con il cuore che gli martellava nel petto come se volesse sfondare la gabbia toracica e scappare via sua volta. Corse fino a che non gli mancò il fiato e cadde a faccia in avanti tra i resti di un'automobile sventrata. In ogni ombra gli sembrava di scorgere gli occhi tristi del fantasma che lo perseguitavano.
Si rialzò, e corse ancora.
Stavolta però non riuscì a lasciarsi alle spalle l'odore della Morte. Da quel giorno gli rimase sempre appiccicato addosso, come una seconda pelle, e divenne in qualche modo parte di lui.



Già la seconda volta fu molto più semplice.
Gli spari lo svegliarono prima dell'alba, nel palazzo semidistrutto dove si era rifugiato la sera prima. Rapido si insinuò tra due pezzi di un cornicione crollato e sgattaiolò nel vicolo sul retro con l'intento di allontanarsi alla massima velocità dalla zona dello scontro.
Si accorse dei soldati nemici soltanto quando finì loro addosso. Erano solo in due e avevano le divise sporche di sangue; uno di loro si appoggiava alla spalla dell'altro con tutta l'aria di non poter muovere una gamba. Probabilmente si erano rifugiati lì per riposare o medicarsi le ferite; ma a tutto questo Schiller fece caso solo dopo. Il soldato che sorreggeva il compagno cacciò un'imprecazione nella sua lingua strana quando Schiller gli inciampò addosso, e mosse una mano come per colpirlo o schiaffeggiarlo.
Stavolta il corpo di Schiller si mosse d'istinto. In un solo, fluido movimento si abbassò per evitare il colpo e sferrò un pugno verso l'alto, contro la mascella dell'uomo. Nella caduta il soldato si trascinò appresso il compagno ferito, ed entrambi rotolarono tra la polvere del vicolo invaso dalle macerie.
Come quando aveva colpito Klaus, Schiller sentì l'energia nel suo corpo guizzare esuberante e incitarlo a colpire ancora, ansiosa di essere liberata. Fece un passo verso i nemici abbattuti e il suo piede urtò contro qualcosa.
Schiller sollevò l'oggetto, uno zaino mimetico che doveva appartenere ai due sfortunati soldati. Dentro c'era un piccolo tesoro: bende, medicine una borraccia d'acqua, razioni di cibo in scatola.
Mentre contemplava quel ben di dio Schiller si ricordò che quando aveva colpito... no, quando aveva ucciso Klaus era scappato via senza riprendersi il suo pane. Aveva dormito davvero male quella notte, assalito da immagini da incubo e dai crampi allo stomaco.
Guardò i soldati che si stavano rialzando con fatica. Uno di loro sopra la divisa indossava un cappotto militare che dava l'impressione di essere molto caldo e confortevole.
Il soldato con la gamba ferita lo fissava con sguardo terrorizzato, incredulo che in un semplice bambino potesse nascondersi una forza tanto devastante.
“Per... favore... “ supplicò in un tedesco stentato. “Noi non volevamo... “
No. L'ultima persona che aveva implorato il suo aiuto gli aveva rubato l'unica cosa che aveva.
Schiller aprì il cuore all'energia che gli fluiva nelle vene, abbandonandosi totalmente a quel potere inebriante che veniva da dentro di lui.
Il suo pugno colpì preciso e rapido come il fulmine, lasciandosi dietro un'incredibile scia di luce che cancellò i volti dei nemici, le loro urla, ogni cosa. Per un attimo il mondo di Schiller fu avvolto dalla luce. Calda, rassicurante, amichevole.
Poi uno, due tonfi sordi, e l'odore di Morte piombò sul vicolo come un rapace affamato. Schiller lottò contro la nausea, piegato in due con le mani premute contro il naso e la bocca.
Strinse i denti e impose alle sue gambe di non muoversi, sopraffacendo l'istinto di fuggire. Stavolta sapeva cosa stava per succedere, e non aveva intenzione di abbandonare di nuovo ciò che si era guadagnato con fatica.
I due spettri di nebbia diafana emersero lentamente dai corpi senza vita dei soldati, che giacevano riversi l'uno sull'altro. I loro occhi erano tristi come lo erano stati quelli di Klaus, e Schiller sollevò i pugni, guardandoli minaccioso.
“Andatevene! Non ho paura di voi!”
Uno dei due – quello che in vita era stato ferito alla gamba – fluttuò verso di lui, e Schiller non volendo fece un passo indietro.
“Andate via!!” ripeté con un urlo, e lo colpì in mezzo al petto.
Il suo pugno fendette l'aria. Lo spettro si disfece come una nuvola dispersa dal vento, e quello del suo compagno lo seguì subito dopo, svanendo con un sospiro.
Schiller si ritrovò solo in mezzo alla polvere, alle macerie e ai residui di lamiera.
Respirò a fondo per calmare i battiti del cuore impazziti. Nelle vicinanze non percepiva la presenza di nessuno. Il vento gli portò una lontana eco di spari e grida, ma i soldati che avevano combattuto nella strada accanto ormai si erano allontanati.
Solo la Morte restava padrona di quella strada. La Morte, e Schiller.
Raccolse lo zaino e strinse le cinghie in modo che si adattassero alle sue spalle; poi svestì il soldato morto del cappotto e perquisì i due cadaveri alla ricerca di tutto quello che poteva essergli utile. Prese entrambe le loro cinture, un coltello a serramanico, una torcia e gli stivali di uno dei due, anche se erano troppo grandi per lui. Stipò tutto nello zaino e se lo caricò in spalla, soddisfatto.
Solo mentre si allontanava con lo zaino stracarico che gli ballonzolava sulla schiena si accorse che l'odore della Morte aveva smesso di dargli fastidio.
Quella notte, dopo tanto tempo, dormì sereno, al caldo e con la pancia piena.


La crepa si era allargata. Di pochi centimetri, ma si era allargata.
Schiller ne percorse la lunghezza con le dita, gli occhi chiusi per aumentare la concentrazione. Senza aprirli arretrò di qualche passo e fece un respiro profondo, pronto a sferrare il colpo successivo.
Chi lo avesse visto in quel momento lo avrebbe preso per pazzo: un ragazzino che di sua volontà si metteva a prendere a pugni un muro? Voleva forse rompersi una mano?! Ma a Schiller il parere degli altri non interessava. Quella zona periferica della città, ormai rasa al suolo e abbandonata dagli abitanti, da giorni non era più teatro di scontri; e se anche qualcuno fosse venuto a mettergli i bastoni tra le ruote... beh, se la sarebbe dovuta vedere con lui.
Il palazzo che aveva scelto per allenarsi era uno dei pochi miracolosamente rimasti in piedi. La crepa che ne attraversava la facciata esterna non era frutto delle bombe o degli spari, ma della forza delle sue braccia. Pugno dopo pugno, i denti stretti per sopportare il dolore e ignorando il sangue che gli colava lungo il polso gocciolando fino a terra, Schiller colpiva sempre lo stesso punto metodicamente, ossessivamente, ripetutamente.
E il muro, pugno dopo pugno, scricchiolava e cedeva.
Andò avanti per due giorni, con poche pause per mangiare e riposare. Quando infine la parete cedette con uno schianto Schiller si lasciò cadere esausto tra la polvere e proruppe in una risata liberatoria, quasi isterica. Sopra di lui, nel cielo grigio, le scie degli aerei da guerra sbiadivano pian piano, sfilacciandosi tra le nuvole.
Si sarebbe allenato ancora, e presto nemmeno le loro bombe lo avrebbero più spaventato. Sarebbe diventato più forte di qualsiasi esercito, più letale di qualsiasi fucile, e non avrebbe più sofferto la fame o il freddo. Stringendosi al petto la mano dolorante, Schiller sorrise.
Due giorni dopo la bandiera rossa del nemico sventolava vittoriosa sulla cima del Reichstag.


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Nota: ho ripreso il fatto che Schiller e' in grado di vedere i fantasmi delle persone dal gaiden di Manigoldo di Lost Canvas, dove sia il Cavaliere del Cancro che una bambina originaria di Death Queen Island ne erano capaci (e anzi, potevano anche parlare con gli spettri). Ho immaginato quindi che fosse un potere di tutti i Cavalieri del Cancro.
  
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