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Autore: Inessa    16/01/2008    7 recensioni
Anche nei tempi più bui, tra i pensieri ricoperti di brina, nell’attesa del disgelo. Quando le città cambiavano nome, gli ideali scaldavano gli animi e si viveva in tanti negli appartamenti per pochi. Persino allora c’erano le belle storie. Storie comuni, che ciascuno teneva per sé, soffrendo in solitudine e in silenzio, godendo di quel retrogusto zuccherino che il dolore fa pagare a caro prezzo.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Novecento/Dittature
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Special thanks: a Rowina per il betareading e Eos75 e consorte per le conferme storiche che la mia mente aveva rimosso.





Fiaba Sovietica

di Izumi





Le belle storie si nascondono spesso dietro le lacrime. Quasi invisibili, procedono con la loro bruciante profondità, dietro il dolore. Serpeggiano sotto la pioggia, tra l’indifferenza, fuggendo gli occhi disattenti, riparandosi tra i battiti furiosi del cuore, nei ricordi che fanno male, nei groppi in gola.
Anche nella città del Nord, nelle notti in cui il ghiaccio sembra aver congelato le sensazioni, i sogni, le gioie e le intemperie. Persino oltre le nubi che nascondono il cielo. Lì brillano le stelle più belle.
Anche nei tempi più bui, tra i pensieri ricoperti di brina, nell’attesa del disgelo. Quando le città cambiavano nome, gli ideali scaldavano gli animi e si viveva in tanti negli appartamenti per pochi. Persino allora c’erano le belle storie. Storie comuni, che ciascuno teneva per sé, soffrendo in solitudine e in silenzio, godendo di quel retrogusto zuccherino che il dolore fa pagare a caro prezzo.
E una sera di settembre, sotto la pioggia che imperversava violenta sulla stazione di Leningrado, riparata a stento da un ombrello malconcio, circondata da figure grigie, dai passi pesanti dei militi, dai fischi dei treni che si avvicinavano senza fermarsi mai troppo a lungo davanti a lei, una giovane donna custodiva una di quelle belle storie e la raccontava a se stessa, con la speranza di riportarla in vita.



Ed alla sua bandiera scarlatta, altruismo famoso
Noi saremo sempre fedeli!
Gloria, patria nostra libera,
amicizia dei popoli, affidabile rifugio!
(Inno Sovietico)




Leningrado, Novembre 1935

Il vento gelido dell’inverno gli feriva il volto, mentre correva lungo il corso Nevskij con un involucro stretto al petto, fiancheggiando il grande fiume. L’aria fredda gli rendeva il respiro pesante e doloroso; gli arti insensibili e la gola secca e ardente per lo sforzo.
Svoltò a sinistra, nel punto in cui la Fontanka affluiva nella Grande Neva, sforzandosi di mantenere l’andatura senza scivolare sul ghiaccio e, finalmente, si fermò davanti ad un portone spalancato. Sulle pareti dell’androne era affisso un cartello con gli orari in cui gli inquilini erano pregati di mantenere il silenzio e un messaggio poco cortese che invitava la matrona del secondo piano a badare alla propria biancheria.
Controllò furtivo che nessuno lo osservasse e si precipitò su per le scale, ansimando rumorosamente. Bussò alla porta in cima, col cuore che batteva veloce nel petto.
Rispose una voce femminile, al di là del legno spesso.
- Chi è?
Rimase in attesa, senza rispondere, ascoltando i passi leggeri che si avvicinavano. Pochi secondi dopo, due occhi grigi lo fissavano freddi, su un volto dall’espressione seria ed impassibile. La donna lo osservò per qualche secondo, poi posò gli occhi sul pacco che teneva in mano.
- Accomodati.
Si spostò per farlo entrare, mentre le comunicava a voce più alta del necessario l’aumento del prezzo della farina. Lei richiuse la porta, che non aveva modo di sigillare, ignorando le occhiate curiose della donna dell’appartamento adiacente.
Si accomodarono attorno al tavolo del cucinino, mentre il samovar1 fischiava.
- Non puoi venire ogni giorno alla stessa ora, Mitja. – sussurrò decisa la donna, versando l’acqua bollente in una tazza, con un lieve tremolio delle mani, che la scuoteva dal momento in cui aveva riconosciuto il suo picchiare alla porta.
- Consegno i viveri, è il mio mestiere. – rispose calmo lui, con il suo marcato accento siberiano, fissando in maniera ossessiva i movimenti delle sue mani, gli occhi attenti e brucianti e il fiato ancora corto – E tu non dovresti accogliermi con una tazza di tè. Corro per chilometri sotto la neve per guadagnare pochi minuti.
Tolse i guanti e la sciarpa e li poggiò sulla sedia accanto alla sua. Il riscaldamento era eccessivamente alto per l’ambiente troppo piccolo, nonostante gli spifferi che entravano da ogni dove e le finestre spalancate. Lei rimase in silenzio, come se non avesse sentito la sua voce.
Rovesciò dell’acqua sul pavimento in un movimento spasmodico, l’espressione colpevole, con le mani che tremavano sempre più violentemente. Anche il suo respiro si era fatto pesante. Aggirò il tavolo per prendere un canovaccio, ma la mano fredda di lui la bloccò per un polso. Fu costretta a voltarsi e guardarlo negli occhi scuri, poco più giovani dei suoi, e il suo sguardo severo si addolcì quasi, mentre lottava contro se stessa. La mano libera salì istintivamente e prese a giocherellare con la catenina che portava al collo.
- Non posso…
Uno strattone la costrinse a fermarsi. Con un gesto deciso lui le scostò dalle dita il ciondolo con la falce e il martello e la attirò verso di sé, ancora seduto al tavolo, sentendo le sue barriere affievolirsi. Le portò le mani ai fianchi e le fece scorrere lentamente sulla stoffa del vestito, costringendola ad avvicinarsi a lui, tra le sue ginocchia aperte.
- Smettila! – le intimò deciso, sollevando il viso. Poteva sentire il suo desiderio che, malgrado gli sforzi, trapelava dal fiato caldo fino ad accarezzargli la barba scura.
- Sveta, sei in casa?
La porta d’ingresso si spalancò accompagnata da scricchiolii e passi coperti da stivali invernali. Si allontanarono subito e Dmitrij scattò in piedi infilandosi velocemente i guanti e riannodandosi la sciarpa, appena prima che una figura femminile parecchio robusta si affacciasse sull’uscio.
- Salve, Dmitrij Ivanovič.
- Olga Michailovna. – rispose lui con un cenno di saluto, affrettandosi verso l’uscita. – Ci vediamo la settimana prossima, Svetlana Borisovna.
La invitò con lo sguardo ad accompagnarlo e lei obbedì, scusandosi con la suocera.
- Apri da sola il pacco e non farti vedere. – sussurrò lui a bassa voce sull’uscio, mentre la testa del figlio del vicino di casa si affacciava sul pianerottolo. Sfiorò appena le mani della sua Sveta, nonostante i guanti lo rendessero quasi del tutto insensibile. Si voltò e scese lentamente le scale, mentre lei restava immobile ad osservare le sue spalle ampie che si allontanavano, coperte dal cappotto pesante grigio, come sempre.
- Da Svidanija! 2
Rientrò con un sospiro e si affrettò per mettere da parte l’incarto portato da Dmitrij, prima che Olga lo scartasse. La trovò infatti intenta ad armeggiare con delle forbici per tagliare lo spago. La scostò gentilmente.
- Faccio io, tu va’ a risposare. Andrej e Roman restano in fabbrica fino a stasera, avrai tempo. Attese che la donna si spostasse nell’altra stanza e sedette allo stesso posto in cui prima era stato Mitja. C’era ancora la sua tazza semipiena. La portò alle labbra, sorseggiando il tè ormai freddo e aprì l’incarto, umido per la neve che si era sciolta al calore dei riscaldamenti.
Vi trovò una busta all’interno, oltre le confezioni di lievito e farina. Riassettò i capelli castani dietro l’orecchio, sospirando profondamente, e poi la aprì, curiosa, colpevole e trepidante allo stesso tempo.
Le guance le si tinsero di rosso ed improvvisamente il calore si fece insopportabile anche per lei, che non indossava la sciarpa, i guanti e il colbacco, né il cappotto di renna. Dovette affacciarsi alla finestra, lasciare che l’aria fredda la riscuotesse e le schiarisse le idee, mentre con le mani sudate torturava i fogli di carta che aveva in mano.
Due biglietti. Per il treno diretto che portava da Leningrado a Mosca. Partenza serale. E un messaggio scritto a mano: Ti aspetto lunedì alla stazione Moskovskij. Non deludermi. Un errore ortografico e un segno forte che persisteva ancora, nonostante fosse stato abolito da anni dall’alfabeto sovietico.
Rimase col naso fuori dalla finestra per parecchi minuti, riflettendo. Di fronte a lei il paesaggio era grigio, il cielo ricoperto dalle nubi, poca gente che attraversava le strade sporche di fango e neve e, in lontananza, il riflesso della luce solare sui blocchi di ghiaccio che galleggiavano sulla Fontanka. E poi una macchia rossa, che sventolava orgogliosa sulla cima di un palazzo.

Lunedì sera, Sveta aveva messo il suo bambino a letto presto. Gli aveva rimboccato le coperte, aveva spento tutte le luci e gli aveva raccontato la storia del compagno Lenin che, anni prima, aveva reso libera la loro patria. La storia dei coraggiosi combattenti che li avevano liberati da uno zar tirannico, da una zarina traditrice, dai nemici della felicità comune.
Gli aveva narrato dell’avvento di un valoroso e meraviglioso georgiano, che vegliava ancora adesso su di loro, con lo sguardo bonario e il portamento elegante.
Aveva sorriso teneramente poi, felice nel vederlo addormentato con la spensieratezza dell’infanzia dipinta sulle labbra, sicuro e soddisfatto, con negli occhi ancora le immagini della gloria rossa.
Poi aveva riassettato la casa, con l’inquietudine di chi teme che qualcosa di brutto stia per accadere; o si fa tormentare dai sensi di colpa per un’azione che non ha ancora commesso, ma alla quale non può sfuggire.
E, ancora, era stata brava a salutare suo marito con una bacio sulle labbra ed un abbraccio sincero. Aveva preparato un bagaglio leggero, indossato il cappotto pesante, la sciarpa, i guanti e il cappello, aveva raccolto i capelli e poi era uscita in silenzio, gettando uno sguardo fugace al suocero che dormiva sul divano e alla suocera che leggeva sulla poltrona accanto a lui.
Non appena ebbe varcato l’uscio, una sferzata di vento gelido le ferì il volto. Iniziò a tremare e, per un attimo, provò l’impulso di tornare dentro e andare a dormire al suo posto, nel suo letto, tra suo figlio e suo marito. Poi ripensò alle poche righe scritte su un foglio di carta, ad una supplica e agli occhi scuri e profondi di colui che la attendeva alla stazione, su un treno diretto per la nuova capitale. Con l’innocenza di un ragazzo e la passione di un uomo. Non ebbe il coraggio di sollevare lo sguardo.
Avanzò a testa bassa tra la neve alta che le entrava dentro gli stivali, inzuppandole le calze. Tentò di aumentare l’andatura, per arrivare più velocemente a destinazione e anche per scaldarsi, ma più correva, più il freddo le feriva le guance e le penetrava fin dentro le ossa. Non si udiva altro suono, per le vie deserte, se non quello dei suoi passi bagnati tra la neve e quello del suo respiro pesante, che le raschiava la gola e la Neva che gorgogliava in sottofondo tra il ghiaccio e il vento.
Le strade della periferia erano buie e la luna piena era coperta da uno spesso strato di nuvole. Ai sensi di colpa e all’adrenalina si aggiunse anche un vago senso di terrore che la accompagnò fino all’ingresso della stazione Moskovskij.
Finalmente il rassicurante fischio delle locomotive e il rumore del ferro delle rotaie le riempirono le orecchie. Voltò la testa da questa e dall’altra parte, scrutando tra la folla, alla ricerca di un familiare cappotto di renna su delle larghe spalle siberiane.
Sussultò violentemente quando sentì una mano pesante posarlesi sulla spalla sinistra. Si voltò di scatto, ma lo sguardo scuro e il sorriso maturo e sincero di Mitja la investirono in pieno. Il viso le andò in fiamme, come se fosse tornata indietro di quindici anni, quando la sua innocenza di bambina le faceva brillare gli occhi di fronte ai regali dolci ed inattesi o alle belle storie.
- Sapevo che non mi avresti deluso.
Annuì semplicemente, con lo sguardo che brillava e l’animo come sempre in subbuglio, pronto a vibrare al suono di quell’accento che veniva da lontano e di quella voce leggermente roca.
Lui le tolse la borsa, mettendola su una spalla e col braccio libero le cinse la vita. La strinse, per ripararla dalla neve che aveva ripreso a cadere violenta, in vortici bianchi che si disperdevano sul ciottolato, e iniziò a camminare velocemente, verso l’interno della stazione, verso quel treno che li attendeva al quarto binario. Che attendeva loro e tutti coloro cui non restava che nascondersi. E tradire, pensò Sveta, cogliendo con la coda dell’occhio il rosso scarlatto di una bandiera all’interno dell’edificio.
Restarono immobili per parecchi minuti, in balia del vento freddo e con gli stivali immersi nella neve alta della banchina, prima di poter imbarcare. Lei teneva il cappuccio sulla testa, coprendosi attentamente il volto nella speranza di non essere vista. Trovò un po’ di conforto solo soffermandosi sullo sguardo gentile e sui lineamenti femminei di un giovane seduto su una panchina lì accanto, accompagnato da un uomo più possente, che gli riservava gli stessi atteggiamenti protettivi che Mitja riservava a lei.
Uno schiaffo, di fronte ai manifesti del partito che comparivano sugli agit-poezd3.

Le cuccette di seconda classe erano fredde e poco accoglienti e l’umidità era tale da sembrare di stare ancora all’aperto. Mitja chiuse i finestrini del loro scomparto, proprio mentre il treno iniziava a muoversi, e, subito dopo, anche le porte, sperando di creare un po’ più di tepore.
Sveta, tremando e battendo i denti per il freddo, sedette su uno dei letti, senza smettere di osservarlo. Tentava di impedire ai propri pensieri di vorticare attorno agli stessi punti, agli stessi sensi di colpa e alle stesse giustificazioni. Quello era il destino che l’Unione Sovietica riservava alle coppie clandestine. Non che certe scelte fossero autorizzate, ma le alternative non erano poi tante: o la rinuncia, o l’aggiramento.
E, quando Mitja si sedette accanto a lei e le sollevò il mento con una mano gelata, abbassandole il cappuccio che le copriva il viso con l’altra, capì che poteva considerare l’aggiramento come una scelta giusta, al di là di tutto.
- Non ti permetterò di pensare a quello che ci divide anche in questo momento. – le sussurrò sottovoce. Lei annuì, troppo insicura per poter assentire ad alta voce.
Rabbrividì, per il gelo e l’irrequietezza, mentre lui le faceva scivolare via il cappotto. Le tolse anche i guanti, liberando le mani fredde e sudate e le baciò il palmo e le dita, che pungevano per via dei geloni.
Lei gli accarezzò la barba, tremando ancora, e finalmente lo baciò sulle labbra secche e sottili. Sentiva forte il sapore del tabacco e della vodka. Gli morse leggermente il labbro inferiore, passandogli una mano tra i capelli corti dietro l’orecchio.
Realizzò solo in quel momento che si trovavano davvero su un treno diretto a Mosca, davvero soli e davvero lontani dal rischio che marito, figlio o suoceri o anche vicini di casa potessero irrompere e costringerli a separarsi, trattandosi da sconosciuti, e un gradevole fremito la percorse. Lo desiderò, come una donna sovietica avrebbe dovuto desiderare il suo uomo, e quella bramosia le offuscò la mente, rendendola incapace di andare oltre lui e quello che voleva e che finalmente era loro concesso.
Spogliò anche lui del cappotto di renna e gli passò le mani su quelle spalle che vedeva ogni mattina, che la torturavano allontanandosi sempre troppo presto, e finalmente sentì che il gelo se ne andava, rimpiazzato dal calore che le mani di Mitja, non più fredde, riuscivano a sprigionare accarezzandole i fianchi ed infilandosi tra i bottoni della camicia, sotto il maglione pesante, sulla pelle nuda.
Il rumore del treno che si muoveva sulle rotaie creava uno strano ed eccitante connubio, mescolandosi con il respiro sempre più pesante di Dmitrij e persino l’odore del fumo di sigaretta che gli impregnava i vestiti le apparve piacevole in quei momenti.
Si fece sfilare il maglione, restando solo con la camicia azzurra e, cedendo al suo invito silenzioso, si sdraiò sulle lenzuola ruvide e sporche. La neve che imbiancava la steppa russa scomparve, così come le sagome delle dacie e delle betulle, che si intravedevano dal finestrino tra il buio della notte che avanzava.
La sua visuale venne ricoperta dal soffitto grigio e dovette chiudere gli occhi per un attimo, per non farsi tormentare dalla stella rossa che ornava l’ingresso della cuccetta. Attirò a sè il volto del suo Mitja e lo baciò di nuovo, per cancellare tutto il resto.
- Dimentica, Sveta, dimentica… - sussurrò lui al suo orecchio, scendendo con le labbra sulla sua gola, e tracciò lentamente una lunga scia di baci fino alla spalla ormai scoperta.
Non fu capace di reagire nemmeno quando si sentì strappare dal collo la catenina con la falce e il martello. In quell’istante si sentì davvero nuda di fronte a lui, ancor più che nel momento in cui lui le ebbe tolto di dosso tutti gli indumenti e saggiato il suo corpo con le mani, con le labbra. Lo vide infine togliersi la maglia scura e poi afferrare il suo cappotto, i muscoli nudi contratti per il freddo, e poggiarselo sulle spalle per coprire entrambi. Si chinò di nuovo su di lei e la sensazione del suo torace ruvido a contatto con la pelle sensibile del suo seno le causarono un brivido violento, che le arrivò sino ai piedi, rimasti ancora gelati. Intrecciò le gambe nude alle quelle forti di lui. Gli passò di nuovo le mani sulle spalle, pelle contro pelle, e lo graffiò, gemendo e facendolo gemere mentre scivolava dentro di lei, muovendosi con l’intensità e la forza della passione repressa.
Tutto si dissolse davvero, al di là dei binari, degli scomparti pieni, dei treni dell’amore, delle nubi cariche di neve, della Croce del Nord, che brillava sulla pianura russa innevata, sul dolore e sull’emozione.


Soffocando, gridai: “E’ stato tutto
uno scherzo. Muoio se te ne vai”.
Lui sorrise calmo, crudele
e mi disse: “Non startene al vento.”

(Da Sera – A. A. Achmatova)


Leningrado, Settembre 1936

- Non rappresenterò mai per te quello che rappresenta l’Unione Sovietica.
- Un ideale?
- Una fede.


Dopo il ritorno da Mosca, il suo Mitja non era diventato che un ricordo.
Era bastato un attimo, la vista di un bolscevico in divisa rossa stampato sulla carta di una caramella, una bandiera ed una stella e le emozioni di quella notte trascorsa in uno scomparto di seconda classe erano state surclassate dalla paura e dal senso di colpa.
Sveta aveva raccolto la sua catenina dal pavimento del treno, si era rivestita, coprendo così i segni che Mitja le aveva lasciato sul corpo, e non era più riuscita a guardare il suo uomo negli occhi, a stringerlo a sé e ad implorarlo di toccarla, parlarle e farle sentire di nuovo la sua cadenza seducente, il suo fiato caldo che sapeva di vodka.
L’aveva costretto a smettere di lottare, perché nemmeno l’amore riusciva a farle dimenticare quello che era, quali erano i suoi ideali, le cose in cui credeva. Il suo flebile tentativo di fermarlo e promettergli quello che non poteva dargli avevano avuto come unica conseguenza quella di vedersi sbattere la verità davanti agli occhi.
Forse Mitja aveva previsto sin dall’inizio come si sarebbe conclusa la loro storia, eppure lui aveva avuto il coraggio e la tenacia per lottare. Per tentare di averla. Aveva sfidato il destino e l’Unione Sovietica.
E adesso se n’era andato. Portato via da un treno simile a quello che li aveva accompagnati a Mosca, per trascorrere la loro notte in compagnia solamente l’uno dell’altra, per bruciare assieme sotto la loro neve.
A nulla erano valse le sue preghiere di quell’anno ad un Dio in cui non credeva. A nulla era valso attendere ogni giorno alla stazione Moskovskij, sperando che prima o poi lui scendesse da un treno, pronto a lottare di nuovo per lei. A correre tra la neve, a lasciarle dei messaggi nell’incarto della farina, a spogliarla e strapparle dal collo il suo credo.
Quando sospirando Svetlana si decise a tornare a casa, inzuppata dalla pioggia che cadeva violenta su Leningrado, sotto un ombrello troppo debole per poterla riparare, un cappotto grigio attirò la sua attenzione e, col cuore che le saltava in gola per l’emozione, accelerò il passo, fino a correre nella sua direzione. Inciampò sull’acciottolato bagnato e cadde nel fango; l’ombrello le scivolò dalle mani e la pioggia la colpì in pieno, incollandole i capelli al volto.
- Mitja…
Troppo tardi si accorse che quello che aveva visto non era il suo Dmitrij. Rimase immobile per parecchi secondi, in ginocchio tra il fango e i ciottoli che le ferivano le gambe.
Ma il fischio di una locomotiva in arrivo sul binario vicino la costrinse a sollevare gli occhi, a vedere la bandiera rossa che sventolava sulla sommità del treno... e ad alzarsi in piedi.


Fine


1 Oggetto metallico utilizzato per portare l’acqua a temperatura di ebollizione (http://it.wikipedia.org/wiki/Samovar).

2 Arrivederci.

3 Treni dell’agitazione, tradotto letteralmente. Vi venivano dipinti sopra dei manifesti di propaganda, per diffondere gli ideali della rivoluzione. Dato che mi suonava male, ho lasciato il termine originale.


Note Finali: i Treni dell’Amore sono esistiti davvero, in Unione Sovietica. Ai tempi del totalitarismo, le coppie clandestine (sia eterosessuali, che omosessuali) erano costrette a ricorrere a “luoghi alternativi” per trovare un po’ di intimità, sia a causa del sovraffollamento e della questione degli appartamenti comuni, in cui la privacy era inesistente, sia perché negli alberghi erano richiesti i documenti di entrambi. Man mano, diventarono anche un diversivo per trascorrere la prima notte di nozze. I più famosi erano quelli che da San Pietroburgo arrivavano fino a Mosca in una notte di viaggio. Esistono ancora, ma sono più lussuosi, più moderni, ed hanno perso il loro significato originario.
   
 
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