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Autore: Hagne    06/07/2013    1 recensioni
Tratto dal primo capitolo:
"I fantasmi del passato erano mostri difficili da addomesticare, creature d’ombra che mal tolleravano le catene alle quali venivano costrette, ed i suoi, di fantasmi, non avrebbero potuto essere imbrigliati neanche se avesse avuto le catene più spesse, pesanti e dure con le quali vincolarli"
[ Seguito di " A Demon's Fate"]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything '
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Capitolo 1
“Left in the darkness
Here on your own
Woke up a memory
Feeding the pain
You cannot deny it “

[…]

“Raised in this madness
You're on your own
It makes you fearless
Nothing to lose”

[…]

 
You can't hide what lies inside you
It's the only thing you've known
You'll embrace it and never walk away
Don't walk away “

( Iron- Within Temptation)




I fantasmi del passato erano mostri difficili da addomesticare,  creature d’ombra che mal tolleravano le catene alle quali venivano costrette, ed i suoi, di fantasmi, non avrebbero potuto essere imbrigliati neanche se avesse avuto le catene più spesse, pesanti e dure con le quali vincolarli.
Dormire non le era mai piaciuto, ed aveva perso l’abitudine di farlo vista la possibilità di privarsi del risposo e, conseguentemente, dei ricordi che l’avrebbero assalita e tormentata nel sonno.
Ricordi dai quali si sarebbe svegliata urlando, angosciata dai  morsi che avrebbe ritrovato sulla sua pelle, il tocco di  mostri che nella sua testa diventavano reali assieme alle loro voci.
E quello non era da meno.
Reale lo era, e terrificante, tanto da far nascere in lei l’ansia di sapersi preda di un altro incubo, una prigione buia dalla quale cominciava a faticare ad uscire, lì, dove le carezze sul suo capo si facevano più viscide e cadenzate, una sensazione familiare che le inondò il viso di panico.
Perché Yehouda era morto, sua madre, era morta, così  gli altri Creatori, e nessuno, nessuno avrebbe potuto più nuocerle, non a lei, non all’uomo che amava, non alla sua famiglia.
Eppure c’era quella paura, c’era e sempre vi sarebbe stata, a farla contorcere dall’angoscia.
Il terrore di saperli da qualche parte, nonostante tutto, vivi e  forse, forse  in cerca di vendetta, di quel desiderio di rivalsa su di lei, la brama che li avrebbe portati a cercarla in capo al mondo per ricordarle una verità che nonostante gli anni passati, nonostante le gioie conquistate e l’amore ricevuto,  non era mai cambiata.
Ciò che non sarebbe dovuto esistere.
Sapeva di esserlo, di non poter in alcun modo negare una verità che era costata così tante vite, così tanto dolore, ed anche se  ora aveva  un amore al quale poter rivolgere ogni suoi pensiero, ciò  non la ripuliva dalle colpe del passato.
Il motivo di tanta morte, tanta distruzione, tanta disperazione.
Perché Loki aveva sterminato una razza di divinità per vendicare le offese a lei arrecate, e aveva ucciso i Creatori, divenendo giudice e giustiziere per proteggere lei, era sempre, per lei.
Ogni suo respiro, sguardo, pensiero, Loki non aveva mai fatto mistero dell’ossessivo bisogno di saperla  al sicuro, di saperla felice, ma accanto  a lui.
E lei lo era, infinitamente, profondamente felice, ma non al sicuro, non lo sarebbe mai stata.
Perché era la sua stessa condizione a renderla incapace di protezione, incapace di sicurezza persino nei suoi sogni.
Il fiato caldo tornò a soffiarle il viso freddo e imperlato di sudore, ma aspettò, trepidante, di averlo di nuovo vicino per voltarsi e affrontare il mostro dei suoi incubi, quello che gorgogliava nell’ombra e tornava, ogni notte, a infestare la sua mente.
Perché non era più una bambina, ed aveva imparato a reprimere la “paura”, quella che anni prima l’aveva vista morire in un cielo tinto dal blu della sua essenza e del suo cuore pulsante vita ed energia.
La stessa energia che le lambì le mani in una lingua infuocata quando, percepito il tremolio di quel respiro contro la tempia, si decise a voltarsi con la risolutezza necessaria a non cedere alla paura, ma quando lo fece, quando la sua mano calò su di lui, sul suo mostro, qualcosa si mosse nel suo petto, l' urlo col quale sgranò gli occhi sul soffitto  della sua stanza e sull’arto mutilato che si trovò a stringere tra le dita e a gettare, poco dopo, via dal letto.
-  Min dame – sibilò qualcuno al suo fianco, una voce roca e bassa che sentì spirare da una  bocca violacea schiusa su denti bianchi e affilati, una dentatura che vide calare sull’arto che Sunniva azzannò, sollevandola con un braccio mentre arretrava di tutta fretta dal letto che ora fissavano entrambe in agitazione, schiacciate contro la parete.
- State bene? – masticò la Gigante con voce graffiata, abbassando su di lei occhi rossi pulsanti vita, forza, quella che aveva reso Sunniva mal tollerata dai suoi simili, perché troppo piccola di statura per poter  essere apprezzata, e troppo forte di braccia per poter essere sconfitta e sottomessa, come le loro leggi imponevano ai maschi della razza, durante l’accoppiamento.
Usanze verso le quali neanche la sua volontà di cambiamento aveva potuto nulla, vista la rigidità delle loro antiche credenze e il religioso rispetto che serbavano per queste.
I giganti di ghiaccio non amavano essere soggiogati, comandati, non loro che, creature più forti dei novi mondi, erano temuti e odiati più di altri, perciò,  se la presenza di un Re li aveva resi insofferenti, la venuta di una Regina, di una donna, li aveva resi recalcitranti come animali chiusi in gabbia.
E mai avevano perduto occasione di sottolineare quella che vedevano come una debolezza. Si erano mostrati ostili, tanto inospitali da aver preso l’abitudine di distogliere lo sguardo da lei, una volta raggiunti i loro passi lunghi leghe più che metri.
Ma aveva comunque imparato a non accaparrarsi un diritto che quelle creature riconoscevano solo a Loki.
Il diritto di comandare, e di esigere da loro il rispetto.
Un rispetto che lei aveva sempre ricercato, mostrando  loro  la fecondità di una terra arida e aspra ma che, se coltivata, avrebbe potuto sostenere la fame tra i loro neonati e saziare i loro stomaci che tuonavano per il fastidio.
Si era adattata persino alla temperatura rigida, alle loro rozze usanze che più di una volta l’avevano costretta ad accompagnarli nelle peregrinazioni assieme al bestiame sulle vette più alte, dove l’aria diveniva così spessa da bloccarsi nei polmoni in rocce d’acqua congelata, ma aveva resistito, e lottato, non aveva mai smesso.
Perché Loki era uno di loro, e come lei aveva saputo accettare tutto di lui,  come loro lo avevano accettato per diritto di legge, per linea di sangue, così lei aveva sempre cercato di farsi accettare per quello che era.
Una creatura che aveva peregrinato per mondi, senza avere né una patria, non un amore, non una famiglia ma che, alla fine, aveva  conquistato  tutto, ma non la quiete.
Non con  un braccio mozzato sul suo letto, un arto maschile dalla forma tozza e ruvida, col palmo grigiastro abbandonato mollemente sulle lenzuola candide.
- Dobbiamo avvertire il Mester – esclamò Sunniva in agitazione una volta ripresasi dalla confusione – dobbiamo-
- Non dobbiamo fare nulla – la interruppe lei con voce stanca, frusciando via dal braccio muscoloso della gigante con un gemito di dolore che la portò a chiudere una mano sulla gola.
E trovò ciò che l’aveva fatta svegliare urlando, l’unghiata rossastra che la sua fedele compagna fissò rabbiosa prima di stringere le labbra con fastidio.
Perché più del Re, più dei suoi simili, Sunniva era fedele a lei, una devozione nata per riconoscenza, per affetto e per quella compassione che le era stata mostrata da una donna ben più piccola e sottile di lei.
Una creatura  che la rendeva incapace di andare contro le sue preghiere, anche quelle più irragionevoli, perché a lei fedele.
Ma se anche la gigante si fosse irragionevolmente opposta al suo desiderio di tacere, sarebbe stato comunque sciocco da parte sua pensare davvero di poter nascondere qualcosa a Loki, e lo capì, lo comprese quando sentì le porte della stanza schiantarsi con un fischio per accogliere la figura tetra del nuovo venuto.
- Fuori.
Sunniva tentennò per un lungo istante, il braccio allacciato attorno alla vita della sua signora che accanto a sé pareva serena nonostante lo sguardo feroce del Mester levitasse su di loro come una minaccia di morte, ma c’era sempre la sensazione di pericolo a pizzicarle le terminazioni nervose per ricordarle quanto crudele potesse essere il loro signore e padrone.
E collerico, rancoroso, ma incapace di fare del male a lei, la minuta  creatura dai capelli d’arcobaleno verso il quale il Re serbava un amore quasi malato, un’ossessione che lo privava di raziocinio e lucidità, tanto da renderlo irragionevole e crudele verso chi si mostrava arrogante con lei.
Lei che  l’aveva accettata al suo fianco quando nessuno l’aveva voluta, ascoltata, quando nessuno  aveva provato a capire la sfortuna della sua diversità, e accettata, come nessuno avrebbe mai fatto.
Eppure l’aveva voluta, e la amava per quella che era, una diversa.
- Vai – la invitò Astrid con voce morbida, sorridendole gentile per rassicurarla prima di notare come  la schiena massiccia della creatura si fosse irrigidita nel passare di fianco al dio degli inganni, così alto, lì, contro la porta, lui e la sua ombra che si dilungava per metri sulla parete opposta, una chiazza scura che si mosse sinuosa assieme all’uomo che si trovò presto addosso.
Loki aveva mani gelate, dure come pietra per la temperatura che condensava i suoi respiri in nuvole di ghiaccio polveroso, ma erano mani gentili quelle che le accarezzavano la gola, polpastrelli che si muovevano con dolcezza e perizia sulle tre strisce scarlatte.
Una ferita alla cui vista il dio reagì indurendo la mascella e cristallizzando lo sguardo che dal suo viso volò alle proprie spalle, sull’arto che con un suo  schioppo di lingua svanì per smaterializzarsi nel suo studio, un immenso androne dai soffitti alti e dalle pareti stipate di libri che sapevano tendere il viso di Loki di interesse.
Il viso che Astrid lambì nel palmo della mano quando notò il lampo di dolore saettato nell’unica pupilla, quella che diveniva così vigile e attenta, e cattiva, nel guardare il mondo, ma che su di lei pareva sciogliersi, ammorbidirsi come una canzone d’amore sussurrata nel dormiveglia per non turbare il suo sonno leggero.
- Guarirà – gli sussurrò morbida, schiudendo le labbra colorate in un sorriso che però non sembrò intaccare la rigidità di quelle di Loki, tanto strette da scomparire nel pallore cadaverico del viso.
Perché anche se sarebbe scomparsa dal collo che accarezzava distrattamente, lui l’avrebbe vista ugualmente su di lei, l’avrebbe percepita sotto le sue dita quando l’avrebbe accarezza, l’avrebbe sentita pulsare nella lingua quando l’avrebbe baciata.
Non avrebbe dimenticato la profondità, lo spessore, il colore scarlatto, non avrebbe dimenticato nulla, non quell’urlo che lo aveva sottratto ai suoi studi, non quella nuova ferita.
Una cicatrice che non sarebbe rimasta su di lei, ma che avrebbe intaccato il suo orgoglio di uomo, di dio.
Un dio incapace di difendere la donna che amava pensò rabbiosamente, tirando l’angolo della bocca in una smorfia contrita che una carezza delicata provò a sciogliere, così da rendere dolce ciò che non lo era, pulito, ciò che era sporco.
Ma era la sua coscienza ad essere sudicia, lercia, e non c’era nessun inganno, nessuna arte manipolatrice o menzognera capace di  convincerlo di averla ancora integra, intatta, priva di falle, di voragini nelle quali inciampare e scivolare nella lordura delle sue colpe.
Perché era stato sì tanto crudele da sterminare una civiltà, ma ogni morte, ogni anima rubata aveva portato con sé il senso di colpa, il ribrezzo che mangiucchiava come termiti ingorde gli angoli del suo cuore malmesso e scheggiato.
Ogni gesto compiuto nell’impeto della follia aveva intaccato un nuovo bozzo nella sua armatura di divinità, ogni scelleratezza, ogni vendetta guadagnata lo aveva reso sempre più sconsolato, sempre più bisognoso di ricercare qualcosa  di nuovo da distruggere, da piegare a sé.
Una vita, una città, una civiltà, nulla sarebbe mai bastato a riempire il vuoto della sua anima, il male inconsolabile che aveva creduto di poter ostruire con gli stralci di un affetto che mai gli era spettato, non quello silente di Odino, non quello ossessivo di Thor, non quello delicato di Frigga.
Eppure, c’era lei, a dargli l’illusione di non avere più nulla per il quale sentirsi perso, e solo.
Bastava quella voce gentile che sapeva rendere il suo nome sempre così scarno e arido sulla lingua altrui meno pungente, più dolce, amabile come lo sguardo di luce che la sua compagna d’eternità gli rivolgeva ogni giorno, anno, secolo.
Immutabile.
Lo era il sorgere e il calar del sole, lo era  il suo amore per lui, insensato vista la sua natura, il suo passato, le sue colpe, ma lo amava, e bastava il pensiero di saperla sua, di sapere che lei lo avrebbe amato comunque, a dargli l’impressione di non essere così sbagliato, di poter avere ciò che la vita e il destino gli aveva negato con tanto accanimento.
- Guarirà – ripetè ancora lei, schiudendo le dita su quella parte del viso che le cicatrici avevano reso tanto sgraziato, lì dove la pelle diveniva così  tesa e fragile, rigida su zigomi che, in passato, avevano potuto vantare  una beltà invidiabile prima di essere intaccata dalla sua follia.
La stessa follia che lo aveva privato di un occhio, quello che gli avevano cavato, che aveva barattato in cambio della vittoria.
E fu sulla palpebra fragile e morbida che  Astrid premette le labbra, dolcemente, imprimendo in quel tocco ciò che lui più bramava prima di prendergli le mani e avvolgersele attorno al busto.
Lo abbracciò con delicatezza, una  presa gentile  nella quale Loki si lasciò sfuggire uno sguardo stanco prima di abbandonare il capo sulla testa di Astrid e chiuderla nel suo, di abbraccio.
Soffocante, doloroso, ma loro.
Quel piccolo pezzo di mondo nel quale sapevano di poter essere al sicuro, di poter essere accettati, e amati, nonostante tutto.
Le regalò una carezza, una sola, un fuggevole tocco di dita gelate che Astrid sentì chiudersi in pugni prima di vederlo perdersi in pensieri  ben più tetri, e oscuri, lì dove lei non avrebbe potuto proteggerlo, lì dove, per quanto vi avesse provato, non sarebbe mai riuscita a guarirlo del tutto dalla malattia d’amore che lo avrebbe reso sempre così bisognoso di essere accettato, di essere amato.






°°°





Jötunheimr.
La Terra dei Giganti di Ghiaccio.
La Terra della Distruzione la chiamavano alcuni, perché arida e morta, disseminata  di vette altissime sulle quali perire per il freddo, gole profonde nelle quali poter gettare le carcasse del più debole della tribù, e lande desolate, ricoperte di fine sabbia bianca nella quale poter essere inghiottiti.
 Deserti incontaminati e morti  ricoperti però da una distesa di fiori di ghiaccio, gigli dai petali d’acqua cristallizzata dal quale era possibile trarre il latte per i neonati, una delle bellezze che Astrid aveva riportato alla luce scavando nelle profondità della terra per mostrare che persino lì, in quel mondo aspro e crudele, c’era la vita, c’era dolcezza.

Il vento lì dove si trovava  però si affievoliva, divenendo   una litania che sussurrava ai visitatori di chinare il capo, rallentare il passo e volgere lo sguardo al cielo, lì  dove i rami nodosi di Yggdrasill chiedevano rispetto e silenzio, un cheto riguardo che lei offrì con un cenno ossequioso del capo prima di volgere l’attenzione alle sue spalle.
Sunniva ricambiò lo sguardo della sua signora con devozione, intimorita dal movimento sinuoso degli steli che vedeva fluttuarle attorno come braccia candide che guidavano il canto della natura madre, ma non osò abbandonare il manto sabbioso sotto i piedi nudi per raggiungerla, non ne era degna.
Perché quella era la terra dei vecchi Re, degli spiriti della Terra, e nessuno poteva addentrarvisi senza essere punito per l’impudenza.
Si udì una voce di donna frusciare d’improvviso tra le foglie d’acqua, un richiamo verso il quale Astrid volse lo sguardo prima di richiudere il mantello di Loki attorno alla gola  e avvicinarsi al tronco evanescente, il grembo di una vita infinita, la porta verso il mondo di mezzo, lì dove non c’era vita, né morte, solo un limbo nel quale le grandi anime degli antichi dimoravano per dare consigli ai Re della terra.
E quello che la stava chiamando aveva una voce familiare, dolce, morbida come una carezza di artigli d’argento che percepì contro la guancia quando allungò una mano per sfiorare il corpo storto dell’albero.
- Bentornata bambina.
Il dolore la rese cieca per un attimo, e fu con gemito soffocato che serrò le palpebre per contenere le lacrime.
Non era la prima volta che le chiedeva consiglio, che correva da lei per soffocare l’ansia, il timore, eppure, come ogni volta, quella voce riusciva a riportare alla luce quel dolore che non l’avrebbe mai abbandonata.
La perdita che mai sarebbe riuscita ad accettare, per quanto tempo fosse trascorso.
- Madre – bisbigliò  ad occhi chiusi, immaginando nel buio delle palpebre il viso deforme di Semjace, la dentatura affilata tesa in un sorriso aguzzo che, se avesse teso un po’ di più le dita, avrebbe potuto attraversare.
Le sorrise di rimando, abbandonandosi al suolo con le mani chiuse in grembo per seguire la discesa morbida della creatura evanescente che, nel riaprire gli occhi, trovò davanti a sé.
Alta, fiera come una vecchia regina buona che dispensa consigli e abbracci, e in uno di essi si abbandonò con un sospiro pesante, scivolando a terra tanto da non essere più vista neanche da Sunniva.
I fiori le accarezzavano le gambe ripiegate l’una sull’altra, ma era il tocco morbido sul capo a farla sorridere nostalgica.
Dita ferrose ma gentili si immergevano tra i suoi capelli che con gli anni avevano raggiunto i polpacci, li aveva fatti crescere, in realtà, perché  Loki amava immergervi il viso per soffocare il dolore e la solitudine, la paura che dopo tutti quegli anni, non era riuscita ancora a debellare.
Paura di perdere.
Lei, tutto.
- Ha fatto male? – bisbigliò sua madre contro l’orecchio destro, debole ma apprensiva, sfilando un artiglio per seguire la linea sinuosa degli artigli che le segnavano la gola.
Aveva fatto male.
Faceva sempre male.
Non lo disse però, non per mostrarsi stupidamente orgogliosa, ma perché era noto a lei, come a Loki, che ogni ferita inferta sul suo corpo sarebbe stata  molto più dolorosa di quella di un comune essere umano, o di un dio.
Un dolore che nessuno, per quanto vi avesse provato, sarebbe mai riuscito a capire.
Perché non c’era metro di giudizio per lei, non termini di paragone, non possibilità di comparazione.
Lei era unica, e sola, nella sua rarità, e non c’era nulla di più triste che essere gli unici di qualcosa.
Una dinasta.
Una famiglia.
Una stirpe.
Se le era create però, tutte le cose che le mancavano.
Aveva intessuto legami, stretto amicizie, costruito amori, e, per natura delle cose, anche nemici.
C’era stato Yehouda, e H’ava, periti per mano di Loki.
E Thor, Odino, i suoi figli. Tutti, i suoi figli.
Quelli che per capriccio, per follia, per senso di abbandono Loki aveva ucciso, sterminato, nella speranza di ridurre la circonferenza di quel buco al cuore che prima di lei, prima dell’amore, aveva cercato di riempire con qualcosa.
Affetto elemosinato.
Attenzione richiesta, desiderata, obbligata.
Nulla però era servito, non a renderlo più sicuro e meno solo, non a curare il suo male d’amore.
Ci aveva provato anche lei, a dargli conforto, a smorzare quell’innaturale paura, ma sua madre le aveva confessato che era nella sua natura temere di perdere.
Il trono, il potere, lei.
Loki era stato destinato a perdere ogni cosa, l’ aveva perduto alla nascita quando era stato abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo e amarlo, avrebbe temuto di perdere fino alla morte.
E neanche lei, per quanto caparbia, per quanto ansiosa poteva nulla contro quella paura.
Ma ora l’aria era morbida attorno a lei, e calda, intiepidita dal respiro di sua madre che continuava a cullarla lì dove tutto si espandeva, il mondo si sformava, ed era circondata da luce.
Morbida e calda luce.
La sua, luce.
Quella per la quale era stata catturata e torturata, la sua condanna, la sua essenza,  la fonte d’energia più potente dell’universo incanalata in un petto capace anche di trasalire per la paura e l’orrore.
Con gli anni però, l’iniziale paura di se stessa, di ciò che era, aveva lasciato posto alla curiosità, alla brama di sapere cosa portasse tante creature a bramarla, cosa potesse spingere gli uomini a uccidere, pur di avere quel potere.
E la risposta l’aveva trovata, anche se malincuore.
Invincibile.
Ogni creatura amava l’idea di sapersi superiori ad  altri, più forti, più potenti,  persino Loki aveva peccato di superbia, di arroganza, persino lui aveva bramato ciò che lei avrebbe portato.
Potere. Tanto, troppo potere.
Più di quello posseduto da un dio, più di quello di  una creatura soprannaturale dai poteri illimitati.
Perché il confine tra quello che si  potesse o non potesse fare, con lei non esisteva.
Era infinita.
Lo era la sua anima che, se chiudeva gli occhi e rilassava la mente, mutava in un vuoto denso di pulviscoli di luce simili a sbuffi di polvere, estesa e tanto vasta da non poterne trovare il confine con lo sguardo, per quanto vi avesse provato.
Un’enormità che però aveva portato con sé anche la solitudine e l’amarezza.
Aveva accettato però  la profondità di quel  potere, la potenzialità delle sue capacità.
Si era accettata, alla fine, come avrebbe voluto che Loki facesse a sua volta.
In quanto Re, in quanto dio, in quando Gigante di Ghiaccio.
- Non angustiarti bambina, non ora, non quando c’è bisogno che tu sia forte per ciò che verrà.
Il gelo che la investì le intorpidì i muscoli, ma riuscì comunque a tornare seduta per guardare Semjace  in viso e cercare la risposta a quanto detto, a ciò che ora, nelle sue orecchie, con il canto degli spiriti a cullare il suo riposo,  pareva la promessa di un nuovo  dolore, nuove morti, nuova distruzione.
- Cosa intendete madre?
Il silenzio le venne in risposta, freddo e ingiusto,  ma fu breve quanto il battito che si trovò a perdere nel  vedere gli steli sui quali era distesa rigettarle in viso uno schizzo di rosso porpora, una tonalità che secoli orsono aveva macchiato le sue mani, un colore  dal quale aveva faticato a ripulire lei e Loki.
Ma quella volta non c’erano lame ad aprire ferite e a ripulirsi su di lei, perché era il cielo  a tingerle  i palmi schiusi di quel rosso scarlatto.
Il cielo verso il quale si trovò a volgere le palpebre sgranate, la voce incastrata in quella gola che sentì bruciare per il bisogno di urlare il nome di Loki, di sua madre, degli spiriti, per ricercare la risposta a quello spettacolo orribile.
Perchè c’erano nuvole di fumo nero  a vorticarle sul capo, e il fischio del vento che sentì sibilare alle  spalle assieme al grido di Sunniva.
Ma ebbe tempo solo di leggere l’orrore negli occhi della creatura, il suo terrore, l’angoscia che le segnava il viso prima di cogliere   il lampo perlaceo saettato nelle iridi rossastre della Gigante, metallico come una freccia scoccatale contro,  grigio come i petali d’acqua curvatisi come lei sotto la forza devastante  dell’onda d’urto.
- Min dame!  




°°°




La pelle tenera del polso si ritirò con un crepitio sinistro quando la miscela corrosiva vi entrò in contatto, una reazione raccapricciante per la quale Loki si trovò però a tendere un sorriso storto prima di richiudere la lastra di vetro e aspettare che l’arto smettesse di agitarsi per il dolore, così da riprendere l’esperimento.
Analizzare le forme di vita inferiori era sempre stato uno dei mille espedienti con i quali amava ingannare l’eterno trascorrere tempo, e torturarli, una volta classificati la loro origine, il loro possibile utilizzo.
Lo allietava sapere di essere il decisore della vita altrui, delle loro sofferenze, dolori, angosce, una sensazione di onnipotenza che zittiva la voce insistente della sua follia, quel desiderio di distruzione e morte che lo rendeva sordo ad ogni preghiera, voce, suono all’infuori di quel profondo e insaziabile brontolio.
Perché aveva fame di morte, di dolore, non avrebbe mai smesso di averne, non lui, non chi sazio mai sarebbe stato di vita,  di calore, di amore.
E per quanto  ne avesse ricevuto, per quanto affetto e devozione Astrid gli avesse riservato, ci sarebbe sempre stata una piccola parte di lui che avrebbe continuato a ricercare la morte, quella che lui stesso aveva portato alla sua stessa famiglia, quella che mai avrebbe smesso di affiancarlo lungo il suo cammino.
Un’ ombra che da bambino lo aveva  atteso appena girato l’angolo, o guardato sotto il letto, o fissato nello specchio per trovare la somiglianza tra lui e Thor.
Ma era  una macchia.
Una chiazza nera che, per quanto si fosse affannato a sfregare, a ripulire, avrebbe continuato a segnare il suo passaggio, a ricordargli chi era, dove sarebbe dovuto essere.
Non nell’oro scintillante di Asgard e della luce riflessa sull’armatura di Thor, di suo padre, ma in uno sfondo monocromatico, asettico e silenzioso come una camera abbandonata al degrado.
Il picchiettare isterico della mano all’interno della teca lo riportò in sé,  in una realtà nella quale  era il Re di qualcosa,  lì dove  ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarlo in fondo a quella stanza buia, non un padre deluso, non un fratello amareggiato, non una madre sofferente, ma un amore.
Un amore da poter chiamare e dal quale potersi aspettare di ricevere conforto con un abbraccio, un sorriso, quello che gli tese l’angolo destro della bocca poco prima  di far scattare la mascella nel captare lo schianto alle sue spalle, una volta tornato a percepire il mondo circostante.
Quando il tonfo seguì la caduta del Gigante al suolo Loki si decise a metter via il suo esperimento per osservare con fastidio la creatura riversa a terra, il capo tanto schiacciato al pavimento da aver generato una piccola conca sotto il suo cranio inumano, una cavità nella quale la creatura non osò fiatare, stringendo la mandibola per sopperire al dolore.
- Spero che questa tua irruzione valga la tua insubordinazione – lo riprese piccato,  serrando la presa attorno al suo scettro nel cogliere il lieve irrigidimento della schiena del mostro.
Orgogliosi.
Per quanto gli umani peccassero di superbia, non c’era creatura al mondo che fosse orgogliosa e stupidamente arrogante come i Giganti di Ghiaccio, esseri mastodontici, dalla forza inumana e dall’intelletto sottile e acuto, creature con un enorme  potenziale se non fosse stato per la poca  furbizia e l’eccessiva arroganza.
Perché persino un cane avrebbe  ritirato la coda e serrato le mascelle nel riconoscere la mano di chi puniva l’insolenza.
Una lezione che  i suoi sudditi, a giudicare dal ringhio gorgogliante nella gola del gigante, non avevano ancora imparato.
- Si Mester.
- Ebbene? – scattò cattivo, seguendo con la coda dell’occhio l’ansimare dell’arto mozzato con noia.
Tese il palmo, così da poter flettere il polso e tranciare  di netto la testa del Gigante non appena lo avesse informato del motivo della sua impudenza.
 Un motivo sciocco, indegno della sua attenzione, del suo interesse, perché non c’era nulla da temere, non per il mietitore di vite, il distruttore di mondi, non per il Re dei Giganti di Ghiaccio.
Gli diede le spalle ancor prima di udire la risposta, consapevole che qualunque cosa fosse uscita dalla bocca del servo, non avrebbe comunque potuto richiedere da parte sua  più di un cenno annoiato del capo.
Eppure riuscì a scatenare in lui qualcosa di ben più feroce di un guizzo isterico del viso,  qualcosa di ben più umano di un lieve assenso.
Perché ebbe terrore, e angoscia.
Non per sé, non per il grido d’isteria che la sua anima lanciò, ma per quel cuore raggrinzito  che sentì singhiozzare disperato nell’udire l’urlo fuori le mura
L’urlo con il quale, una volta,  l’aveva perduta.
Il grido di chi mai il mondo  avrebbe smesso di portargli via.





°°°




Grida.
Vagiti.
Voci sconnesse e rese tremanti dal panico.
Non c’era nulla che le risultasse sconosciuto.
Nulla che non avesse già visto, per il quale non avesse patito l’ansia nel petto e la paura nel cuore, ma era rabbia quella che le graffiava la voce, rabbia di vedere i Giganti proteggere con le loro moli la propria progenie, rabbia di sapere la ragione di quell’attacco, rabbia per una caccia all’uomo che non avrebbe avuto fine, fintanto che  lei fosse esistita.
Un lampo perlaceo e il fischio del vento alla sua destra la avvisarono del secondo tentativo dei Giganti di contrattaccare mentre Sunniva e le donne, protette dalla fila di uomini,  scortavano  i piccoli al riparo con i loro ringhi  a cadenzare i passi nella fuga.
Ma era energia quella che proteggeva l’essere dal corpo di metallo piovuto dal cielo, pura e semplice energia dai riverberi scarlatti che riluceva dell’entità astratta presente nell’aria, una presenza che pareva essere ovunque.
Alle sue spalle, sopra la sua testa, davanti a lei.
Occhi che guardavano tutto e niente ma che su di lei parevano catalizzarsi quando osava alzare un braccio per difendere i Giganti da una pioggia di schegge e lampi metallici.
 E c’era qualcosa di orribilmente familiare nel modo in cui quella creatura rigettava i suoi attacchi, una capacità di repulsione che lei stessa aveva potuto saggiare su chi provava a toccarla senza il suo consenso.
Capacità che solo una quantità di energia simile o pari alla sua avrebbe potuto impedirle di raggiungere e distruggere l’essere dal corpo metallico.
Eppure, non c’era energia al mondo simile alla sua,  lo ricordò a se stessa con una smorfia contrita prima di alzare un braccio nel tentativo di  difendersi dalla pioggia di calcinacci esplosa a seguito dell’ennesimo cratere apertosi nel terreno.
Detriti che però non  sentì  cozzare contro la barriera di energia issata a sua difesa, ma che invece  vide scivolare dall’arto dalle vene verdi pulsanti forza issato in sua difesa.
Il braccio che il Gigante di Ghiaccio abbassò assieme allo sguardo rosso  con un ringhio sommesso.
Knut.
Lo riconobbe per la cicatrice obliqua che gli segnava l’occhio sinistro, un taglio profondo che feriva il viso squadrato della creatura come l’artiglio feroce di una belva sanguinaria, ma non era stato un mostro, in realtà,  a lasciargli quel segno.
Era stato Loki, il loro Re, ad aver scavato nella carne  tenera degli zigomi  del Gigante, così da marchiarlo come suo schiavo e mostrare  chi d’ora in avanti li  avrebbe comandati.
Il più forte.
- Dovete tornare al castello – ruggì funesto Knut una volta agguantatala per un braccio, rafforzando la presa attorno all’arto che prese a tirare con forza, ritrovandosi però a tendere le labbra gelate nel non riuscire a muoverla di un millimetro.
Gli sfuggì un ringhio di gola nell’incrociare lo sguardo duro della donna, occhi che lui per primo aveva rifuggito per mostrare la propria contrarietà nell’accettarla come sua Regina e signora, ma era stato costretto a serbarle rispetto e devozione, perché era stato battuto dal Re, ed ora che non era lui il più forte, non aveva più il diritto di dettar legge o di decidere chi lasciar vivere o morire.
E se vi era qualcosa per la quale il re avrebbe potuto ucciderli tutti, era lei.
Perchè avrebbe mozzato loro le teste, tranciato gli arti e cavato gli occhi se lei fosse rimasta ferita, se loro avessero lasciato che ciò accadesse.
- Dovete tornare. Ora.
- No.
Un guizzo isterico della mascella gli costò un’occhiata caustica di Astrid, i talloni affondati nel terreno sabbioso e la veste arricciata sulle gambe flesse per essere pronta a scattare, in caso di ribellione.
Quella che sempre  le avrebbero mostrato, perché compagna del loro Re, un re temuto e mal visto per la propria crudeltà verso il suo popolo ma non verso di lei, così piccola e fragile da far loro ribrezzo.
 Perchè i Giganti di ghiaccio erano mostri che della loro levatura fisica ne avevano fatto un vanto, un simbolo d’onore, di rispetto, e avere creature filiformi  come loro signori era una ferita d’orgoglio che mai Knut sarebbe riuscito a sanare.
- Il Mester non-
- Il Mester capirà – lo riprese severa, allontanando la mano sproporzionata del mostro per tornare a volgere la sua attenzione oltre le file alleate, lì dove lo scintillare metallico li avvisava dell’arrivo oramai imminente della creatura.
Intravide i profili asimmetrici dei giganti, i loro passi scoordinati, i colpi feroci schiantati su ciò che non potevano raggiungere mentre la polvere di ghiaccio rendeva la visuale incerta, ma c’erano le voci di Yggdrasill a bisbigliarle nell’orecchio dove guardare, quando indietreggiare, chi richiamare all’ordine.
Un mormorio che si tramutò in un grido  quando le sovvenne all’orecchio un suono debole, fragile e inudibile ad orecchio mortale,  ma un suono tanto  acuto e   doloroso da farla rabbrividire per l’orrore.
Perché più dei ringhi di scontento dei Giganti, più di bisbigli concitati degli spiriti e del respiro ansante del suo mostro,  vi era un  unico suono capace di strapparle il cuore dal petto e strizzarlo fino a farla piangere per il dolore.
Quello per il quale si era trovata in ginocchio, nel buio di una stanza, con le braccia della sua madre umana strette attorno al suo corpo scosso dai singhiozzi e dalla disperazione.
L’unico suono che avesse mai  voluto sentire  accanto al suo letto oltre al respiro di Loki, quello che non avrebbe mai avuto modo di udire, consolare, zittire nel calore di un abbraccio.
Eppure era lì, a pochi metri da lei, inghiottito dal polverone nel quale nessuno pareva scorgere la figura piccola e abbandonata in terra come un vecchio pupazzo di pezza.
Ma era un bambino, quello  che vagiva disperato,  figlio di Jötunheimr, figlio dei Giganti di Ghiaccio, e indirettamente, anche figlio suo.
Quando Knut la vide muovere un passo schiantò il braccio poco lontano dalla testa della donna, per darle l’ultimo avviso, ma quello che le sue dita callose strinsero fu fuoco, e dolore, il suo,  quando fu costretto a ritirare la mano ustionata con un ringhio prima di  vederla saettare tra loro come una scheggia impazzita, sparendo al di là del muro di fumo e polvere.
La sabbia scivolava sotto i suoi piedi nudi come acqua fresca, quasi a spianarle la strada e raggiungere ciò che il cuore le diceva di proteggere,  ciò la terra la incitava a raggiungere prima dello schianto.
L’ennesimo vagito disperato la fece scartare a destra,  portandola  infine a rallentare l’andatura mentre l’energia sfrigolava dal suo corpo per respingere ogni forma di minaccia, quella che  Astrid sentì frusciarle sopra il capo prima di intravedere nella foschia la schiena ricurva del bambino, e benchè la piccola creatura la raddoppiasse in altezza e in larghezza, lo cinse con un braccio non appena fu abbastanza vicina da toccarlo.
Lo sentì sussultare ferocemente nel percepire il suo tocco tiepido, ma i bambini di ghiaccio, a dispetto degli adulti, avevano imparato a riconoscere e ad apprezzare il suo calore corporeo, perciò, quando il piccolo le si raggomitolò lungo il fianco, afferrandole le spalle con le braccia tozze e gelate in cerca di protezione,  Astrid non potè che schiudere un sorriso affettuoso prima di udire il fischio davanti a sé e caricare il primo colpo.
Un lampo di luce saettò nel cielo come la coda sinuosa di un serpente, frantumando il polverone in nuvole di ghiaccio che Sunniva respirò affannosamente, imprimendo maggior forza nelle gambe nel cogliere il profilo distorto della barriera che la sua signora aveva appena sorpassato, ma il fruscio sinistro  alla sua destra le causò un vuoto allo stomaco che la fece inchiodare con forza nel manto sabbioso.
Persino Knut, ancora irritato per l’onta subita,  non potè che strizzare le palpebre istericamente  nel patire la presenza soffocante al suo fianco, il profilo aguzzo di un volto che lui per primo temeva di incrociare sul suo cammino.
- Pagherete per la vostra incompetenza – gli sibilò di fianco Loki non appena sentì lo sguardo rosso dei Giganti di Ghiaccio scostarsi dalla barriera d’energia per puntarsi sulla  sua altera figura, ritraendosi a spalle ricurve  nel vederlo compiere il primo passo nella loro direzione.
- Si, Mester – gorgogliò Knut, le labbra secche per la paura, stringendo le dita carbonizzate con una smorfia.
Un sorriso affilato tagliò il volto di Loki come una lama intinta nel sangue, ma  fu la furia ad arricciare gli angoli della sua bocca verso il basso, la follia che gli fagocitò il cuore nell’intravedere la figura minuta di Astrid inghiottita nella nebbia.
Raggiungerla costò meno di una manciata di secondi, ma quando l’ebbe davanti, a pochi metri da sé,  non potè che rafforzare la presa attorno al proprio  scettro nel cogliere la sofferenza intrisa nei lineamenti della compagna, ombreggiature che una creatura dal corpo di metallo fissava con freddo distacco dall’alto della sua posizione sopraelevata.
Increspature per le quali  Loki  si ritrovò a masticare bile e saliva mentre l’odio gli corrodeva il fiato e il sangue gli pulsava nelle vene e urlava di rabbia.
Perché il viso di  Astrid era la sua tela bianca e priva di macchie, il quadro dove non avrebbe trovato che sorrisi gentili e sguardi amorevoli e dove persino lui sarebbe apparso migliore, giusto.
Ma era paura quella che le intaccava lo sguardo di luce, e stanchezza, afflizione per quelle parole che la creatura sciorinava senza batter ciglio, indifferente al dolore delle sue pupille, e allo spasmo di qual cuore che Loki sentì ansimargli nel petto prima di rafforzare la presa sul proprio scettro.
Quando la lancia gli grattò la gola con ferocia  Norrin tese il collo e la schiena di riflesso, ritraendosi dal corpo raggomitolato sotto di lui per dirottare la sua attenzione sulla creatura che brandiva l’arma contro di lui.
Era alto, con il viso sfigurato e l’iride chiara cristallizzata in una patina d’odio che se avesse avuto forma, avrebbe potuto ferirlo  come la lama che Loki gli spinse contro la giugulare con forza, frammentando l’epidermide di metallo che Astrid vide crepitare assieme all’imperturbabilità della creatura, quando lo vide riportare l’attenzione su di lei.
E fu nel risentire su di sé i suoi occhi smorti che distolse velocemente lo sguardo, nascondendo sotto le ciglia l’orrore di quel nome che da anni, oramai, aveva smesso di tormentarla.
Un nome che altri avevano scelto per lei, il richiamo ad un passato che ora ridiveniva un' ombra concreta, e non più un fantasma inconsistente dal quale sapeva di non poter ricevere più dolore, altra sofferenza.
Quella che bagnò la lingua di Loki di magia prima di far patire alla creatura uno  schizzo di sangue e lo schianto dello scettro ai suoi piedi.
Il bambino che lei stringeva si trovò a piangere nell’udire il boato del colpo, ma quando la nebbia si dissolse, Astrid non potè che guardare la scia cosmica appena saettata nel cielo con sofferenza.
Perché l’aveva  trovata, la sua risposta.
Il responso alle parole di sua madre, la risposta degli artigli che le segnavano la gola e che ore pulsavano del suo dolore mentre la scia di luce si proiettava verso il pianeta successivo a quello.
Un mondo che un tempo l’aveva vista divenire figlia, sorella, e amica di creature destinate, per uno strano scherzo del fato, ad essere vittima dell’arroganza divina ed ora di quella di una creatura dalle capacità similari alle sue.
Quando Sunniva riuscì ad infrangere la fila di Giganti potè intravedere il profilo ingobbito della sua signora, abbandonata al suolo con una stanchezza che pareva persino smorzare il baluginio delle sue iridi, e alla sua destra, quello ricurvo del loro Re,  chino su di lei come il più semplice degli umani, la mano piena del viso abbandonato docilmente  nel suo palmo.
Perché era stanca, Astrid.
Stanca di ciò che non avrebbe mai smesso di gettare ombre sul suo futuro, su Loki, su se stessa.
L’ombra della sua grandezza e della sua disfatta ora che il destino tornava crudele a chiedere il pagamento dei loro errori, delle morti che avevano generato, delle vite che invece, avevano salvato, dell’equilibrio che entrambi avevano spezzato.
Perché fu Yggdrasill a bisbigliare il segreto taciuto in fondo alla sua gola, il mormorio concitato che Loki sentì strisciare  sotto pelle, lì dove ogni tendine, nervo, e stilla di sangue  si coagulò nei suoi occhi.
Iridi rosse come quelli dei Giganti di Ghiaccio, pupille dilatate all’interno delle quali Astrid non potè che vedere il riflesso di se stessa e chiudere gli occhi in cerca di silenzio.
Ma non ce ne sarebbe stato più, non nella sua testa, non contro il petto di Loki, non nell’abbraccio di sua madre.
Perché ci sarebbe stata quella voce, a ricordarle il suo passato, la sua essenza, una voce metallica che, nei suoi sogni, avrebbe ripetuto il nome che forse mai, il mondo,  avrebbe mai del tutto dimenticato.
Tesseract.



Continua…



Come avevo promesso, ecco la continuazione della quale avevo accennato qualcosa.
Premetto che la storia sarà di massimo 11/12 capitoli, e l'aggiornamento cadrà ogni sabato. Potrà inoltre accadere che gli aggiornamenti avvengano più volte nel corso della settimana visto che  la stesura sta andando molto velocemente, quindi aspettatevi delle sorprese!
Ovviamente ringrazio chi è venuto a dare un'occhiata e chi dalla storia precedente ha deciso di buttarsi in una nuova avventura di Astrid.
Grazie di cuore per la lettura, al prossimo aggiornamento
Gold Eyes
  
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