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Autore: Benoit    06/07/2013    0 recensioni
Tante storie che non si intrecciano. Tante piccole occhiate su finestre che ho aperto una volta di sfuggita e in cui non ho mai più rimesso piede. Diventano un puzzle di racconti tutti diversi, per sognare, ridere, piangere, vivere.
Genere: Fantasy, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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                                                                                                                                                                    1.EVI


La prima volta che la vidi era fradicia. Bagnata come una camiciola appesa ad un albero e sferzata dal vento di una tempesta. Camminava a piedi nudi sull’asfalto, con le gocce di pioggia che le scivolavano lungo il collo, intorno alle clavicole e giù dentro lo scollo del vestito e poi pian piano cadevano a terra, tuffandosi dalla punte delle sue unghie fino ad acquietarsi in terra, nella fanghiglia di quella giornata fetida e calda di fine luglio. Era un piccolo quadro a tinte tenui dipinto con cura, con un’adorazione tale da rendere unico ogni minimo dettaglio, tale da rendere impossibile per qualsiasi essere umano distogliere lo sguardo.

La prima volta che la vidi ero ancora alle prime armi con i drum, il tabacco non faceva altro che incollarmisi alle dita o scivolare per terra. Non riuscivo ancora a comprimerlo bene e il più delle volte, piuttosto che chiedere aiuto a mia sorella per averne uno decente, ero costretto dal mio orgoglio a fumarmi degli enormi salsiccioni affumicati o delle misere sogliole di carta semitrasparente. Ben Harper mi strimpellava la sua chitarra nelle orecchie e rendeva la luce più calda, rendeva tutto più fumoso e dolce. Mi solleticava quelle corde dell’anima che solitamente restavano sopite sotto liti familiari, studio caotico e un cuore che era un vero casino. Sulla strada deserta di fronte a me, eccezion fatta per quelle quattro stoiche Jaguar arrugginite e sporche, non passava un’anima; anche il sole tardava a farsi vedere, sospingendosi dolcemente tra un ramo e l’altro degli alberi che costeggiavano il marciapiede. Solo le gocce di pioggia si sentivano ticchettare, tra un accordo di chitarra e una singola, malinconica, lasciva nota di banjo. La pioggia, Ben Harper ed io. L’ennesima sigaretta sfatta, se proprio vogliamo essere pignoli.  E poi, improvvisamente un piede. Un piede bagnato che atterrava sull’asfalto bitorzoluto come stesse volando. Un piede che deformando le arcate dei rami per scivolare via, si tirava dietro un corpo leggero. Era una donna. Sì, proprio una donna in carne e ossa. Cosa ci facesse in cima ad un albero me lo chiesi io per primo. Girai le pupille verso il drum acceso e fumigante con aria interrogativa: sì, era decisamente tabacco, niente allucinogeni.  E lei era proprio una donna. E che donna! Formosa e solida spostava il peso da una gamba all’altra con una tale leggerezza da ipnotizzare le pupille. Lasciava le mani sospese ai lati del corpo e con gli occhi guardava in terra, saltellando da una radice all’altra. Mi passò accanto, fradicia e sorridente, con il viso paffuto rivolto in terra. Io non riuscivo a smettere di guardarla, con la fiammella del drum che mi pizzicava l’incavo tra le dita, i capelli sospinti dal vento che mi solleticavano il naso e gli occhi spalancati. Lei mi sorpassò senza guardarmi ed io avevo la gola talmente secca da non riuscire ad esclamare nemmeno mezza parola. Ero impalato, impietrito, fulminato. Lei fece in tempo a sparire oltre la salita e non la vidi più. Credetemi, l’aspettai tanto.

La seconda volta la vidi solo nella mia testa. La immaginai coma la mia piccola musa personale e questo perché la seconda volta non ci fu mai. Passai giorni ai piedi di quello e di molti altri alberi, aspettando invano di vederla scendere con quel piede bianco proteso verso terra e con la pioggia che le cavalcava addosso, infrangendosi in terra, come fosse lei stessa un albero o uno stelo d’erba. La cercai ogni giorno dalla notte all’alba, al giorno intero fino a che non persi la vista. È probabile che l’avrei persa comunque, ma fatto sta che se tanto non avrei più potuto rivederla tanto valeva renderla mia comunque e in un modo in cui nessuno avrebbe mai potuto togliermela. La chiamai Evi nella mia mente, non so perché… forse perché mi ricordava la pioggia, quella pioggia che sento ancora cadermi sul viso ma che non posso più vedere, quella pioggia che è diventata la mia vista. Ora nessuno rolla i drum meglio di me. Con la punta delle dita ho imparato a capire la giusta quantità di tabacco da inserire nella cartina e ho memorizzato i movimenti corretti e matematici con cui compattarlo e chiuderlo. Riesco solo a fumare, infatti, e ad immaginare i ghirigori danzanti che il fumo compie facendosi largo tra le gocce fino a formare dei contorni precisi. Quelli di Evi. Quelli ci Evi che ho immaginato e idealizzato, quella Evi che nella mia mente è diventata la mia donna e poi mia moglie e la madre dei miei figli. Quella Evi che è mia madre, che è mia nonna e mia sorella. Quella dolce, formosa piccola Evi che mi  ha incatenato il cuore ad un sogno che non esisterà mai.

Mia nonna si siede accanto a me; alle volte lo fa mia madre, alle volte mia sorella, tutte con lo stesso identico stupido inutile fine. Ingannarmi, o salvarmi forse. Si siedono accanto a me che ho la barba lunga, i capelli sporchi e compatti e che me ne sto a girare drum e fumare sulla veranda davanti ad una finestra che non posso vedere. Mia nonna mi legge un servizio su un giornale che parla di un’ambientalista ossessionata dal verde. Una donna che ha girato mezza Roma, dormendo e vivendo mesi interi sugli alberi per proteggerne i diritti contro lo smog e lo sfruttamento urbano. Cos’è, vogliono convincermi che fosse lei? Ma per favore! Neanche tra cento anni ci potrei credere. Evi un’ambientalista? Una stupida ambientalista con la sua vita? una donna qualsiasi che adesso magari starà vivendo la sua mezza età insieme a qualche altro uomo brizzolato e prestante e con due occhi vigili che potranno scrutarla da vicino, che potranno vederla a differenza mia. Una donna che magari avrà una casa sua e dei bambini e quel cane che avevamo progettato di comprarci insieme per il nostro trentesimo anniversario di matrimonio. Ma dai, non può essere! Alle volte però mi fermo. Mi blocco. Il mio cervello mette la marcia indietro e pensa. Pensa che sta andando fuori di testa. Mia nonna mi fa scivolare un bacio sulla fronte e mi accarezza la testa sporca. Sento le sue lacrime silenziose da qui. Mi dispiace. Mi dispiace perché a volte non capisco più dov’è la realtà e dove si ferma. Non capisco se ho buttato la mia vita per una donna che forse ho sognato, che forse mi sono immaginato, che forse più realisticamente era una donna qualunque anche lei in cerca di qualcosa che ha trovato. E io ho passato la vita a gioire di qualcosa di ignoto, cercando di trovare una spiegazione valida per i miei genitori ai loro perché: perché non ho voluto continuare a vivere,  perché sono voluto affogare e andarmene lontano pur non essendo morto…

“Marco, hai visite.”, mi dice un giorno mia nonna. Accidenti! Nemmeno il tempo di sistemarmi la barba e i capelli, di dare una stirata alla vestaglia. No, aspetta. Dimenticavo che io in realtà non voglio vedere nessuno.
“ciao. Tu devi essere Marco. I tuoi occhi li viviamo insieme, d’accordo? Ci penso io.”
Chi sei? Che diavolo vuoi da me? Biascico come un vecchio sdentato. Sono anni che non spiccico mezza parola, più che cieco ora sembro sordo muto. Io sto bene da solo, non ho bisogno di nessun altro.
“Marco sono io. Evi.”
“Cosa?”
“Ho detto che mi chiamo Evi.”
“Sei tu? Quella dell’albero? Quella Evi lì? La mia Evi?”
Non ci posso credere. Per la prima volta nella mia vita ringraziai Dio o chi per lui d’essere cieco. Ringraziai mia madre e mia nonna e tutto il mondo. E mentre le lacrime scendevano dai miei occhi spenti e vivi allo stesso tempo, mentre non riuscivo a smettere di far tremare le mani e non riuscivo a smettere di sorridere e di parlare con Evi e di pronunciare il suo nome, mia nonna, mia sorella e mia madre mi guardavano dalla soglia della veranda e piangevano. Quel povero ragazzo invecchiato col posacenere pieno di sigarette mezze consumate, col tabacco sbriciolato, coi piatti sporchi, col plaid sulle ginocchia magre e la sedia a dondolo che oscillava. Quel povero bambino vecchio, con gli occhiali scuri storti sul naso, che ora parlava anche da solo. Perché quel pomeriggio sulla veranda io ero solo come lo ero sempre stato.
 
Non sono mai riuscito a spiegare alla mia famiglia che io volevo vivere per la pioggia.

   
 
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