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Autore: LilithJow    13/07/2013    4 recensioni
Io avevo sempre odiato la morte, così come le persone che le andavano incontro; quelle che rinunciavano alla propria vita, sperando in un'esistenza migliore, che però non c'era e io lo sapevo bene. Non capii perché nella mia mente si materializzò l'idea di permettere a Sebastian di uccidermi e non era qualcosa di simile a ciò che era successo in precedenza.
Avevo deciso di sacrificarmi per permettere a Simon di vivere e ritenevo che fosse una buona motivazione. Ma allora, una ragione non c'era, eppure lo desideravo comunque. - SEGUITO DI "LULLABIES"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 2
"Truth is that truth kills"


Era vero: addormentarsi era facile. I problemi sopraggiunsero dopo, quando gli incubi più neri mi avvolsero, senza avere l'intenzione di lasciarmi andare. E io urlavo, correvo, mi affannavo, ma niente cambiava. Volevo svegliarmi, ma le mie palpebre continuarono ad essere abbassate.

Ad un tratto, tuttavia, ogni cosa cessò. Vidi solo nero e ne fui lieta, perché trovai pace, almeno per un po'.

Quando aprii gli occhi, la luce del sole filtrava lieve tra le tende bianche della stanza. Ero confusa e la testa mi girava.

“Bella prima dormita” pensai, sfregandomi gli occhi.

Mi trascinai fuori dal letto, rabbrividendo al contatto dei piedi nudi con il pavimento gelido.

Non ci fu molto tempo per formulare qualsivoglia pensiero coerente, poiché delle voci attirarono subito la mia attenzione. Erano lontane e attutite. La differenza con il mio udito da Divoratrice era evidente.

Così, camminai lenta verso la porta. Riuscii ad aprirla. Evidentemente la mia prigionia era stata sufficiente.

Quanto era passato? Probabilmente ore.

Seguii la frequenza delle voci, che mi indirizzarono verso il salotto. Una apparteneva a Martha, non c'erano dubbi. L'altra era di un ragazzo dallo spiccato accento francese, che non conoscevo.

«Ascolta, so che tu non ci hai a che fare quasi per niente, ma ne riconosco uno se lo vedo» disse lui.

«Non l'hai visto» replicò Martha.

«No, però mi hai raccontato quel che è successo. E' in stato di shock. Shock emotivo, uno della peggior specie. Sfido chiunque a non esserlo».

Roteai gli occhi. Ero umana da neanche ventiquattro ore e già sperimentavo i lati più negativi.

Sarei rimasta ad ascoltare ancora a lungo, tuttavia, entrambi si accorsero della mia presenza sulla soglia della porta.
Il ragazzo si voltò. Era alto, capelli castani e occhi chiari. Non era solo il suo accento ad essere francese; anche dai suoi tratti lo si sarebbe capito. «Ti sei svegliata» esclamò Martha, abbozzando un sorriso nella mia direzione.
«Già» replicai, distrattamente. «Tu chi sei?» domandai allo sconosciuto. Lui non rispose, come se gli fosse stato imposto il divieto di farlo. Si limitò a fissarmi, in modo pressapoco irritante.

«Lui è Thomàs» fu Martha a fornirmi tale informazione, avanzando verso di me velocemente. «E' un mio amico».

«E' un Divoratore?».

«Ah, non direi proprio» intervenne Thomàs. Si accosto a noi, poco dopo. Mi sorrise, del tutto allegro. Probabilmente, il suo scopo era di far curvare le labbra all'insù anche a me. Io, tuttavia, rimasi pietrificata. Lo guardai per un attimo in volto e tornai con lo sguardo su Martha.

Del resto, chi fosse quel tizio non mi importava davvero.

«Dov'è Simon?» domandai.

Martha sospirò. «Il suo corpo è nella camera da letto, quella più grande» replicò. Non mi piacque per niente il modo in cui marcò le prime parole della frase.

Scossi appena la testa. «Voglio andare da lui» esclamai. Vidi Thomàs dissentire e non ne capii il motivo. Che c'entrava, poi, con me e tutta quella storia?

«Non credo sia una buona idea» disse Martha.

Feci una smorfia. «Non credo di averti chiesto il permesso».

«Hazel...».

La fulminai con lo sguardo, a quel punto. «Ti prego, smettila di ripetere il mio nome con quel tono di pietà» quasi urlai, nervosa. «Voglio andare da Simon. Ora».

Martha e Thomàs si scambiarono ancora qualche sguardo. Io stavo seriamente rischiando di impazzire.

Di nuovo.

«Non puoi vederlo, Hazel. Mi dispiace» sussurrò il francese. Sembrava davvero spiacente.

«Perché?».

«Perché...» lasciò la frase in sospeso. Non sapeva come completarla.

«Ditemi perché!» strillai e strizzai gli occhi, cercando di impedire alle lacrime di riaffiorare. Nessuno dei due rispose e io avevo voglia di picchiarli entrambi. Non che avessi davvero potuto farlo, date le mie condizioni – shock emotivo, giusto per citare Thomàs.
Scossi violentemente la testa e corsi via, verso la nostra camera da letto. Mi aspettai le braccia di Martha a fermarmi, ma, sorprendentemente, non lo fece. Forse aveva capito che sarebbe stato inutile o, forse, l'amico francese le aveva impedito di farlo. Non mi soffermai troppo a valutare le possibili motivazioni.

Ormai ero di fronte alla porta. Avevo il fiato corto, come se avessi corso per chissà quanto. I battiti del mio cuore risultarono ancora più fastidiosi rispetto alle ore precedenti. Sfiorai con le dita la maniglia, spingendola verso il basso e fui dentro.
Era buio. Dovetti sbattere più volte le palpebre per riuscire a muovermi senza sbattere contro qualcosa. Riuscii a raggiungere il letto e, successivamente, l'interruttore dell'installazione che avrebbe proiettato le città del mondo sulle pareti allora bianche e anonime. Preferii premere quello, piuttosto che accendere la grossa lampada che si trovava sul comodino.
Una luce fioca cominciò ad invadere la camera, mentre solo in quel momento mi accorgevo di quanto facesse freddo. Il profilo di New York al tramonto si delineò sui muri e scoprì il viso di Simon, disteso sul letto, con le braccia lungo i fianchi.
Avrei detto che stesse dormendo, ma, purtroppo, dei particolari non buoni attirarono la mia attenzione. Dei segni – erano tagli sulla pelle – tracciati a ricostruire simboli antichi che non conoscevo, gli marcavano il volto, partendo dalla tempia sinistra, scendendo giù per il collo e la spalla.
Tremai appena e tirai giù, di riflesso, una parte della felpa che aveva addosso. I segni continuavano per tutto il braccio e più scendevano, più erano cruenti.

«No» biascicai. «No, no, no!».

Chiusi e riaprii più volte gli occhi, sperando, pregando di aver avuto solamente un'allucinazione. Lo shock emotivo ne portava alcune, no?

Vidi altri tagli aprirsi sulla sua pelle candida, sotto il mio sguardo isterico.

«Ti ho detto che non sarebbe stata una buona idea». Martha fu al mio fianco, senza che me accorgessi. Allo stesso modo, avevo iniziato – o ricominciato? - a piangere. Mi voltai nella sua direzione, mordendomi forte il labbro inferiore. «Cosa sono?» domandai.

«Sigilli» rispose, sospirando. «Simon era il sacrificio. Il suo sangue è servito per riportare in vita il Creatore, che, essendo stato chiuso negli Inferi per tutti questi secoli, si è indebolito. Deve usare l'energia di qualcuno per essere in completa forma... O quasi».

«Si sta nutrendo della sua anima?».

«No, della sua energia vitale. Il corpo umano la conserva in sé per un po', anche dopo la morte, e la perde pian piano. Il Creatore sta solo accelerando i tempi. Una volta ristabilito, però, vorrà anche la sua anima».

Il petto mi tremò. Mi accorsi che il mio cuore stava battendo all'impazzata. Mancava poco e sarebbe scoppiato, ne ero sicura.
La visione del corpo privo di vita di Simon era stata già troppo da affrontare, ma vedere i suoi tratti martoriati in quel modo, fu un vero colpo basso. Mi passai una mano sul viso, cercando di ignorare la nausea che mi pervase. Perlomeno, credetti fosse nausea. Non ero abituata a sensazioni così forti.

«Come lo fermiamo?» chiesi.

«Dobbiamo trovarlo prima che possa completare la sua resurrezione. Per questo ho chiamato Thomàs. Può aiutarci».

«Non è un Divoratore, come può aiutarci?».

«No, infatti. E' un Cacciatore di Divoratori».

«Cosa?».

«E' una storia lunga, meglio non discuterne adesso». Fece una breve pausa, prima di proseguire. «Prima dobbiamo occuparci del suo corpo».

Di nuovo, si riferì a Simon solo come un cadavere e, di nuovo, la cosa mi irritò. «Che intendi?» domandai, retorica.

«Lo sai. Dobbiamo... Portarlo da un'altra parte, dove... Dove può riposare in pace».

«Noi non lo seppelliremo».

«Non possiamo tenerlo qui, Hazel. E' morto, il corpo inizierà a decomporsi e...».

«Simon non si muove da qui» sentenziai. «Io... Io lo riporterò indietro».

«E' umano, Hazel. Non puoi riportarlo indietro».

Anche senza la sua frase, ero già ben consapevole dell'impossibilità di tale azione. Eppure, dovetti credere che sarebbe stato possibile.

Doveva essere possibile.

«Gli umani credono che non si può fare» esclamai. «Noi... Noi viviamo in un mondo sovrannaturale, abitato da creature di ogni genere, con streghe e maghi. Perché non può accadere?».

«Perché la morte è più forte di ogni creatura sovrannaturale».

Non riuscivo a capire perché Martha mi stesse scoraggiando in quel modo. Lei era sempre quella che cercava soluzioni dove non se ne vedeva nemmeno l'ombra. Si era già arresa e risultava più che difficile per me mandare avanti quella crociata da sola. Ma lo avrei fatto comunque.

Mi voltai, evitando i suoi occhi, colmi di un misto tra rimprovero e dispiacere. «Lasciami sola, per favore» sussurrai.

«Vieni di là, Hazel».

«Ho detto di lasciarmi sola».

Martha esitò a quella mia richiesta. Aspettò almeno cinque minuti, prima di obbedirmi, forse arrendendosi alle circostanze. Non mi girai. Sentii soltanto la porta chiudersi, lentamente.

«Okay» mormorai, mentre mi passavo una mano sul viso. Salii piano sul materasso, sdraiandomi al fianco di Simon. Cercai di non smuoverlo troppo, convinta che in qualche modo potesse sentirmi e ciò potesse infastidirlo.

“Sei pazza” dissi a me stessa e probabilmente era vero.

Le mie dita tremanti raggiunsero il suo volto. Accarezzai delicatamente la sua guancia, così come facevo sempre quando lo guardavo semplicemente dormire.
«E' vero quel che ho detto, okay?» biascicai. «Io ti riporterò indietro. Non mi importa come, o a quale prezzo: tu tornerai da me». Abbassai per un attimo lo sguardo, sugli atroci segni che gli marcavano la pelle. «Questi andranno via» continuai «andranno via e tutto... Tutto si aggiusterà, d'accordo?».
Mi sporsi verso di lui e appoggiai le labbra sulle sue, immobili e fredde. «Sono umana adesso» mormorai. «A cosa mi serve esserlo se non ho te?».
Mi aspettavo che rispondesse. Speravo, pregavo con tutta me stessa che lo facesse. Supplicai affinché quello fosse un brutto sogno, sebbene non ne avessi mai avuto uno. Però nulla accadde, come sempre. A me era stata concessa solo la cruda realtà e sicuramente quell'aspetto non sarebbe cambiato.
Coprii gli orrendi sigilli tirandogli giù la felpa e tornai ad accarezzargli piano una guancia.
E allora iniziai a far ciò che più adoravo, ciò che lui adorava. Iniziai a cantare una delle ninne nanne che gli sussurravo durante le notti in cui non riusciva ad addormentarsi, quelle che conciliavano un sonno sereno, pieno di bei sogni.

 

«When the dark comes,

you don't be afraid.

When the dark comes,

you don't be scared.

'Cause I'm here with you,

baby, I'm here with you.

I'm not letting you go,

baby, I'm not letting go.

And when the light comes,

don't you wake up,

'cause I'm still here

baby, I'm...».

 

Interruppi il canto, a causa del magone che mi assalì e delle lacrime che mi riempirono gli occhi. Quanto avrei voluto essere priva di emozioni in quel momento.
 

***

 

Rimasi immobile in quella posizione, singhiozzando fino a farmi mancare il respiro per delle ore. A me parvero tali. Le tende della stanza erano chiuse, ogni cosa era avvolta nell'oscurità, eccetto per la fioca luce dell'installazione.
Avrebbe potuto essere ancora giorno o un'altra notte.

Sollevai il capo e notai, con ribrezzo e orrore, che i segni sulla pelle di Simon erano aumentati, estendendosi anche sulla guancia e raggiungendo l'angolo della bocca. Strizzai gli occhi, ormai asciutti. Probabilmente, le lacrime nel mio corpo si erano esaurite.

«Torno subito, d'accordo?» sussurrai al suo orecchio, fingendo ancora, inesorabilmente, che potesse sentirmi. Pensare che fosse così mi tenne a galla in quell'oceano di dolore.

Strisciai fuori dal letto e barcollai verso la porta. Varcai la sua soglia e me la richiusi alle spalle. A passo lento, raggiunsi il salotto. Vi trovai solamente Thomàs, seduto sul divano, quasi del tutto sommerso da fogli e libri.
Mi fermai a pochi metri da lui, che alzò lo sguardo non appena si accorse della mia presenza. «Dov'è Martha?» domandai.

Thomàs abbozzò un sorriso di circostanza e chiuse il grosso libro dalla copertina consumata che aveva appoggiato sulle gambe. «E' andata a procurarci delle cose che ci saranno utili» rispose e si mise in piedi, facendo un passo nella mia direzione. «Tu come stai?».
Feci una smorfia. Cercava di essere carino e gentile, quasi sicuramente sotto suggerimento della nostra amica in comune. «Sto bene» mormorai.

«Forse... Forse dovresti farti una doccia».

«Perché?».

«Beh... Non hai proprio un buon odore».

«Avere un profumo gradevole non rientra nelle mie priorità al momento».

«Non è per quello». Fece una breve pausa, poggiando le mani sui propri fianchi. «Insomma, hai passato le ultime tre ore accanto ad un cadavere e...».

«Non parlare di lui così» lo interruppi, bruscamente.

Thomàs accennò una risata, sarcastica. «Come ne dovrei parlare? E' morto e tenerlo chiuso dentro quella stanza non cambierà le cose. Prima accetti il fatto che se ne sia andato, meglio è per tutti».

Chi era quell'individuo per parlarmi in tono così duro, senza nemmeno conoscermi?

Era la prima volta che provavo quel genere di rabbia. Non era quella derivata dalle anime Divorate o quella che mi aveva avvolto quel maledetto giorno in ascensore.

Era qualcosa di distruttivo, che rischiò di farmi esplodere la testa.

Senza rendermene effettivamente conto, d'istinto, sollevai una mano e lo colpii con forza, con violenza, sul viso. Uno schiaffo, un colpo secco, che lo portò a girare il capo, per attutirlo.
Thomàs rimase immobile per qualche secondo, mentre io osservavo le mie dita tremanti ancora a mezz'aria.

«Scusami» sussurrai, ritraendo la mano al petto. Lo vidi voltarsi e toccarsi piano la guancia dove era già impresso un segno rosso. «Non fa niente» replicò.

«Non volevo colpirti, davvero, io non...».

«Ho detto di non preoccuparti».

Mi morsi piano il labbro inferiore. In un certo senso, l'aver colpito Thomàs era stato liberatorio.

«Lo so che è difficile» disse, poco dopo. «Lasciar andare qualcuno che ami è... Davvero difficile. Però bisogna farlo». Fece una breve pausa, poi riprese: «I miei genitori sono morti quando avevo dodici anni. Ho dovuto andare avanti dopo due ore circa e loro avevano fatto parte di ogni singolo momento della mia vita fino ad allora. Eppure ci sono riuscito. Tu conosci quel ragazzo da quanto, qualche mese?».

Avrei volentieri detto ciò che pensavo riguardo al suo modo di vedere le cose, del tutto assurdo, a mio parere, ma non ebbi il tempo. Il ritorno di Martha precedette le mie parole e il dialogo non ebbe maniera di avere un seguito.
Aveva in mano uno scatolone enorme. Normalmente, avrei chiesto informazioni riguardo al suo contenuto, ma in quel momento le mie priorità erano diverse.

«Vi lascio sole». Thomàs si congedò immediatamente. Lo vidi dirigersi verso il lungo corridoio della casa e sparire in una delle camere degli ospiti.

Quando tornai con lo sguardo su Martha, aveva poggiato lo scatolone a terra e si avvicinò lenta a me, sorridendo in maniera rassicurante.

Credeva che infondermi un briciolo di felicità funzionasse?

«Voglio contattare delle streghe» dissi, ad un tratto. «Tu sai a chi chiedere, no? Magari prima ci informiamo sul fatto che non abbia contatti con il nemico».

Martha sospirò. Senza che lo affermassi in modo diretto, aveva già capito quale fosse il mio scopo. Era pressoché impossibile non comprenderlo. «Non farlo, Hazel» mormorò.

«Col tuo aiuto, potrò muovermi più in fretta» replicai, ignorando le sue ultime parole. «Per favore».

«Non posso aiutarti, mi dispiace».

«Non puoi o non vuoi?».

Esitò. «Non voglio. Non voglio, perché so che ogni strada che prenderai, sarà un vicolo cieco che non riporterà indietro Simon e insinuerà in te delusione e altro dolore».
Mi morsi forte il labbro inferiore. Non avere l'appoggio di Martha in quella situazione fu terribile. Lei era sempre stata la mia ancora, attraverso i secoli. Non mi aveva mai abbandonata e se in quel momento si stava allontanando da me, voleva dire che le cose erano davvero irrimediabili e ciò mi sconfortava in modo inesorabile. Eppure, non glielo diedi a vedere. O meglio, cercai di fingere che mi andasse bene. «Okay» esclamai, recitando in tono duro. «Vuol dire che devo iniziare subito a muovermi, se voglio fare in fretta».
Martha, a tal punto, non osò replicare. Molto probabilmente mi avrebbe fermata, ma ero pressapoco sicura che prima mi avrebbe lasciato fallire. Sperai, tuttavia, che il fallimento rimanesse solo una remota possibilità. Dovetti sperare ciò. Dovetti aggrapparmi a qualcosa.

Mi congedai in quel modo, senza aggiungere altro, e tornai in camera, da Simon.

  
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