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Autore: LilithJow    22/07/2013    6 recensioni
Io avevo sempre odiato la morte, così come le persone che le andavano incontro; quelle che rinunciavano alla propria vita, sperando in un'esistenza migliore, che però non c'era e io lo sapevo bene. Non capii perché nella mia mente si materializzò l'idea di permettere a Sebastian di uccidermi e non era qualcosa di simile a ciò che era successo in precedenza.
Avevo deciso di sacrificarmi per permettere a Simon di vivere e ritenevo che fosse una buona motivazione. Ma allora, una ragione non c'era, eppure lo desideravo comunque. - SEGUITO DI "LULLABIES"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 3
"You promised it. You broke it"



La quiete della campagna aveva insinuato in me una strana armonia. Giocherellavo con i fili d'erba, seduta sul prato, con lo sguardo fisso ad ammirare il paesaggio di quel luogo: alberi in fiore, cespugli verdi e rigogliosi; lo scroscio dell'acqua di fiume si mischiava al canticchiare dei passeri.

«Mi piace questo posto. Dovremmo venirci più spesso» esclamai. Sentii Sebastian ridere, dietro di me. Mi voltai, facendo ondeggiare i miei lunghi capelli biondi e incrociai facilmente i suoi occhi color cioccolato.
Avevamo preso l'aspetto di due ragazzi, non troppo cresciuti. Purtroppo per loro, erano morti di fame, a causa della carestia dell'epoca. Per noi, ovviamente, quel genere di cibo non era un problema.

«Oppure, potremmo rimanere» disse Sebastian, raggiungendomi e prendendo posto seduto al mio fianco. «Sai che non possiamo» replicai.

«Perché no?».

«Perché questo è un paesino dove tutti conoscono tutti e desteremmo dei sospetti, non invecchiando».

«Parli come se fossimo vampiri».

«Beh, abbiamo l'immortalità in comune».

«E a te questo non sta bene».

«Non l'ho mai detto».

«Non c'è bisogno che tu lo dica. Si vede da come ti comporti in presenza degli umani».

«Non capisco».

«Avanti, Hazel. Ti comporti come se provassi qualcosa nei loro confronti».

«E questo è un male?».

Esitò a rispondere, fissando altrove per un attimo. «Non lo so» sussurrò, infine. «Devo ancora deciderlo».

«Oh, Sebastian» dissi e mi alzai in piedi, compiendo mezzo giro su me stessa. Il vento lieve di primavera fece ondeggiare il mio vestito azzurro. Lui mi seguì, di riflesso. «Non temere gli umani» gli sussurrai, accarezzandogli entrambe le guance con i polpastrelli.

«Non li temo» replicò. «Tu resti sempre la mia sorellina, no?».

Sorrisi. «Sempre e per sempre».
 

***

 

Il rumore del clacson di un camion dietro di me mi fece sobbalzare, interrompendo il flusso dei miei ricordi.
Mi trovavo sulla strada statale, guidando un fuoristrada arancione che avevo rubato. Non volevo farlo, ma sarebbe stato difficile noleggiarne uno, dal momento che non possedevo la patente. In realtà, non me la cavavo nemmeno bene a guidare, considerando il fatto che le poche volte in cui mi ero messa al volante, risalivano ad almeno un secolo prima o giù di lì, quando la macchina era una novità assoluta. Poi avevo semplicemente lasciato perdere. Non mi serviva un mezzo del genere e, per i miei standard, era fin troppo lento. La mia nuova condizione da umana, tuttavia, non mi concedeva altro.
Ero terribilmente lenta in tutto quello che facevo e ciò mi infastidiva. Fui dell'idea di aver sviluppato di già un tic nervoso e non fu difficile constatare che le mie unghie erano quasi del tutto scomparse.
Thomàs mi aveva suggerito di calmarmi, Martha aveva smesso di parlarmi, se non attraverso sguardi minatori e poco rassicuranti. Il problema era che la calma era lontano anni luce da me.

Erano passati tre giorni e non ci eravamo mossi: né loro, nella crociata per fermare il Creatore e Sebastian, né io, nella mia battaglia personale per riportare indietro Simon.

Simon.

Il suo aspetto era peggiorato visibilmente.

La pelle aveva perso tutto il suo colore e, su di essa, i sigilli erano aumentati, arrivando a ricoprire metà del suo petto e avevano iniziato ad apparire anche sul braccio destro. A breve, avrebbero riempito tutto il suo corpo e la resurrezione sarebbe stata completata. La sola idea mi metteva i brividi.
Per questo ero sempre più motivata nei miei obiettivi, per quanto una neo-umana con crollo emotivo potesse esserlo. 
Avevo frugato tra i contatti di Martha, furtivamente, per ottenere qualche indirizzo. Purtroppo, niente numeri di telefono, ma la cosa non mi sorprese.
Ero da ore in quella macchina, col piede premuto sull'acceleratore e, della mia meta, nemmeno l'ombra. Non avevo smesso un secondo di pregare affinché trovassi qualcuno che mi potesse aiutare.
«E' impossibile» avevano detto Martha e Thomàs. La parte più ragionevole di me, dava loro retta. Purtroppo, però, non era quella a comandare. Una volta lo avrebbe fatto e in quel momento capii benissimo quanto gli umani fossero schiavi delle proprie emozioni; però ancora non avevo deciso se questo fosse un male o un bene.

 

La villetta dalle pareti scrostate, persa nella zona più sconfinata dell'Illinois, apparve sul lato della strada con asfalto eccessivamente consumato dopo cinque ore di viaggio. Probabilmente, se solo avessi saputo guidare meglio, sarei arrivata prima. Infierii contro me stessa, mentre accostavo come meglio potevo accanto alla casa e scendevo goffamente dall'auto.

Goffamente. Io, goffa.

Attribuire tale caratteristica al mio modo di muovermi fu pressapoco sconcertante.

Mi fermai, d'un tratto, chiudendo gli occhi e respirando a fondo. Avevo sempre sentito dire che era così che ci si calmava. Su di me, non ebbe poi chissà quale effetto, purtroppo.
Scossi appena la testa, sollevando le palpebre, e una mia mano scivolò nella tasca del giubbotto di pelle che indossavo. Lì dentro, si trovava il ciondolo che avevo dato a Simon, qualche mese prima. Glielo avevo donato per proteggerlo, prima di tutto, e poi era diventato qualcosa di più.
Una sorta di nostro simbolo o qualcosa del genere. Era stato lui a definirlo tale, una delle poche notti tranquille, dopo il nostro ritrovo.
Fissai la pietra verde con nostalgia, sospirando. «Sei sempre con me, vero?» sussurrai, ponendo una domanda per cui non avrei ottenuto risposta. Strinsi il ciondolo in una mano, nel pugno, e mi diressi verso l'entrata della casa.

Già da fuori, erano udibili rumori a testimonianza della presenza di più di un individuo nell'abitazione. Avrei bussato alla porta, ma la trovai aperta. Ne approfittai per sgattaiolare dentro e seguii la frequenza delle voci, che mi condusse in una grossa stanza – evidentemente era il salotto – dove vidi tre donne. 
Chiacchieravano, sedute a terra su un tappeto ricco di decorazioni floreali. L'odore di incenso riuscì a stordirmi e dovetti trattenere il respiro più di una volta, prima di abituarmici. Loro non si accorsero di me, non subito.
Ci vollero almeno cinque minuti prima che una si voltasse. Sembrava essere la più grande delle tre. Mi guardò per un frazione di secondo. «Posso aiutarti?» disse, portandosi i lunghi capelli scuri su di un lato. Mi sorrise e diede l'impressione di essere un gesto quasi confortante.
Stranamente, non avevano l'aria di essere sconvolte dal fatto che qualcuno di sconosciuto fosse entrato tranquillamente nella loro casa.

«Sì, io...» balbettai. «Sono un'amica di Martha».

«La nostra tenera Divoratrice. Perché ti ha mandato da noi?».

«Non mi ha... Mandato. Insomma, mi ha parlato di voi e di quello che siete in grado di fare e... Eccomi qui».

A quel punto, la strega si alzò. Solo lei. Le altre due rimasero sedute e ripreso a chiacchierare, come se niente fosse cambiato.

La vidi avvicinarsi a passo lento a me e mi si fermò davanti, incrociando le braccia. Spalancò gli occhi verdi e abbozzò una risata, che però troncò di netto, divenendo seria e a tratti inquietanti. «Qual è il tuo nome?» chiese.

«Hazel. Mi chiamo Hazel».

«Nome affascinante. Io sono Evangeline». Fece una breve pausa, scrutandomi. Era una donna bellissima. Scintillava, in quel posto così decadente.

«Di cosa avresti bisogno?» domandò poi.

Esitai nel rispondere. Sapevo bene che ciò che stavo per chiedere non era cosa poco. Non era nemmeno qualcosa di usuale, era difficile, era complicato.

«Devo riportare indietro qualcuno» sussurrai.

«Indietro?».

«Sì, lui è... Lui è morto». Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce e, per un momento, percepii una fitta al petto a causa di ciò.

«Morto?» cantilenò e dopo scoppiò a ridere, come se trovasse quel particolare divertente. «Scusami, dolcezza» disse, portandosi una mano alla bocca e tentando di tornare seria. «Non so cosa ti abbia raccontato Martha, ma... Riportare qualcuno in vita dalla morte non è competenza di nessuno».

«Ma so che voi siete streghe potenti e...».

«Non è una questione di essere streghe potenti, e lo siamo. E' la morte, tesoro. Sebbene potenti, su di essa non possiamo agire».

«Questo vuol dire che non ci proverete nemmeno?».

«Non ne vale la pena». Mi fissò ancora e io stavo per scoppiare per l'ennesima volta a piangere. Ormai, farlo era naturale e quasi abitudinario. Le mie nuove e fresche emozioni si stavano divertendo con me. «Torna a casa e saluta per me chiunque tu abbia perso» concluse Evangeline. Non si sforzò di sorridere allora e fece per tornare dalle due compagne.

Tuttavia, non potevo permetterle di lasciarmi fallire così in fretta, in quel modo.
Mi passai una mano sul viso. C'erano sicuramente cose che la strega non sapeva. Perlomeno, dedussi che Martha non le avesse messe al corrente di ciò che era successo e, se non lo aveva fatto lei, non c'erano altri intermediari.

«Si chiamava Simon Clarke» esclamai e, alle mie parole, lei si fermò, ma mi tenne ancora le spalle. Io andai avanti: «Era uno splendido ragazzo di sedici anni, ne avrebbe compiuti diciassette tra poco. E' morto per colpa mia. Si è innamorato di me e io di lui, e questo lo ha reso il Sacrificio per resuscitare il Creatore dei Divoratori».

Riuscii a catturare l'attenzione di Evangeline. La vidi voltarsi e tornarmi vicino. «Il Sacrificio è stato compiuto?» disse, nervosamente. Mi limitai ad annuire.

«E io sono diventata umana» aggiunsi.

«Tutto questo è...».

«Assurdo. Lo so».

«No, non assurdo. E' totalmente fuori logica». Posò le mani sui fianchi. Aveva assunto un'aria nervosa, il che stonò sui lineamenti del suo viso.

«Ti prego, aiutami» biascicai.

«No!». Lo urlò e ciò richiamò nettamente l'attenzione delle sue compagne, che si alzarono in piedi e mossero qualche passo nella nostra direzione.

«Quel che dovresti fare, adesso, è nasconderti, ex Divoratrice. E' ciò che tutti noi dovremmo fare».

«Perché? Non voglio. Non voglio nascondermi, non voglio scappare. Voglio trovare una soluzione a... Ad ogni cosa».

«E' un po' troppo tardi per questo. Quando il Creatore tornerà a calcare questa Terra, probabilmente il genere umano rischierà l'estinzione, non considerando il modo atroce in cui tratterà i superstiti».

«Ma se Simon torna vita, il processo di resurrezione potrebbe interrompersi e...».

«Hai la tendenza a considerare le cose come troppo facili» mi zittì e sgranò gli occhi. «Dammi retta: trova un nascondiglio, proteggi chi ti è vicino e fatti proteggere. E ora vattene».

«Io...».

«Va' via!».

Aver saputo del ritorno – o quasi – del Creatore, provocò in Evangeline una spaccatura evidente. Se la mia prima impressione di lei era stata quella di una donna sicura e schietta, allora potei dire con certezza di aver davanti un'altra persona, in preda all'agitazione e all'ansia.

Nemmeno mi sorprese.

Il Creatore mi atterriva da Divoratrice. Da umana, la situazione era mille volte peggio.

Normalmente, sarei rimasta lì fino allo sfinimento. L'avrei addirittura minacciata, con la forza. Ma mi sentivo debole, sia fisicamente che mentalmente, e non ce la feci.

Fu come ricevere un duro colpo in pieno stomaco quando anche la mia unica speranza si rifiutò di aiutarmi.

Che mi succedeva?

La risposta era più che evidente. Seppur crudele e spietato, Sebastian aveva ragione su una cosa: le emozioni umane rendono deboli e io, in quel momento, lo fui più che mai.

Ero diventata debole.

Lo avevo fatto dall'esatto istante in cui il cuore di Simon aveva cessato di battere e il mio aveva intrapreso quel ritmo costante per la prima volta.

Non dissi niente. Quasi mi sembrò di essere a corto di fiato, quando mi voltai e abbandonai quella villetta. Mi trascinai verso l'auto e salii a bordo. Rimasi per minuti ferma, con le mani sul volante, a fissare il vuoto.
Ero distrutta perché dopo millenni di esistenza, ero totalmente sola. Avevo completamente perso mio fratello, anche se per molto tempo mi ero illusa che non fosse così.

Non avevo l'appoggio di Martha, che cercava in tutti i modi di portare avanti crociate ben diverse dalle mie.

Non avevo neppure più me stessa.
 

***

 

Il viaggio di ritorno fu molto più breve rispetto a quello di andata. Non seppi perché: forse mi ero abituata alla guida, forse c'era meno traffico.
Parcheggiai l'auto in un vicolo buio e nascosto da occhi indiscreti. Anche se la macchina era stata rubata, dubitavo del fatto che qualcuno potesse risalire a me. Del resto, agli occhi di tutti, io ero ancora la dolce e innocente Johanna Wilkinson, che riusciva a cavarsela anche se i genitori erano lontani. Ci aveva pensato Martha, come sempre, bloccandoli in Europa per lavoro.

Raggiunsi lentamente l'attico all'ultimo piano di quel palazzo moderno. La porta non era chiusa a chiave, riuscii ad entrare nell'appartamento senza dover per forza bussare o usufruire di una delle finestre. Avevo già imparato a scartare quest'ultima opzione: la mia nuova e fresca goffaggine mi impediva di arrampicarmi sui cornicioni.
Tuttavia, ciò non mi impedì di imbattermi in qualcuno. Prima che potessi sgattaiolare in camera da letto, da Simon, trovai Thomàs sulla mia strada. Reggeva una tazza di ceramica, fumante, probabilmente, dall'odore, contenente tè. Abbassai lo sguardo, cercando di evitare i suoi occhi color nocciola. Lui si mosse a passo moderato nella mia direzione e si fermò solamente ad un metro da me.

«Missione fallita?» domandò, alzando un sopracciglio.

«Che ti importa?» sbottai e incrociai le braccia.

«Oh, era giusto per chiedere».

«Non dirai nulla a Martha, vero?».

«Nulla che lei non sappia già?».

Sospirai sommessamente. «Sa tutto, come sempre».

«Esatto. E tu sai che non ti rimprovererà per questo».

«Sta solamente aspettando che mi passi, non è così?».

«No. Sta aspettando che tu capisca».

Stavo seriamente iniziando a non sopportarlo. Non che fosse colpa sua: cercava di essere razionale, cose che io, evidentemente, non ero più in grado di fare. Il punto era che potevo accettare il fatto che Martha si comportasse in quel modo, ma non lui. Perché Thomàs non mi conosceva, non conosceva Simon, non conosceva la nostra storia. Non sapeva assolutamente nulla.
Sorrisi, amara e sarcastica, scuotendo appena la testa. «State tutti aspettando che io capisca» esclamai, acida. «Ma io non vedo cosa c'è da capire. Non ci riesco, okay? Non...».

Strizzai gli occhi. Non volevo piangere davanti a lui. Non sarebbe certo stata una novità vedermi in lacrime, comunque.

«Okay, ascoltami» sussurrò Thomàs e lo vidi poggiare la tazza sul basso tavolino di vetro del salotto. Senza accorgermene, avevo iniziato a tremare. Lui portò le mani sulle mie spalle e io mi costrinsi ad incrociare il suo sguardo. «Quel che ti ho detto l'altro giorno» mormorò «riguardo ai miei genitori, lo ricordi?».

Annuii, distrattamente. «Sono morti a causa di alcuni Divoratori» continuò. «Non quelli buoni. Divoratori come Sebastian, che disprezzano l'umanità e si divertono ad abbattere persone una dopo l'altra. Io ero il loro prossimo bersaglio, stavano per prendermi e Martha mi ha salvato. Ha combattuto contro i suoi simili e mi ha portato via. Aveva l'aspetto di una ragazza dai lunghi capelli rossi e gli occhi verdi. Mi sono fidato subito di lei, pur sapendo la sua natura. Mi è stata vicino e mi ha aiutato ad andare avanti. Perché non le permetti di fare lo stesso con te?».

«Perché fa troppo male». Presi un respiro profondo. I singhiozzi aveva iniziato a tormentarmi. «Come ci riuscite?» domandai. «Come si fa a sopportare tutto questo dolore? Io, prima, odiavo le persone che si toglievano la vita a causa di esso, perché credevo fosse facile. Credevo fossero semplicemente troppo codarde per combattere, ma non è così. Ci sono dolori opprimenti e... E insopportabili».

«Non si sopporta il dolore» mormorò lui. «Ci si abitua e basta».

Thomàs rimosse le mani, lasciando ricadere le proprie braccia lungo i fianchi. Solo a quel punto, io abbassai lo sguardo.

A modo suo, aveva tentato di confortarmi – per quanto la sua affermazione potesse esserlo – e gliene fui grata.

Cercai di nascondere e mascherare la mia espressione stravolta e completamente distrutta come meglio potevo.

«Hazel...». Il suono della voce di Martha si espanse nella stanza, ma, per la prima volta in quei giorni, non aveva tono di rimprovero o eccessivo dispiacere.

Mi voltai e lei era lì, in piedi a pochi metri da me, con un mezzo sorriso sul volto. Non fu necessario ragionarci troppo su: con due soli passi la raggiunsi e la abbracciai. Perché ne avevo bisogno. Perché anche se eccessivamente razionale, Martha era la mia migliore amica, la mia ancora, il mio punto fisso e sapevo bene che, qualsiasi cosa faceva, era per il mio bene.
Rimasi rifugiata tra le sue braccia e per un attimo, l'angoscia, il panico e il dolore si dissolsero, perché mi sentii protetta e al sicuro.

«Stai bene?» sussurrò al mio orecchio. «No» biascicai. «Però sto raccogliendo i pezzi».

Martha si staccò a quel punto e mi accarezzò una guancia con il pollice. «Troveremo una soluzione» disse, a bassa voce. «Io ne ho sempre una, no?».

Annuii distrattamente e mi sforzai di sorridere.

«So quanto è importante per te riportarlo indietro, okay?» continuò. «E mi dispiace se ti ho subito sbarrato la strada. Il problema è la resurrezione del Creatore va fermata e in fretta. Se non lo blocchiamo immediatamente, non ci sarà più un posto per far tornare Simon. Lo capisci questo?».

«Sì, lo... Lo capisco».

«Allora permetti a me e Thomàs di occuparcene e non fare scelte azzardate. Per favore».

«Non farò nulla di azzardato se mi prometti di stare dalla mia parte, Martha, perché... Perché ho terribilmente bisogno di te, ora più che mai».

«E io sono qui per te. Sempre e per sempre».

Avevo necessità di tale promessa, per quanto vera o meno potesse essere. Io ne avevo fatta una del genere, eppure, le cose erano andate diversamente dai nostri progetti.

«Non vorrei interrompere questo momento toccante tra di voi» si intromise Thomàs ed entrambe, a quell'affermazione, lo guardammo; io, ovviamente, più perplessa di Martha. «Forse dovresti dirle quella cosa» aggiunse.

«Che cosa?» domandai, subito, e i miei occhi ricaddero subito sulla mia migliore amica. La vidi maledire Thomàs: la delicatezza, forse, non era il suo forte.

«Niente, io...» esitò Martha.

«Tu cosa?».

Sospirò. «Ho spostato il corpo di Simon».

«Spostato? Dove?».

Si morse appena il labbro inferiore e iniziai seriamente a temere il peggio. Probabilmente, se mi avesse detto di averlo sepolto, sarei impazzita ancor più di quanto non lo fossi già. «Dove?» chiesi ancora, con isterismo.

«Nel congelatore» disse lei. «In cantina».

«Come?».

«Non potevamo lasciarlo in camera, Hazel. Il freddo terrà il corpo parzialmente intatto e...». smise di parlare, lasciando la frase in sospeso, mentre io portavo una mano sulla bocca, per non urlare. In fondo sapevo che quello era il comportamento più sensato. Tenere il corpo su di un letto non era una saggia decisione; eppure, il pensiero di lui chiuso in una cella frigorifera, mi strinse una morsa intorno al cuore e mi fece venire la nausea.

«Mi dispiace, Hazel, non...» mormorò Martha.

«No, va bene...» mi sforzai di dire. «E'... E' giusto così». Feci una breve pausa e, d'istinto, una mano mi scivolò in tasca, a sfiorare il ciondolo verde. «Ho bisogno di vederlo, solo per un attimo» sussurrai. «Devo dargli una cosa».

«Vuoi davvero vederlo in quello stato?».

«No, ma... Portami da lui».

«D'accordo» sospirò Martha. Mi tese una mano e io l'afferrai subito. Senza che lo chiamassimo, ci raggiunse anche Thomàs, imitando il mio gesto. Avrei voluto dirgli di non venire, ma prima che potessi parlare, ci eravamo già dissolti.
Riapparimmo nei corridoi sotterranei di quel grande palazzo. Sembrava di essere in un altro mondo, confrontato quel posto decadente e sudicio, con la modernità degli appartamenti superiori.
Martha fece strada fin quando non ci ritrovammo tutti e tre davanti ad una porta di legno, cigolante e visibilmente antica. La aprì poco dopo e solo in quell'istante le lasciai la mano.
La sola visione del grosso freezer, ancora chiuso, mi fece salire il magone. Mi morsi forte il labbro inferiore e rischiai di farlo sanguinare. Ero ancora in tempo per tornare indietro ed evitarmi quello che Thomàs avrebbe definito un ulteriore trauma psicologico: l'immagine di Simon – del corpo di Simon – livido e inerme, contuso in quella scatola.
Strizzai gli occhi e, poco dopo, percepii le dita di Thomàs sulla mia spalla. Forse lo fece per darmi coraggio o, più semplicemente, sostegno. Quel ragazzo era l'emblema della contraddizione, a mio parere.
Non riuscivo a vedere cosa stesse facendo Martha, complici i metri di lontananza che erano arrivati a dividerci e la semi oscurità del posto. Tuttavia, riuscivo a sentirla trafficare, mentre cercava di aprire il congelatore. Con mia sorpresa, mi accorsi che era più facile e veloce del previsto. Come mai non si era preoccupata del fatto di sigillare ogni cosa? E se qualcuno fosse sceso in quella cantina e avesse trovato il corpo?

Solo in quel momento mi soffermai su quei dettagli, sbagliati e privi di logica. Dubbi e stranezze, che si marcarono quando scorsi Martha irrigidirsi e la sentii mormorare: «Oh, Dio mio».
Temetti il peggio, perché lei non era una di quelle che si impressionava facilmente. Anzi, non si impressionava affatto. 
Pensai ai sigilli, pensai al modo in cui avrebbero potuto deturpare il suo viso e una marea di altre cose angoscianti e terrificanti, che rischiarono di farmi esplodere la testa.

«Che succede?» urlai e, d'istinto, mi buttai in avanti, raggiungendo il congelatore aperto. E fu in quell'istante che mi sembrò di non avere, di nuovo, un cuore vivo.

Perché in quella scatola di metallo non c'era nulla.

«Qualcuno lo ha preso» esclamai, in preda al panico, senza nemmeno chiedere o cercare spiegazioni. Martha scosse la testa. «Nessuno lo ha preso» sussurrò. «Lui è scappato».

  
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