TELLER’S
POV
Il
sole si stagliava alto nel cielo, preannunciando
l’ennesima estate bollente. I raggi si insinuavano in ogni
fibra e in ogni
fessura, intrecciandosi e andando a formare disegni complicati sulle
pareti
delle case che lasciavano le imposte aperte. Rincorrevano quella
piccola afa
che stava cominciando a calare nei vicoli della città come
un coperchio su una
pentola che bolle, divertendosi a scommettere su chi avrebbe raggiunto
per
primo l’esasperazione degli
uomini.
Era difficile correre sotto quel sole, soprattutto se non lo si aveva
fatto per
mesi, e quell’afa dispettosa che si divertiva a
schiaffeggiarti il collo con il
suo fiato umido non rendeva di certo le cose più facili. Ma
lui doveva farlo,
doveva allontanarsi da quel posto il più in fretta
possibile, prima che
riuscissero a trovarlo. Cosa che non sarebbe successa poi
così tardi se
continuava a correre come avrebbe potuto fare un orso costretto su due
zampe.
Si maledisse mentalmente e continuò ad arrancare tra le
stradine secondarie, cercando
un po’ di riparo nell’ombra creata da qualche
angolo di tanto in tanto. Si
passò una mano sulla fronte, portandosela poi alla bocca
mentre si appoggiava
al fianco di un edificio per riprendere fiato. La vecchia camicia di
flanella
era arrotolata sopra gli avambracci, e si attaccava alla schiena
laddove
correvano a ritmo frenetico delle gocce di sudore.
Estrasse un foglio
stropicciato dalla tasca dei jeans, si guardò un attimo
intorno e poi rimise il
foglio al suo posto, ripartendo a passo di carica.
L’aveva stampato la scorsa notte, in un web-café
semideserto dove era riuscito
a passare inosservato. E adesso ecco che la sua ricerca ricominciava
alla luce
del sole. Tagliò per una strada laterale sulla destra, che
lo immise finalmente
dove si riusciva a trovare qualche Boulevard.
Voleva solo trovare l’istituto, vederla da lontano, appurarsi
che stava
bene. Dopo tutto questo tempo… avrebbe pensato le cose
peggiori nei suoi
riguardi e lui di certo non poteva biasimarla. Se solo un giorno avesse
potuto
parlarle di nuovo, raccontarle la sua storia… Nei suoi
ricordi Jessica era
ancora una bambina con due codini che le spazzolavano le spalle e le
stringhe
delle scarpe che si intrecciavano tra i piedi, rischiando di farla
cadere
perché non sapeva ancora annodarle per bene. Sorrise,
ripensando a come saltava
giù dalla sedia e gli correva incontro quando rincasava dal
lavoro. Si
attaccava alle sue gambe con quelle braccine esili ma dalla stretta
d’acciaio,
e vi rimaneva attaccata come una patella allo scoglio fino a quando lui
non si
decideva a darle la solita, affettuosa arruffata ai capelli.
Il suo sorriso si fece triste, ripensando a quante cose aveva perso che
non gli
sarebbero mai state restituite.
Controllò l’indirizzo sul foglio che aveva in
tasca e voltò l’angolo,
ritrovandosi di fronte a un edificio marroncino protetto da un
cancellata di
ferro battuto. Una targa dorata riportava a chiare lettere Universal Rainbow – orfanotrofio.
È questo il posto, disse tra sé
spingendo il cancello, che lo accompagnò
nel cortiletto di ghiaia con un cigolio metallico. I sassolini emisero
il loro
solito scrocchio di benvenuto, al quale davano il via non appena
incontravano i
piedi di qualcuno. Il signor Switcherson si ritrovò in poco
tempo a premere la
mano sul pesante portone in legno, ornato soltanto da una maniglia
dorata. Non
si fermò a ristorarsi nell’ombra
dell’ingresso e nella corrente fresca che
provocò aprendo la porta. Come mosso da una scarica di
energia si proiettò
all’interno dell’istituto, e attraversò
il giallo salone dei ricevimenti, senza
notare minimamente la sua tonalità sfavillante che tanto
infastidiva i suoi
inquilini.
Il cuore gli martellava nelle orecchie, facendo scendere
l’istituto
nel silenzio più ovattato. Si diresse con sicurezza verso il
bancone dell’accoglienza,
asciugandosi le mani sudate sui pantaloni, e si rimise alla
disponibilità della
hostess che lo guardava con un misto di compassione e rimprovero da
dietro gli
occhialetti squadrati bordati di rosso.
«Come ha detto che si chiama la ragazza?» chiese la
signorina dopo alcune
domande di routine.
«Jessica» disse l’uomo mentre lei
picchiettava con le unghie laccate sulla
tastiera. «Jessica Switcherson» ripeté
serrando le mani attorno al bordo del
bancone, cercando di fermare il tremito che le scuoteva.
Sentì il cuore pulsare
nelle tempie ad un ritmo così veloce da sembrare quasi
inumano. I polmoni gli
bruciavano, come se stesse sostenendo quella piccola conversazione in
apnea,
addirittura in una stanza sottovuoto, e una grossa mano invisibile gli
si
chiudeva attorno alla gola, stringendo la presa minuto dopo minuto.
Cercò di prendere un respiro profondo, tornando ad
asciugarsi le mani sui
pantaloni.
«Signor Switcherson?» disse la hostess,
richiamandolo alla realtà.
Lui alzò di scatto la testa, che fino a qual momento aveva
tenuta chinata per
tenere lo sguardo fisso sulle mani ancorate al bancone.
«Sua figlia è stata adottata».
***
Il
sole era calato, ora tingeva di un arancione dorato ogni
cosa che finisse sotto il proprio sguardo. L’afa aveva
rallentato la sua
discesa frenetica, e dell’aria calda della mattina non era
rimasto che qualche
tiepido refolino. Ma l’afa o l’estate imminente non
erano certo i discorsi che
aleggiavano da un po’ di tempo in uno stabile appena fuori
città. Numerose
finestre si affacciavano su quel tramonto che si stava consumando senza
ricevere la minima attenzione. E così il sole, pian piano,
fece scivolare i
suoi raggi sui vetri in un silenzioso pianto dorato, buttandosi
aldilà
dell’orizzonte, lasciando che l’oscurità
ingoiasse anche il suo più piccolo,
ultimo bagliore.
Sembrava che l’edificio fosse costantemente avvolto
dall’assenza di rumore,
dove gli unici suoni che spiccavano di tanto in tanto erano il
ticchettio di
una tastiera o dei passi affrettati. Le stanze, ora semideserte,
sembravano
così ampie da rendere superflui tutti quei condizionatori
disposti in fila
lungo le pareti, dalle ventole che gracchiavano ogni volta che si
chiedeva loro
di uscire dal letargo. “Nuovo” non era di certo
l’aggettivo ideale per descrivere
quel posto, eppure un piccolo rettangolo all’ultimo piano era
riuscito ad
ottenere la sua buona porzione di modernità.
Le tende color cremisi erano tirate sull’immensa vetrata che
si stagliava alle
spalle di una sofisticata scrivania in legno dove giaceva una
cartellina gialla
appena tirata fuori dal doppiofondo di un cassetto. Ad un tratto
qualcuno bussò
alla porta di quella stanza. Due piccoli colpi secchi, decisi, che
preannunciarono l’arrivo di un uomo dai capelli biondi che
indossava ancora il
maglione a rombi verdi del giorno precedente. In mano aveva un CD,
stretto
gelosamente tra le dita massicce e sul viso si era allargato un
compiaciuto
sorriso soddisfatto. Avanzò a grandi passi verso la
scrivania e porse il CD al
suo capo, che lo guardò di rimando alzando un folto
sopracciglio bruno.
«Sono le registrazioni delle telecamere di sicurezza di
quell’istituto dov’è
stata la Switcherson negli ultimi anni, e a quanto pare questa mattina
hanno
ricevuto una visita d’eccezione» disse
l’uomo.
Alejandro De La Rosa inserì pigramente il CD nel computer a
schermo piatto che
troneggiava sulla scrivania e avviò uno dei filmati che
conteneva.
«Guarda chi si rivede» disse ad un certo punto,
condividendo finalmente il
sorriso soddisfatto del suo dipendente. «Il suo
sentimentalismo renderà tutto
più semplice, Roland» disse in tutta sicurezza
all’uomo, massaggiandosi
leggermente il mento. «Ci sono altre
novità?» chiese poi, lasciando perdere lo
schermo del computer.
«Hanno dimesso l’altra ragazza
dall’ospedale, penso che rimarrà per qualche
tempo con quella famiglia, i Jonas. E la Switcherson dovrà
partecipare ad una
rappresentazione entro pochi giorni, l’evento sarà
aperto al pubblico» riferì
l’uomo biondo portando le braccia dietro la schiena.
«Fantastico» disse De La Rosa prima di voltarsi
verso l’ampia finestra oscurata
dalla cortina di tende, congiungendo le dita affusolate. «Amo
le rimpatriate,
mi rattristava l’idea di non celebrarne presto una»
aggiunse con una
punta di malinconia nella voce. Si lasciò scappare una
risata poco dopo.
Fece
girare la poltrona su se stessa per ritrovarsi di nuovo faccia a faccia
con il
suo tirapiedi. «Con il trasferimento come siamo
messi?» gli chiese tornando
serio. «Siamo a buon punto, signore» rispose Roland
accennando un sorriso che
avrebbe fatto gelare il sangue nelle vene a chiunque. A tutti, fatta
eccezione
per De La Rosa ovviamente, il quale ricambiò il sorriso come
con il cuore
scaldato da quel gesto. «Preparati Roland» disse
alzandosi. L’altro, quasi
intuendo le sue intenzioni volò all’attaccapanni e
tolse dalla gruccia il
trench color avorio che il suo capo amava indossare. Poi glielo porse
con un
gesto rispettoso, aiutandolo a scivolare sulle spalle larghe
dell’uomo.
«Andiamo a teatro» concluse De La Rosa con
un’espressione soddisfatta dipinta
sul volto. Roland assentì in silenzio andando ad aprire la
porta, facendo
strada all’uomo.
Quando i due furono usciti, un refolo di vento si azzardò ad
entrare da una finestra della grande vetrata dimenticata aperta.
Accarezzò
l’attaccapanni dove, fino a poco prima, riposava
l’elegante impermeabile del
signor De La Rosa, si posò cauto sulla scrivania possente e
finì con
l’accarezzare la cartellina gialla, dimenticata incustodita
sul tavolo. Ne
sollevò curioso la copertina, lasciando scoperto il primo
foglio, dove spiccava
una foto cerchiata da un pennarello rosso. Voluminosi, ramati capelli
ricci
contornavano un ovale dalla carnagione perfetta e luminescente. Ne
seguivano
fitte e dettagliate righe che raccontavano la sua storia, descrivevano
la sua
personalità ed evidenziavano le sue debolezze.
L’unica presente sulla scheda
sembrava la stessa inclusa tra quelle di un’altra ragazza, in
una scheda
successiva. Capelli scuri, occhi verdi, labbra rosate. Jessica
Switcherson,
così diceva il nome scritto in stampatello sulla testata del
foglio.
La cosa, o meglio, la persona che accomunava le due ragazze si chiamava
Nicholas Jonas, e qualcuno sapeva come usarla contro di loro.
ANGOLO AUTRICE:
Salve bellissime,
come andiamo?
Avete visto quello
spettacolo di video che è FIRST TIME? **
Razza di domande che
faccio, l'avrete visto di sicuro! E di sicuro avrete pensato che sia
fantastico, come ho fatto io.
Come ho fatto io dopo
aver urlato come una pazza da manicomio, aver pianto come una fontana,
essere morta, sepolta e aver continuato a urlare fangirlando nella
tomba. *okay, ha del macabro tutto ciò*
Per quanto riguarda
il capitolo, se siete arrivate fin qui avrete capito che era uno di
raccordo, per dare un disegno delle trame che altrimenti non spiegate
farebbero diventare la storia piena di personaggi ignoti che compiono
azioni che non vi sapete spiegare.
Dispiace anche a me
non averci messo i nostri amati carciofi principali, ma c'est la vie c:
Tornando a noi,
domani parto e sto via una settimanella (mini tour dell'Andalusia)
peeerò ho già pronto il prossimo capitolo che
pubblicherò quando torno. E in viaggio scriverò,
già lo so.
Va bene, adesso vado
c:
Ultima, ma non ultima
cosa vorrei ringraziare tutte le new entries tra preferiti/seguiti e
tra i lettori (che questa settimana sono un bel numerello c':)
Adios <3
Miki