Darken Your Clothes
Sedeva inquieta nella sua stanza. Bianca.
L’aveva arredata pensando ad un ospedale psichiatrico, sapeva che prima o poi ne avrebbe avuto bisogno.
Il suono laconico di una porta sbattuta la riporta alla realtà della casa vuota, alla solitudine che l’avrebbe accompagnata fino a che la figura nevrotica non avrebbe varcato la soglia dei suoi venti metri quadrati di pallescente fastidio.
L’inquietudine venne presto sostituita da un nauseante sapore di deja-vu sulla lingua, mischiato all’amaro del tabacco che continuava a infierirsi nonostante la disgustasse.
Pochi secondi, passi veloci.
Un colpo al viso, e nessuna via d’uscita. Non avrebbe reagito nemmeno questa volta.
Conosceva la sequenza, portava ancora i segni addosso dell’ultima volta che l’aveva legata stretta. Le corde passarono celeri sulle vecchie, fresche cicatrici.
I polsi, il collo, le caviglie.
I calci alle costole non tardarono ad arrivare.
Uno, due, dieci. Si permise un gemito, e la punizione le venne dispensata in rabbiose urla e qualche schiaffo, per tenerla cosciente.
Per umiliarla.
Poco importava.
La drammatica sicurezza di quella dolorosa routine la tranquillizzava. L’odiava. La desiderava.
La costrizione sul pavimento, i respiri contati e gentilmente scanditi da una forte tachicardia accompagnata dal sapore metallico del sangue era la sua certezza che, almeno quello, stava succedendo realmente.
Cercò barcollando di alzarsi, e quando la vista le si fece scura la prima cosa a confortarla fu un color salmone chiaro schiacciato sulla guancia destra.
Le fughe del pavimento percorrevano la via verso la porta insofferenti della violenza consumata.
Rimase sola, a slegarsi i polsi, a sputare sangue, ad arrampicarsi barcollante sul materasso.
Il dolore acceso alla bocca dello stomaco le diceva chiaramente che non mancava molto alla prossima volta.