Cronache
del Nulla
***
Non
c’è sabbia che il vento possa alzare, in questa
strada. L’asfalto ha soffocato
il terreno e ora serpeggia tiranno per chilometri di lande desolate,
senza che
nulla lo possa fermare. Il panorama perfetto sarebbe costituito da una
balla di
fieno a rotolare e il sole a scaldare ogni cosa, a sciogliere. Ma non
si può
avere tutto dalla vita ed è per questo che Magnolia alza le
spalle rassegnata,
accettando come paesaggio il vento che non può alzare la
sabbia e il demone di
catrame. Chissà perché, poi,
l’ambientazione è così importante: se
si è tristi
piove, se si è felici vi è il sole. Si potrebbe
essere tristi mentre il bel
tempo regna sovrano oppure avere una gioia incontenibile nonostante
piova.
Magnolia scrolla le spalle per la seconda volta nel giro di pochi
minuti e
continua a camminare sul serpente di asfalto, cercando di dimenticarsi
che
quella strada – sì, proprio quella –
porti verso il Nulla. Attorno a lei vi è
solo un’immensa distesa di bianco candido, non vi
è un suolo, non vi è un
cielo: solo bianco. Nulla. Nulla e l’asfalto. Che emozione
suscita il Nulla,
poi? Forse l’indifferenza o forse, molto più
probabilmente, l’aridità emotiva.
Alza le spalle, Magnolia. Per la terza
volta. L’abitudine la porta a sollevare lo
sguardo, in cerca di un cartello
stradale che la possa aiutare a ritrovare la giusta via, ma subito si
dà della
stupida e torna a fissare il nero. Sono passati anni da quando aveva
una rotta.
Sono passati anni da quando guardava le segnalazioni. Sono passati
anni, ormai.
Eppure le vecchie abitudini la colgono ancora di sorpresa inducendola
ad alzare
quello sguardo, quello che rimane sempre abbassato, quello che non
conosce più
colore se non il nero dell’asfalto e il bianco del Nulla.
Come si può andare
avanti così? Magnolia non credeva fosse possibile, ma poi si
è perduta. Prima
sapeva quale strada avrebbe dovuto imboccare poi, così
– questione di un solo
impercettibile istante, un secondo solo, un minimo, minuscolo attimo
– non lo
sapeva più. Prima lo sapeva, dopo non lo sapeva. Ho perso la
via. Prima sapevo
dove andare e ora non più. Questione di un attimo e il Nulla
prende il
sopravvento.
Ma
c’era un tempo – sono passati anni, ormai
– in cui camminava sicura per le vie.
Insieme a lui. Mano nella mano. Aveva una rotta, sapeva dove andare. Ma
poi...
poi si è ritrovata sola.
Ed
è stato allora che si è persa.
«Ciao.»
Glielo
aveva detto così, ancora se
lo ricorda. L’aveva guardata, da lontano, e le aveva detto
Ciao. Ciao, niente
di più. Ciao come si dice al postino, ad un amico, ad un
conoscente, ad un
gelataio, ad un marinaio, al cane. Ciao.
Stava
camminando su una stradina
sterrata, intorno a lei vaste distese di erba e fiori. Poi, di fronte a
lei,
lontano qualche metro, vi era questa sagoma. Questa sagoma che le aveva
urlato
Ciao. Non le piacevano gli estranei, bisognava faticare per conoscerli
e lei
era troppo pigra per provare a parlare. Non le piaceva nemmeno parlare,
no. E
faticare. Faticare e parlare. Non le piaceva. Eppure quella figura
prese ad
avvicinarsi, sempre di più, sempre di più. Si
fermò a qualche metro da lei,
senza dire nulla. Se ne stava lì, impalato nel bel mezzo
della strada sterrata,
a fissarla. Ora che poteva vederlo con chiarezza, Magnolia
constatò che si
trattava di un ragazzo dagli occhi neri. Neri come la pece. Interamente
neri.
Nera la pupilla, nera l’iride, nera la sclera.
Pensò che fossero belli.
«Ciao.»
Ma
Magnolia non aveva alcuna voglia
di rispondere al suo saluto, nonostante lo avesse replicato. Rimase in
silenzio
a guardare quegli occhi scuri, domandandosi da dove diavolo fosse
spuntato
fuori, quel tipo.
«Non
ti va di parlare?» Fece di no
con la testa e il ragazzo la guardò ancora più
intensamente, avvicinandosi a
lei a tal punto che avrebbe potuto toccarle il naso, se solo avesse
voluto. Era
un estraneo strambo, quello. I suoi occhi neri erano ancora
più scuri, visti da
vicino: due enormi pozze color pece dentro le quali potevi sguazzare
per ore e
ore, senza mai annoiarti. Le piacevano, quegli occhi.
«In
questo caso, parlerò io per
tutti e due.» Lo disse sorridendo, mentre la sua voce
allenata riempiva l’aria
come musica. Avrebbe ascoltato quel suono per ore e ore. Avrebbe
parlato lui
per entrambi, dopotutto.
Magnolia
pensò che non era poi così
male, quell’estraneo strambo.
*
E
così camminarono.
Camminarono
vicini, le braccia a
sfiorarsi, mentre il ragazzo dagli occhi di pece continuava a riempire
il
silenzio di musica, raccontando di luoghi paradisiaci e animali
inimmaginabili.
Aveva percorso un’infinità di strade e Magnolia
invidiava il suo senso
dell’orientamento. Non aveva ancora parlato, ma in fondo non
ce n’era il
bisogno, si stava bene così. Non avrebbe avuto senso
sprecare parole e sporcare
la melodia della voce dell’estraneo.
«Mi
chiamo Tobia» disse d’un
tratto, fermandosi, smettendo di camminare e prendendola per un
braccio,
delicatamente, come si coglie uno di quei fiori stupendi e
fragilissimi.
Magnolia si sentì bene a contatto con la sua pelle. Bene.
Guardò quegli occhi
di pece e si disse che la parola bene si addiceva alla perfezione a
quell’estraneo. Tobia la guardava in attesa, mentre la muta
richiesta di sapere
il nome della ragazza si faceva sempre più evidente.
«Io
sono Magnolia.»
E
allora lo fece. Tobia la guardò a
lungo. Poi. Poi si avvicinò e posò le labbra
sulle sue. Bacio di fata. Bacio
innocente. Bacio che non si può male interpretare. Solo
labbra. Labbra di
fragola. Un contatto così impercettibile che Magnolia si
chiese se non se lo
fosse solamente immaginato.
Eppure
lui se ne stava lì, davanti
a lei, con quegli occhi neri.
Magnolia
pensò di aver finalmente
trovato la sua strada.
*
Per
molto tempo camminarono fianco
a fianco, le mani intrecciate, mentre il paesaggio mutava e le stagioni
si
alternavano. L’inverno portò con sé
immense steppe di bianco candore che
andavano a contrastare con le palle nere che erano gli occhi di Tobia.
Il
freddo non la toccava, a lei che adorava sentire il ghiaccio sotto i
suoi piedi
scalzi e lasciare che l’aria gelida le plasmasse la pelle a
suo piacimento. Il
suo compagno di viaggio, invece, sembrava seriamente scosso dalle basse
temperature, così Magnolia si tolse lo spesso maglione di
lana per donarlo a
lui.
«Di
solito questa scena è
invertita» commentò divertito, mentre la ragazza
lo imitava, senza però
emettere alcun suono. Ormai Magnolia era convinta che Tobia avesse
fatto
l’abitudine al suo silenzio, ogni tanto commentava qualche
sua frase, certo, ma
in linea di massima non apriva bocca, lasciando che lui rallegrasse
l’aria con
la sua voce. Non si stancava mai di sentirlo parlare con quella su
cadenza
melodica e la erre pizzicata che lo distinguevano.
Magnolia
stava bene accanto a lui.
Le piaceva sentire la mano forte del ragazzo intrecciata alla sua, in
quel modo
tanto infantile quanto adulto. C’erano attimi in cui le
sarebbe piaciuto
stringerlo a sé e baciarlo ancora una volta, come quella
volta in cui lui aveva
posato le labbra sulle sue e poter entrare dentro a quei suoi occhi
misteriosi,
poter scoprire l’arcano che era Tobia. Avrebbe voluto
parlare, raccontargli
qualcosa, proprio come lui faceva con lei, fargli sentire il suono
della sua
voce e poter intonare una splendida canzone insieme a lui. Avrebbe
voluto
dirgli che mai, mai in tutta la sua vita, mai in tutti quegli anni in
cui aveva
camminato, mai aveva incontrato estranei come lui, mai aveva visto
occhi come i
suoi. Avrebbe voluto dirglielo, Magnolia.
Ma
lui le rivolse uno di quei suoi
sorrisi genuini e lei si disse che se solo avesse aperto bocca, lui
sarebbe
fuggito, sarebbe scappato via e lei non avrebbe più sentito
quel tepore che la
sua mano le donava. Rimase in silenzio, Magnolia. Ancora.
«E
se uscissimo di strada?»
E
se uscissimo di strada? Da sempre
esistevano terribili leggende su chi aveva tentato di uscire dalla
strada. Una
in particolare aveva sconvolto l’animo di Magnolia: narrava
di due giovani
ribelli che, uniti da un sentimento di libertà, avevano
messo piede al di fuori
dell’asfalto; non appena avevano toccato l’erba
verde delle rigogliose
praterie, i loro occhi erano divenuti del colore del Nulla e i due
avevano
iniziato a camminare verso l’Orizzonte che, crudele, li aveva
inghiottiti. Si
diceva che vagassero ancora nell’Orizzonte in cerca della
strada.
Magnolia,
quindi, guardò con occhi
terrorizzati Tobia, iniziando a scuotere la testa in modo frenetico,
facendo
segno di no.
«Magnolia,
insomma, sono solo
stupide leggende. Nessuno ci crede più.» Il
ragazzo le appoggiò le mani sulle
spalle – brividi. «Vuoi davvero continuare a
camminare per la strada? Non hai
la voglia disperata di coricarti su quella neve bianca?
Guarda:» la fece
voltare verso le interminabili praterie che circondavano il serpente
d’asfalto
«Vuoi dirmi che non ne varrebbe la pena?»
La
ragazza lasciò che il suo
sguardo si posasse su quella splendida coperta di fiocchi di neve che
andava a
scaldare il terreno fertile, quello che sarebbe tornato più
smeraldino che mai,
in qualche mese. Chiuse gli occhi e si immaginò sdraiata su
quel dolce fresco,
abbandonata alla morbidezza della neve, quella di cui aveva sempre
sentito
parlare, ma che mai aveva provato. Sulla strada vi era solo ghiaccio. E
la neve
era lì, a qualche metro, le sarebbero bastati pochi passi e
avrebbe potuto
toccarla, assaggiarla – libertà. Rivolse la sua
attenzione a quel nero pece che
erano gli occhi di Tobia ed infine una strana consapevolezza si
impossessò di
lei. Succede così, di improvviso, quando un minuto prima
stai pensando che è
una follia, il minuto stai correndo per le steppe. È fatta
così, la
consapevolezza: prima non c’è, dopo
c’è. Circondò il viso tondeggiante del
ragazzo, si impresse quel ricordo nella memoria obbligandosi a
ricordarlo in
eterno, poi lo baciò.
E
quel bacio avrebbe dovuto dire
tutte le cose che non aveva mai detto, tutti i racconti che non aveva
raccontato, tutte le paure che non aveva esternato e ora la
attanagliavano,
impedendole di parlare. Quel bacio doveva dire Libertà.
«Era
un sì?» le domandò Tobia, un
sorrisino che gli increspava le labbra, non appena si separarono. Il
rumore del
silenzio, il freddo a gelarle le guance, gli occhi neri di lui, la
consapevolezza che solo così, solo in quel modo avrebbe
potuto dimostrargli
qualcosa, quel qualcosa che non riusciva a fare a parole. E allora fu
un niente
annuire.
Mani
nelle mani, occhi negli occhi.
Si avvicinarono al bordo della strada, che ora sembrava così
indistruttibile,
così lunga ed infinita, il Serpente d’Asfalto ad
ucciderli, ad opprimerli, a
costringerli ad un esodo eterno. Mani nella mani, occhi negli occhi.
Tobia
sporse un piede. Solamente un piede si andò a posare sulla
superficie candida,
mentre il resto del suo corpo rimase nell’area
dell’asfalto.
Un
solo piccolo piede a ribaltare
un’intera certezza. Un solo piccolo piede nella neve e gli
occhi di Tobia
ancora di un nero brillante. E allora nulla li trattenne
più: si lanciarono con
un salto nella neve, sprofondandovi dentro e ridendo, ridendo di gusto,
ridendo
gioia, ridendo come mai avevano riso. Perché succede
così quando la Libertà
sconfigge la Paura, non vi è più storia che
regga, non vi è più leggenda che
possa frenare gli spiriti, ormai in volo, in alto, sempre di
più.
E
fu il cuore di Magnolia che
parlò, quel giorno, nonostante la sua voce continuasse a
rimanere in gabbia. Fu
il cuore di Magnolia che parlò quando Tobia la strinse forte
a sé, baciandola
una, mille volte, lasciando che le loro pelli si scaldassero a vicenda,
mentre
la neve fredda gli faceva da coperta. Qualcuno disse di aver sentito il
dolce
suono di baci proibiti. Ma c’era solo il vento come
testimone, quando Tobia
penetrò dolcemente Magnolia, entrando dentro la sua anima,
scavandole il cuore
e lo spirito.
*
La
gente sostiene di aver visto, da
quel giorno, due giovani vagare indisturbati per le praterie, fuori
dalla
strada. Alcuni dicono fossero demoni mandati dall’Orizzonte
per tentare i più
deboli, altri erano sicuri si trattasse di angeli. Forse erano davvero
demoni.
Forse erano davvero angeli. Forse erano entrambi. O forse, Magnolia e
Tobia
erano solo innamorati. Il tempo aveva smesso di infastidirli e loro,
liberi
dalla paura, giacevano nelle steppe amandosi senza limiti. La neve
cedette il
posto all’erba, che accolse benevola sul suo manto i due
ragazzi. Gli occhi
color pece di Tobia erano il paesaggio che Magnolia preferiva ed era
solita
baciarli: prima uno, poi l’altro – dolcemente. La
strada e la sua gabbia erano
un ricordo ormai lontano, così come il bisogno di parlare
che Magnolia aveva
sentito prima di mettere piede fuori dall’asfalto; la ragazza
dimenticò tutto
ciò che avrebbe voluto dire al suo amato e il silenzio
tornò a fare ombra su di
loro, senza che lei se ne accorgesse. Succede così, quando
si sta bene: si
danno per scontate le cose più banali. Come parlare. I
lunghi racconti di Tobia
andarono diminuendo: prima erano molti, poi pochi, poi di meno, ancora
meno,
sempre meno. Magnolia non diede troppa importanza a questo fatto, presa
com’era
a lasciare che la pelle del suo amato toccasse la sua. Ma Tobia lo
sentiva.
Sentiva che il silenzio lo stava soffocando, prendendosi non solo le
parole
della ragazza, ma anche le sue. Minaccia incombente rendeva
insopportabile
quell’amore. Le parole non dette tornarono a galla dal
passato, pretendendo la
loro vendetta, esigendo quel posto in prima classe che gli era stato
sottratto.
Crudeli e più forti che mai gravarono su Tobia, stufo di
quella quiete forzata,
stanco di un amore che non parlava.
E
fu quando il silenzio si
impossessò completamente di lui che, una mattina
primaverile, guardò Magnolia
che dormiva beata accanto a lui, i lunghi capelli a farle da corona, un
sorriso
sereno stampato sul suo viso, persa in chissà quale sogno
muto. Muto come lei.
Muto come il loro amore.
Osservò
quelle sue splendide labbra
– Dio, che labbra aveva – quelle a cui aveva rubato
centinaia di baci, quelle
che si erano posate nelle parti più intime del suo corpo.
Osservò quelle labbra
che conosceva tanto bene. Osservò quelle labbra sconosciute,
belle ed
inarrivabili, incapaci di pronunciare una sola parola. Una parola per
lui.
Osservò quelle labbra, Tobia. Pianse una lacrima solitaria.
Poi – perché così
doveva essere – lasciò la mano del suo amore. E si
allontanò solo.
In
silenzio.
Non
c’è sabbia che il vento possa alzare, in questa
strada. Ma Magnolia non ci fa
caso e continua il suo vagabondare senza meta, volgendo lo sguardo a
quelle
immense praterie che ancora oggi custodiscono il segreto di
quell’amore
proibito ormai sbiadito. Tornare in strada era stata l’unica
soluzione
possibile quando, quella mattina primaverile, si è svegliata
sola, la mano del
suo amore svanita, così come lui. Aveva ascoltato il suono
di quel vento e
così, senza dire nulla, aveva maledetto il silenzio e il suo
non averle fatto
udire i passi di Tobia che se ne andava.
Era tornata nel serpente d’asfalto, perché
– ora lo sapeva – l’unica cosa che
le aveva dato la forza di fuggire era stata quell’emozione
insensata, quella
che non si sa bene come chiamare. Alcuni la chiamano Amore. Magnolia la
chiama
Follia.
Chissà
per quanto tempo ancora la vedrete girovagare per le strade, circondata
dal
Nulla. Forse per secoli. Forse di più. Una cosa,
però, Magnolia l’ha capita: La
lingua è magari un membro
indisciplinato -
ma il silenzio avvelena l'anima.
***
Note
Questa
storia partecipa allo Spoon River Contest,
sul forum di Efp. Il concorso consiste nello scrivere una storia
partendo da
una citazione dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee
Masters.
Ho
voluto creare un universo alternativo ed ipotetico per interpretare la
citazione
che mi era stata assegnata, ovvero:
La
lingua è
magari un membro indisciplinato -
ma il silenzio avvelena l'anima.
La strada, la prateria e le vicende che si
susseguono in questo piccolo testo sono un’allegoria della
citazione e di ciò
che significa per me. La morale è piuttosto esplicita,
quindi non starò a farvi
perdere tempo per spiegarla.
Il
contest non è ancora terminato, ma non appena
saprò i risultati non tarderò a
pubblicarli sulla pagina di questa storia, quindi... stay tuned! :D
Eryca.