Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Ricorda la storia  |       
Autore: GuessWhat    10/08/2013    10 recensioni
LONG SOSPESA // Esiste Dio? Se esiste, è sordo e se mi sente, non mi vede. Così sono finito qui, dalla strada ai cessi di una scuola. Sempre e comunque sguazzo nella merda. Avete voglia di ascoltarmi? Bene. C'è spazio. Questa è la mia vita, questa è la mia storia.
[Levi POV]
Dal cap. 15:
Eravamo solo io e lui, io ed Erwin, in quella stanza scura – sì, sono tornato sui miei passi. Mi guardava, gli occhi fissi nei miei, c’era qualcosa sul tavolo… Carte, o qualche altra cazzata, documenti. Non me ne sbatteva una mazza; feci solo caso al suo completo grigio scuro con la cravatta color perla che faceva davvero schifo e molto matrimonio cattolico, al suo pomo d’Adamo che sobbalzava troppo e allo sguardo che non smetteva di essere fisso.
“Levi, possiamo fare un patto.”
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Irvin Smith, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Avevo un gran bisogno di AU, una in particolare con contenuti angstosi (?) stemperati qua e là da un po' di momenti pseudo-comici. Purtroppo non sono un asso nelle introduzioni, quindi vogliate scusarmi. 
Vi avviso: tematiche forti e delicate in ogni capitolo. Più l'aggiunta di linguaggio scurrile, essendo narrata dal punto di vista di Levi.


 



Sono sempre stato un fottutissimo pezzo di pigro e quella sera davvero non facevo eccezione, visto che me stavo bello spalmato sul divano come una merda di cane spiaccicata sul marciapiede. E infatti mi sentivo abbastanza di merda, e capitava spesso, ma sembrava essere una specie di conseguenza del mio essere al mondo fin da quando misi fuori la testa dalla vagina lurida di mia madre: incazzato con tutto e tutti, a volte troppo stufo di tutto e tutti, e quindi schifosamente pigro.
I momenti di pigrizia mi prendevano sempre la sera quando me ne tornavo a casa da quella scuola puzzolente in cui lavavo i cessi sporchi di piscio di adolescenti e i pavimenti ricoperti dello schifo delle loro suole infangate, perché evidentemente insegnare ai propri figli che sfregare i piedi sullo zerbino era buona educazione era troppo faticoso per questi genitori moderni, ma che bisogno c’era d’altronde? Qualcuno sottopagato per lavare il culo e lo sporco di quei mocciosi ci sarebbe sempre stato, e guarda caso, quello ero io. Avevo una gran voglia di vomitare quando passavo lo spazzolone, ma alla fine della giornata ero soddisfatto perché avevo pulito (e occasionalmente spaventato qualche ragazzino che rimaneva a scuola a fare il pomeriggio. Dio, la soddisfazione che mi davano le loro faccette pustolose ed impaurite). Ah, non nego che a qualcuno avrei tirato una bella mazzata di spazzolone in testa (specialmente a un certo Jaeger o al suo amico Kirtchcoso, quando litigavano per la mezza cinesina), o una spruzzata di anticalcare negli occhi (e quella ci stava tutta in mezzo agli occhi del preside Pixis, quando lasciava la sua scrivania appiccicaticcia per via del rum. Sì, lasciamo perdere), ma via – non ero così sadico, e ‘sti giovanotti davvero non avevano alcuna colpa dei miei problemi esistenziali.
Mi rotolai un poco sul fianco e grugnii. Una tastiera elettronica e qualche colpo di batteria risuonò dalla cucina e fu presto seguito dalla voce stridula di Jake Shears che mi causava tremiti lungo la spina dorsale come tante unghie grattate sulla lavagna. Avevo impostato quella suoneria, I Don’t Feel Like Dancin’, per qualcuno in particolare a cui non si addiceva per nulla, e avreste dovuto vedere la sua faccia quando una volta non riuscivo a trovare il cellulare e gli chiesi di comporre il numero per riuscire a ritrovarlo ad orecchio. I suoi occhi azzurri si erano allargati in una maniera che non avrei mai ritenuto possibile e la sua bocca si era ridotta ad una fessura basita.
Lasciai che Shearsh continuasse a cantare per un po’, poi tutto tacque ed io distesi le gambe, soddisfatto di nuovo. Ero consapevole che avrebbe richiamato presto, forse nel giro di due minuti o forse di una mezz’ora, ma l’avrebbe fatto. La cosa divertente era che questo giochetto lo facevo davvero tutte le volte che chiamava, e anche se ogni volta avevo una stupidissima scusa diversa per non rispondere, ad ogni fottutissima occasione lui ci cascava. O faceva finta di cascarci? Nah, alla fine credo che facesse finta di credermi, d’altronde nel suo mestiere o lasci correre le stranezze dei tuoi ‘clienti’, o ti fai venire un fegato grosso così, per non parlare dei coglioni. Mi piaceva avere controllo sugli altri, ‘sta mania proprio non mi abbandonava, non che io facessi molto per ‘guarire’ dal momento che adoravo lasciare gli altri a pendere dalle mie labbra.
Stavo per appisolarmi ma ecco di nuovo Shearsh che richiamava la mia attenzione. Con una pigrizia oscena, mi misi a sedere e trascinai i miei passi stufi fino alla cucina pulita e spoglia. Presi il telefono. “Hm?”
“Ah, buonasera, Levi” quella sua voce calma era tipo miele al telefono, figurarsi dal vivo. Mi accomodai a sedere sul tavolo e dondolai i piedi con fare annoiato.
“Che vuoi?” non ero scocciato e lo sapeva, era solo il mio modo.
“Mi trovo in quartiere, sto facendo un paio di controlli su alcune famiglie della zona. Ti trovo a casa?”
L’idea che fosse vicino mi elettrizzava, in un certo senso. Giocavo col coperchio di carta di un astuccio di sigarette mentre gli parlavo. “Hmm, ma non dovevi visitarmi la settimana prossima?”
Lui rispose prontamente – che odio, non si scomponeva mai. Mai. “Certo, ma sono in zona; mi sembra giusto approfittare. Implicito che, se sei impegnato, rispetterò il mio solito programma.”
Lanciai un’occhiata all’orologio appeso al muro vicino alla finestra. Erano le otto e mezza di sera, e per quel che ne sapevo lui attaccava a lavorare alle nove del mattino, straordinari non pagati essendo un dipendente pubblico, uno di quelli della più bassa categoria: l’assistente sociale. “Hai già cenato?”
“No, a dire il vero ho saltato anche il pranz-“
Non lo lasciai terminare la frase. “Ti va bene della pizza surgelata?”
Ah, stavolta non rispose subito. Lo avevo messo a tacere, splendido; mi piacque così tanto quella sensazione che arrotolai le dita di un piede e mi concessi un sorrisino, tanto non poteva vedermi.
“Non so se è il caso…”era calmo di nuovo, però quella piccola nota di insicurezza non mi sfuggì, povero piccolo il mio assistente sociale. Non si fraternizza coi ‘clienti’, non è vero?
“Ti va bene o no?”
Lo udii sospirare. “Sì, va bene.”
“Hm. Allora ti aspetto” e buttai giù la conversazione, per precipitarmi dal freezer e tirare fuori il blocco marmoreo della pizza ghiacciata. Ora, dovete sapere che non mangiavo quasi mai a tavola. Di solito mi prendevo un piatto di plastica, ci schiaffavo sopra del tonno, o qualcosa del genere e mi sedevo sul divano a mangiare così. Chi li aveva i soldi per pagarsi l’acqua per lavare i piatti? Io no di certo, con la miseria che guadagnavo. Preferivo conservare l’acqua per lavare me e i pavimenti. Era stato Erwin, l’assistente sociale, che aveva combattuto una strenua battaglia legale per fare in modo che la misera casa in cui vivevo fosse pagata con sussidi statali; avevamo vinto, ma io non mi ero mostrato molto grato. Alla fine avevo sempre pensato che mi fosse tutto dovuto. Ero nato sfigato: che il mondo si prendesse cura di me per quel che può, che io non c’ho i mezzi, mi dicevo. Il resto non m’importava.
 Misi la pizza nel microonde e aspettai, mentre – incredibilmente - apparecchiavo con veri piatti, bicchieri e posate. Non mi chiesi perché, lo feci e basta. Le persone che si facevano troppe domande mi avevano sempre urtato, visto che io avevo la tendenza a seguire i miei istinti. Avevo voglia di apparecchiare per l’assistente sociale? Avrei apparecchiato per l’assistente sociale. Avevo voglia di scaccolarmi il naso? No, mai, perché mi fa schifo.
Erwin non ci mise molto a muovere il suo bel culo per arrivare a casa mia, quando suonarono il campanello sapevo che era lui (al massimo potevano essere Auruo e gli altri, ma non mi venivano a trovare quasi mai  a casa. Specie Auruo, che quando parlava e camminava per casa aveva il brutto vizio di mordersi la lingua a sangue, ed io odiavo pulire il sangue altrui). Però aspettai ancora una volta. Dovevo farlo aspettare. E presi il mio tempo per tirare fuori la pizza calda dal microonde, tagliarla e impiattarla. Solo quando finii tutto ciò, Erwin suonò di nuovo e riuscii davvero ad immaginarmelo nell’atrio del condominio squallido, con la sua faccia imperturbabile mentre premeva di nuovo il bottone, per nulla impressionato.
Gli aprii la porta e mi sedetti a tavola, iniziando a tagliare il mio trancio. Io ci provavo a dargli fastidio, a causargli qualche reazione, ma non ottenevo niente; doveva essere sempre così lui, perfetto e compassato, imperturbabile e metodico. Un po’ mi stava sul cazzo quando faceva così. Cioè sempre.
Dal mio posto in cucina lo vidi comparire nell’ingresso sciogliendosi in un quieto “Permesso…”. Pure con undici ore di lavoro sul groppone, quel maledetto sembrava solido come una roccia, bello come una star di Hollywood, ma più umano visto che teneva le spalle appena curve per la fatica della giornata ed i suoi denti, anche se puliti, non erano candeggiati. E sì, mi dava anche fastidio che se ne stesse lì nell’ingresso di casa mia come una specie di apparizione mentre si toglieva la giacca grigia, a volte quell’uomo non mi sembrava reale. Era attraente e da una parte me ne compiacevo, dall’altra mi irritava terribilmente. Sapete cosa? Lo avrei sbattuto a calci sul mio divano cigolante e mi sarei davvero goduto ogni singolo cigolio mentre lo cavalcavo. Mi ci ero masturbato spesso su quest’immagine. E non fate quelle facce. È tardi per fare i benpensanti lagnosi e bigotti; pure adesso che era stanco, con le ascelle pezzate (che schifo) e la cravatta storta me lo sarei fatto senza pensarci due volte. Spargeva testosterone come un fiore in primavera elargiva polline, eppure era sempre tutto riservato e dignitoso come uno scolaretto (ma perché gli studenti della scuola non potevano essere come lui, Cristo? E non parlo dell’aspetto, visto che a venticinque anni suonati non voglio considerarmi un deviato). Non sapevo niente di quanto scopasse, di come lo facesse, e volevo saperlo; soprattutto volevo sapere se aveva altre donne o altri uomini: nella mia fantasia, Erwin aveva una fidanzata e io davo della troia a quella donna senza volto. Sì, non avrei dovuto, e non è politically correct – ma me ne sbatto del politically correct, sinceramente. E poi l’immagine di lui che faceva sesso con me al posto della sua fidanzata mi eccitava da morire.
Comunque fosse non mi ero mai azzardato a tentare un approccio con ‘sto benedetto uomo, era una di quelle persone che stanno bene solo nella sfera delle tue fantasie ormonali e basta. Anche perché non aveva senso, considerato che… Bah, per lui fraternizzare con i suoi ‘utenti del servizio sociale’ era tipo una roba demoniaca, si vedeva dal modo in cui si stava avvicinando al tavolo con quell’aria vagamente pentita e a disagio; poi, detta come va detta, mi sembrava una di quelle persone noiose tutte romanticismo e cenette al ristorante, corteggiamento e parole gentili. A me non poteva fregar di meno di tutte ‘ste cazzate, dal momento che non facevano per me e lui mi attraeva solo dal pube in giù.
“Ti sei messo a cagare per strada?” gli chiesi, roteando la forchetta prima di addentare il boccone.
Lui sorrise, un sorriso un po’ stanco, e si sedette. “Sì, cioé – no, scusa per il ritardo. Mi sono dovuto fermare dagli Yorke.”
“Quelli con la figlia mulatta? La lesbicona?” ancora una volta, era ancora il mio modo di parlare. Quel che uno faceva a letto non era affar mio, dal momento che io stesso avevo una gran voglia di sbattermi l’uomo di fronte a me.
Comunque ricevetti un’occhiata vagamente accusatoria da Erwin, che corrucciò la fronte mentre tagliava il suo trancio, rigorosamente coi gomiti oltre il bordo del tavolo. Si sa mai che si rilassasse un po’ e come me mangiasse con i gomiti sul piano. “Levi…”
“Hm?”
“Comunque, sì. Sono dovuto passare dagli Yorke dato che c’è stata un’emergenza con Ymir” teneva gli occhi bassi sul suo piatto mentre mi parlava e si vedeva che aveva la testa ancora là.
Bevvi un sorso di Coca. “Tipo?”
“Ha picchiato la madre” disse. Sentii come quelle cose ormai non gli facevano più alcun effetto, almeno in superficie. “E spaccato svariati oggetti in casa, poi è scappata.”
“Oh.”
“Già.”
“Non accetta d’essere stata adottata, eh? Mocciosa irriconoscente, poteva rimanere a marcire in un orfanotrofio del cazzo o in casa della madre tossica, e manco t’ha ringraziato” dissi, ma neanche io l’avevo fatto quando si era fatto un culo così per far sì che lo Stato pagasse il mio affitto.
Lui fece spallucce e continuò a mangiare. “Sta attraversando un’età difficile” bevve un sorso d’acqua prima di continuare, “E a scuola non se la passa tanto meglio.”
“Ho sentito dire che gliene stanno facendo passare di ogni perché è lesbica e mulatta.”
“Precisamente.”
“Peccato che non faccio il turno di mattina, altrimenti avrei già perso il conto di quanti spazzoloni avrei ficcato su per il culo di tutti quei cretini” anch’io continuai a mangiare, dispiacendomi sinceramente di non fare il turno di giorno. Certi bastardi avevano solo bisogno di un paio di botte, era così che si cresceva, coi pugni in bocca che ti ricacciavano la merda su per lo sfintere, che in certi individui corrispondeva alla bocca.
Erwin non diceva niente, continuava a mangiare in silenzio con gli occhi bassi. Quindi cercai di pizzicarlo un po’. “Senti, ma perché me le dici ‘ste cose? Non sono informazioni riservate, o roba di ‘sto tipo?”
Allora mi guardò ed accennò un sorriso. “Domani lo saprà tutta la scuola, quindi almeno hai delle informazioni attendibili e di prima scelta.”
“Ahhhh, giusto. Non stai facendo una confidenza.”
Lui scosse il capo. “Assolutamente no” e mangiò l’ultimo boccone. Lo scrutai un momento mentre ripuliva il piatto da un paio di olive solitarie e mi accorsi di un dettaglio interessante; era circa da un mesetto che Erwin non veniva a controllare casa mia (a seconda del periodo, potevano passare settimane come pochi giorni, tutto dipendeva dai protocolli d’ufficio) e certe cose in un mese si notano. Bene, aveva i capelli più sottili del solito. Me li ricordavo belli sani, lustri e pettinati; a vederlo da più vicino e con più attenzione, mi accorsi che erano opachi, secchi e fragili.
“Che hai fatto con lo shampoo? Ti lavi col piscio?”
“Eh?” Lui sollevò il capo e dalla sua faccia mi accorsi che non sapeva di che stessi parlando. Si toccò la nuca e fece come per guardarsi alle spalle. “Ho i capelli sporchi?”
“No, sono sciupati come se li avessi lavati con acqua, sale e aceto” mi alzai e presi il suo piatto, per mettere tutto nel lavandino.
“In effetti… Sai, non me n’ero accorto.”
“Con quanto lavori, non mi stupirei se un giorno non ti si alzasse più e non te ne accorgessi nemmeno” era una battuta, ma Erwin avvampò, sembrava un ridicolo semaforo con un’espressione imbarazzata di puro contegno.
“C’è bisogno di me a lavoro, ecco tutto” aveva sempre la risposta pronta e gli avrei riempito la lingua di schiaffi ad ogni frase fatta che trovava per liquidare le situazioni; mi dava al cazzo, visto che non si accorgeva di essere umano e di avere bisogno di starsene a letto a dormire come tutti. Non avevo idea di che diamine facesse la sera, ma davvero non avrei fatto ‘ohhh non me lo sarei aspettato’ a sapere che passava la notte a compilare carte su carte, a rivedere fascicoli su fascicoli.
Chissà se il mio lo guardava, ogni tanto.
“Vabbé, lo vuoi il caffè?”
“Sì, grazie, volentieri” mi disse, ma il suo cellulare squillò. Una suoneria di quelle da vecchi, la ‘Nostalgic’, quella col telefono anni ’50 che suona come un pirla. Lo guardai prima di alzare un dito per prendere la macchinetta, Dio, se era il lavoro, mi sarei incazzato a bestia. Lo scatto della sua mano mi fece credere che lui voleva che lo fosse. Era troppo preoccupato per quella ragazza, io la conoscevo, e vedevo che era una tosta, che invece di prenderle le dava, e che non si sarebbe fatta infinocchiare facilmente. Ma lui, beh, lui doveva fare il Nazzareno della situazione, andare a raccogliere la gente dalle strade ed aiutarla tendendo le mani guaritrici sopra le loro teste. Ero sicuro che ogni vita che non riusciva a rimettere insieme era presa da lui come un fallimento personale. Mi faceva pena, ma boh, lo ammiravo allo stesso tempo.
“E’ la Polizia… Scusa” mi disse e si alzò di scatto, “Ma devo andare. Ho chiesto loro di chiamarmi se avessero trovato Ymir. Devo correre-“ fece una pausa e mi sorprese, perché si sporse verso di me, allungando appena la mano per toccarmi, poi la ritirò e finse di fare un ampio movimento per sistemarsi la manica della camicia. “Ci vediamo” fece, trafelato, e corse a prendere la giacca nell’ingresso.
“Seh, vabbé.” Nemmeno lo salutai, da tanto ero scocciato.
Mi rivolse un’occhiata, un’occhiata da cane bastonato, mi chiese scusa con lo sguardo (e io non avrei accettato le sue scuse) mentre rispondeva al telefono. “Pronto? Sì, sì” aprì la porta di casa mia con l’indice mentre si infilava goffamente la giacca col braccio libero, “Sono l’assistente sociale Smith, sì, senta, per Ymir…” poi la sua voce sfumò sulle scale, e più si allontanava, più io mi incazzavo.
Se avessi saputo che si sarebbe fermato così poco, non avrei tirato fuori quei cazzo di piatti di ceramica.

   
 
Leggi le 10 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: GuessWhat