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Autore: MJJ4Ever    11/08/2013    1 recensioni
Un viaggio attraverso i ricordi di Paul, che racconta la sua storia d'amore con Michelle durante la sua infanzia, il suo periodo con i Beatles e anche dopo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Paul McCartney
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SPAZIO AUTRICE: Eccomi tornata!! Ci è voluto un bel po' prima di pubblicare un nuovo capitolo, ma purtroppo ero entrata in uno stato di totale mancanza di ispirazione e non riuscivo mai a scrivere niente di decente. Infatti! Non sono particolarmente soddisfatta della prima parte del capitolo che continuavo a cambiare, cancellare, allungare, accorciare, eliminare, riaggiungere ecc ecc. fino a che non mi sono arresa e l'ho tenuto così come è capitato ahahah preferisco, invece, di gran lunga la seconda parte che ho scritto tutta di getto grazie ad un'improvvisa onda di ispirazione che mi ha colpita ieri notte ahahah Spero che vi piaccia, è molto più lungo rispetto ai miei soliti capitoli ma, beh ... siamo nel vivo della storia! Paul, in preda ad un amore folle, si ritrova a dover affrontare i suoi sentimenti sempre più confusi ... ma per noi sempre più chiari! Eheh ;DBuona Lettura!



 Eravamo entrati in un nuovo decennio, finalmente: i fantastici anni ’60!
Sono talmente tante le cose che successero in quel periodo, belle e brutte. Ma soprattutto belle, o almeno per me. Tanto per cominciare, c’erano stati diversi cambiamenti nel gruppo. Ne avevamo cambiati di membri in quei pochi anni: gente che entrava e gente che usciva. Alla fine parve che la situazione si fosse stabilizzata con l’entrata nel gruppo di Pete Best e Stuart Sutcliff.
John ormai frequentava il college e studiava arte. Era proprio al college che aveva conosciuto Stuart e con lui aveva talmente un bel rapporto, che andarono a vivere insieme. A me non piaceva affatto. Non ero geloso o cose del genere, per carità! Ma quel “Stu”, come lo chiamavamo noi, non sapeva affatto suonare il basso; John lo aveva fatto entrare nella band solo perché era suo amico. Diverse volte avevo provato a far ragionare John, ma lui non mi dava mai ascolto, così dovetti cedere.  
Con Pete fu meno drammatico. Ci serviva un batterista e lui faceva al caso nostro. Così lo facemmo entrare senza troppi problemi. Un tipo molto silenzioso, ma tranquillo devo dire.
Il cambiamento seguente riguardò il nostro nome.
Ne cambiammo davvero moltissimi nel corso del tempo e ci volle un po’ prima di arrivare alla decisione finale di chiamarci Beatles, con la famosa A. Quello era un nome che ci piaceva, così lo tenemmo  e finalmente potevamo considerarci una vera band.

Ma la cosa più importante per me, in quell’anno, fu sicuramente il mio compleanno. Già, perché nel 1960 avrei finalmente compiuto i miei diciotto anni e avrei raggiunto la tanto attesa maggiore età. Ogni essere umano aspetta con trepidante attesa quel momento glorioso, e il mio turno era finalmente arrivato.
La mattina del 18 Giugno, giorno fatidico, mi svegliai pensando a mia madre. Erano pensieri allegri di quando ero piccolo mischiati all’amarezza di non poter vedere il suo sguardo fiero su di me, quel giorno. Lei, nei momenti in cui la malattia non le aveva tolto ancora la forza di parlare, chiamava me e Michael e ci diceva quanto le sarebbe piaciuto vederci crescere, sposarci, trovarci un lavoro, voleva conoscere i suoi nipoti … Avrebbe fatto tante di quelle cose. Non lo trovavo affatto giusto.
Sospirai e cercai di concentrarmi solo su cose positive. Era un grande giorno per me, non potevo di certo soffermarmi su quel pensiero tristissimo. Quando arrivai in cucina, trovai mio padre ad aspettarmi quasi emozionato. Si avvicinò lentamente e mi abbracciò. Non era un abbraccio uguale a tutti gli altri che avevo ricevuto. Era un abbraccio commosso, serio … ma toccante.

“Tanti auguri Paul, questo è un giorno importante per te. Tua madre sarebbe fiera di te, oggi, così come lo sono io.”
Quell’uomo era eccezionale. Non credo di aver mai conosciuto nessuno come lui. Lo ammiravo in una maniera indescrivibile.

 “Grazie papà.”

Non dissi altro, ma non penso che servissero molte parole.  
Evidentemente gli altri la pensavano allo stesso modo: infatti quella mattina fu una colazione molto silenziosa, neanche Michael, che in genere era sempre molto allegro, parlava. Credevo che avremmo passato così tutta la mattina, ma per fortuna bussarono alla porta. Fu una fortuna che andai ad aprire io, perché ad attendermi all’uscio c’eri proprio tu. Mi guardavi con gli occhi raggianti, non credevo che potessi ancora riservarmi uno sguardo del genere e un po’ mi sentii in colpa.
“Tantissimi auguri Paul! Com’è essere maggiorenni?”
Mi dicesti abbracciandomi. Tenerti così stretta dopo tanto tempo era una sensazione davvero strana:  era triste, emozionante, nostalgico … in quell’abbraccio c’era praticamente tutto.
“Beh, non lo so … mi sento come prima. Non è cambiato niente, per ora.”
Era stranissimo per me pensare che io ero ufficialmente entrato nel mondo degli adulti mentre tu dovevi ancora frequentare la terza media. “Vieni dai, entra dentro.” Mi spostai per farti strada e mi si riempì il cuore di gioia vedendo con quanta allegria corresti dentro, come se non stessi aspettando altro. E forse neanche io aspettavo altro. Vederti in casa mia mi riportava indietro a quando eravamo piccoli e giocavamo insieme preoccupandoci solo di divertirci.
“Allora, hai intenzione di festeggiare?” mi chiedesti sedendoti sul divano.
Io ti risposi che molto probabilmente mi sarei incontrato con gli altri del gruppo e avrei passato la serata con loro. Dal tuo sguardo capii benissimo che ti aspettavi una risposta del genere e forse ti sarebbe piaciuto stare con me in un dei giorni più importanti della mia vita. Avremmo dovuto raggiungere tanti di quei traguardi insieme. Anche a me avrebbe fatto piacere stare con te il giorno dei miei diciotto anni, ma di certo non ti avrei portato in mezzo ad una mandria di ragazzi dagli ormoni a mille che non vedevano l’ora di trovare vittime su cui mettere le grinfie. Ok, non era una bella descrizione per i miei compagni di gruppo, ma era quello che pensavo. Così decisi che la cosa migliore era tenerti lontana da loro.
Mi sedetti accanto a te, “ Perché non facciamo che domani io e te, con le nostre famiglie, ce ne andiamo in un ristorante e ceniamo tutti insieme? Ti piace come idea?”
L’idea mi venne sul momento e te la proposi quasi senza pensarci. Tu ovviamente accettasti. Ma molto probabilmente avresti fatto meglio a rifiutare, dato che quella serata successe qualcosa che non dimenticheremo mai entrambi.

Quella sera mi incontrai con John e gli altri. Fu divertente: bevemmo e scherzammo tutta la sera. Non ero il tipo che si comportava spesso in quel modo, ubriacandosi come una spugna e facendo l’idiota in mezzo alla strada, ma era anche bello lasciarsi andare.
Ma poi bisognava fare i conti con i postumi.
La mattina dopo, infatti, mi risvegliai sul mio letto. Non sapevo come ci ero arrivato e non volevo saperlo. Ma la cosa che mi preoccupava di più era accertarmi che mio padre non mi avesse visto.  Non so come avrebbe reagito se mi avesse visto tornare a casa ubriaco marcio con l’alito pesante e i vestiti tutti scombinati. Non era da me. Per non parlare dell’incredibile mal di testa che mi tormentava!
Nonostante tutto cercai di darmi un contegno e andai a fare colazione.
Quella mattina erano tutti molto più allegri, forse era per via della festa organizzata per quella sera. Mio padre non disse niente riguardo al mio strano mal di testa, ma sospetto che avesse capito bene che non avevo passato una serata molto tranquilla. Dopo pillole su pillole e dormite su dormite, riuscii a riprendermi ed ebbi giusto il tempo di una doccia prima di passare ai preparativi.

Cercai di essere il più elegante possibile, quella sera. Mi misi una camicia bianca, giacca nera, capelli ben pettinati. Se la sera prima mi ero dato alla pazza gioia, quella volta volevo sembrare cresciuto e maturo. Non so perché, ma mi piaceva l’idea. Poi, il fatto che avremmo cenato sul fiume Mersey, mi dava ancora di più l’idea di un evento formale e importante. Quindi diedi il meglio di me.
Venni a bussare alla porta di casa tua quasi correndo, nonostante fossero pochissimi i metri che ci separavano. Voi eravate già pronti e tu eri davvero carinissima quella sera. Non “bella”, “attraente” … semplicemente “carina”, così come si addice ad una tredicenne.  

Speravo che avremmo passato tutta la serata a chiacchierare e divertirci raccontando le cose imbarazzanti fatte da piccoli … e invece i miei piani furono totalmente stravolti. Al ristorante stavamo passando una bellissima serata, mi divertivo a prendere in giro Michael … quando il mio sguardo cadde poco lontano e vidi lei.
C’era una ragazza ferma in piedi poco lontano insieme ad un gruppetto di amiche. Mi stava guardando e, appena il mio sguardo si incrociò al suo, lei lo abbassò imbarazzata.

Credo che me ne innamorai all’istante.

Ne avevo conosciute di ragazze e di certo lei non era una delle più belle, ma c’era qualcosa  nel suo sguardo, nel suo sorriso … che mi aveva rapito all’stante. Tu eri seduta di fronte a me, l’avevi notato sicuramente che stavo fissando quella ragazza e non riesco a immaginare come tu possa averla presa. Ma in quel momento il mio unico pensiero era lei.
Michael ad un tratto mi chiese cosa stessi facendo e solo allora mi resi contro che mi ero alzato all’in piedi.
Ancora mezzo imbambolato risposi “Vado … Vado a fumare una sigaretta.”
Tu lo sapevi, Michelle. Sapevi bene che il mio intento era quello di conoscere quella ragazza e magari mi avevi preso per un malato. Ma io te lo assicuro, Michelle, ti giuro che quella volta lo facevo per amore e non per divertimento. Per la prima volta mi sentivo innamorato. Ma era davvero la prima volta? 
Mi allontanai abbastanza dal tavolo continuando a fissare quella ragazza. Le feci capire che volevo parlarle e lei si avvicinò quasi subito. Si chiamava Dorothy, e in quel momento mi parve il nome più bello che avessi mai sentito in vita mia. Cercai di fumare quella sigaretta nel modo più lento possibile, perché la nostra conversazione si sarebbe interrotta quando l’avrei finita, per questo sperai che quel momento non arrivasse mai. Le chiesi subito di poterci rivedere e lei, come se non stesse aspettando altro, mi rispose che ne sarebbe stata felice. Era incredibile sentire qualcosa di così forte per una ragazza conosciuta da pochi minuti, ma ero già totalmente pazzo di lei. Mi parlava dicendomi che mi aveva visto e si sentiva in imbarazzo per essersi messa a fissarmi in quel modo, che era la prima volta che le capitava una cosa del genere e che era felice che le avessi rivolto la parola. Intanto io … Beh, io non facevo che osservarla. Mi piacevano le sue labbra. Mi attraeva il modo in cui le muoveva, scandendo bene ogni singola lettera che pronunciava, o quando metteva la lingua in mezzo ai denti come se la stesse mordendo. Mi faceva sciogliere e, se avessi potuto, giuro che l’avrei baciata all’istante. Ma, purtroppo per noi, la mia sigaretta finì, e così anche il nostro tempo a disposizione. Salutai la mia bellissima Dorothy con un baciamano (come ci si aspetta da un perfetto Don Giovanni quale ero) e le promisi che presto mi sarei fatto trovare davanti casa sua per uscire insieme. Ci salutammo e ognuno andò per la sua strada.

Quando tornai al tavolo, mi sentivo centomila volte più imbambolato di quanto non fossi stato prima di parlarle.
“Ah eccoti Paul!” mi disse mio padre. Poi si rivolse ai tuoi genitori, “Non avrei mai voluto procedere al dolce senza il festeggiato!”
Era fin troppo allegro e, secondo me, aveva esagerato con il vino (anche lui se le concedeva certe cose!). Io gli accordai il permesso di procedere ma, a dire il vero, mi si era completamente chiuso lo stomaco. Continuavo a fissare il punto poco lontano in cui io e Dorothy avevamo parlato e non riuscivo a smettere di sorridere. L’unica cosa che mi distrasse, in quel momento, fu la tua voce che, come se fosse stato uno spillo, aveva fatto scoppiare la bolla in cui mi trovavo riportandomi con i piedi per terra.

“Io non lo prendo il dolce … Non mi sento bene, vorrei tornare a casa.”

Tenevi lo sguardo basso e non davi spiegazioni vere e proprie alle domande dei tuoi genitori che ti chiedevano cosa sentissi. Semplicemente ripetevi che non stavi bene. Cercavo di capire cosa stessi provando, cos’era che avevi. Ma il dolore che leggevo sul tuo viso era indecifrabile per me. Ero accecato dall’amore? Può darsi. Ma non mi aveva sfiorato il cervello neanche per un secondo l’idea che il tuo male, in quel momento, potessi essere io.  

“La porto io a casa, non c’è problema.”

Lo dissi istintivamente, senza pensarci. Tu eri in evidente disagio, ma in quel momento era casa tua il luogo in cui volevi andare. E io avevo il dovere di renderti felice.
Tua madre cercò di convincermi a restare dicendo che quella era la mia festa di compleanno e non sarebbe stato giusto nei miei stessi confronti concluderla in quel modo. Tu concordavi con lei e mi dicevi che non era necessario ma, al diavolo la festa, mi alzai e ti presi per mano.

“Ho detto che non è un problema, davvero! E poi, neanche io avevo voglia del dolce.”

Tu sospirasti e mi seguisti.
Per un tratto di strada non ci parlammo. Io camminavo leggermente avanti con le mani in tasca e continuavo a pensare all’incontro di pochi minuti prima.

“Scusa Paul, per colpa mia hai dovuto lasciare così la festa …”

Avevi la voce talmente bassa, che pareva un bisbiglio. Io mi fermai e ti guardai. Avevi uno sguardo che non avevo mai visto prima d’ora. Pareva così triste, così deluso. E io come un sciocco non capivo quale fosse il problema.

“Non preoccuparti, te l’ho detto: non lo volevo il dolce.” Ti sorrisi come per rassicurarti e ripresi a camminare, ma tu non mi venisti dietro. Eri rimasta ferma e, senza cambiare espressione, dicesti:
“Sai, ti ho visto parlare con quella ragazza, prima.”

Il mio cuore ebbe un sussulto. Già, avevo parlato con Dorothy e ancora non me n’ero ripreso completamente.

“Ah … si, Dorothy. Lei è … E’ una mia amica.”

Non so esattamente perché ti dissi quella bugia. Forse non volevo che mi prendessi per un maniaco che ci prova con la prima su cui posa lo sguardo, forse non volevo deluderti più di quanto non avessi già fatto in tutto quel tempo, forse ti consideravo troppo piccola per capire cosa fosse un “colpo di fulmine” … Ma non volevo rovinare quell’immagine perfetta che ti eri fatta di me.
Anche se forse, quell’immagine, l’avevo già distrutta da tempo.

“E’ davvero una bella ragazza, sai?”

Allora non me ne accorsi ma, ripensandoci adesso, non c’era molta convinzione in quella frase.

“Si … Lo penso anche io.”

Tu non andasti più avanti e riabbassasti lo sguardo come se quello che temevi si fosse realizzato. Maledetto sia il mio cervello idiota che mi fece rispondere in quel modo.

“Tu piuttosto come ti senti?”

Mi rispondesti facendo una smorfia e alzando le spalle. Io annuii e ripresi a camminare. Sta volta sentivo i tuoi passi dietro di me: voleva dire che non avevi più niente da dirmi. Potevo lasciarmi sfuggire un’occasione simile?

“Michelle, te la senti di venire un attimo con me, prima di tornare a casa?”

Avevi un’aria al quanto confusa e indecisa … E come biasimarti? Ma non potevo continuare a vederti così fredda nei miei confronti. Mi sentivo troppo in colpa.

“Penso che dovremmo parlare di una cosa …”

I tuoi occhi, appena mi sentisti pronunciare quelle parole, si spalancarono all’istante e mi guardasti con sorpresa e preoccupazione.

“Io direi che … Va bene, credo … Se ne hai voglia.”

Io ti sorrisi e ti presi per mano. La tenevo stretta, ma tu di certo non facevi lo stesso con la mia. Si vedeva lontano un miglio che eri preoccupata. Magari ti stavo mettendo sotto pressione, ma a quanto pare da questo punto di vista non ero così cresciuto da capirlo.
Dopo  essere arrivati in un posto tranquillo poco lontano, ci sedemmo su una panchina e iniziai a formulare il discorso in mente.

“Di cosa mi volevi parlare, Paul?”
“Di noi due.”

Risposi così su due piedi accrescendo il tuo stato di agitazione.

“Di noi due … In che senso?”
“Vorrei chiederti scusa, insomma … Ammetto che non mi sono comportato bene con te negli ultimi … Anni.”

Parlando, ti vidi abbassare di nuovo lo sguardo. Eri triste. Nient’altro, eri triste.

“Non capisco a cosa ti riferisci …”
“Beh quando eravamo piccoli andavamo d’accordo, stavamo sempre insieme! Ora invece … a stento parliamo.”
“Si, mi pare ovvio. Tu sei più grande di me, abbiamo amicizie diverse, scuole diverse … Poi tu adesso suoni anche in un gruppo e la maggior parte del tempo la passi a provare. Poi solo perché siamo vicini di casa, non significa che dobbiamo stare sempre insieme, ti pare?”

Era come se stessi cercando di giustificarmi. Volevi giustificarmi con argomentazioni in cui non credevi neanche tu e si capiva dal tono freddo di voce con cui ne parlavi.

“Vorrei solo essere un amico per te.”

Non mi resi neanche conto di quando potesse farti male quell’affermazione. Io la vedevo come una cosa innocente, ma non l’avevo interpretata come l’avevi fatto tu.
Un amico. Ecco cosa volevo essere per te: un amico!
In quel momento, il tuo cuore che si spezzava poteva essere sentito da chilometri di distanza. Solo io ero l’unico sordo imbecille che non lo sentiva. Ed ero pure cieco perché ignorai completamente i tuoi occhi lucidi che, come era capitato a me, stavano maledicendo i nostri cinque anni di differenza che ci separavano in quel modo.

“Lo sei … Ora andiamo a casa, ti prego.”

Senza darmi il tempo di rispondere, ti alzasti e ti avviasti in direzione delle nostre case. Mi alzai anche io e ti seguii. Questa volta eri tu a camminare avanti e potetti vedere tutto il male che ti stavo facendo nel modo in cui avanzavi: stretta nelle spalle, con la testa inclinata in avanti che fissava la strada. Non oso immaginare quante lacrime ti stessero bagnando il viso in quel momento. Quanto stessi lottando per trattenere i singhiozzi e non farmi capire che soffrivi per me.
Mi prenderei a schiaffi da solo, lo giuro.
Rivedo nella mente la mia faccia da sciocco che si chiedeva quale fosse il problema e mi urlerei che il problema ero proprio io! Ma no, io ero troppo un bel visino per far soffrire una ragazza! Ero troppo sicuro di me per poterlo anche solo sospettare.

E lo sai qual è la cosa peggiore, Michelle?
 
Quella sera, dopo che chiudesti la porta di casa dietro di te senza esserti voltata neanche per salutarmi … Io me ne andai dritto da Dorothy.
  
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