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Autore: Aching heart    11/08/2013    2 recensioni
"Malefica non sa nulla dell'amore, della gentilezza, della gioia di aiutare il prossimo. Sapete, a volte penso che in fondo non sia molto felice." [citazione dal film Disney "La Bella Addormentata nel Bosco"]
Carabosse è una principessa, e ha solo dieci anni quando il cavaliere Uberto ed il figlio Stefano cambiano completamente la sua vita e quella dei suoi genitori, rubando loro il trono e relegandoli sulla Montagna Proibita. Come se non bastasse, un altro tragico evento segnerà la vita della bambina, un evento che la porterà, quattordici anni dopo, a ritornare nella sua città ed intrecciare uno strano rapporto di amore/odio con Stefano. Ma le loro strade si divideranno, portando ciascuno verso il proprio destino: Stefano a diventare re, Carabosse a diventare la strega Malefica. Da lì, la nascita della principessa Aurora sarà l'inizio del conto alla rovescia per il compimento della vendetta della strega: saranno le sue forze oscure a prevalere alla fine, o quelle "benefiche" delle sette fate madrine della principessa?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8. Fourteen years later

- Mi avete fatto chiamare, padre? – chiese un giovane di non più di ventisette anni dalla chioma corvina e dagli occhi verdi, inchinandosi davanti al trono. Sulla testa portava una corona d’argento molto fine e sottile.
- Sì. Aiutami ad alzarmi – disse Uberto.
Era invecchiato in quei quattordici anni, ma era stata soprattutto la malattia che l’aveva colpito circa cinque anni prima a debilitarlo. Del suo fisico muscoloso non era rimasto quasi nulla, ora Uberto era impastoiato in un corpo debole e grasso che a stento riconosceva come suo, e anche il suo viso recava i segni dell’invecchiamento.
Stefano si alzò e si recò di fianco al trono, afferrò saldamente un braccio del padre e cercò di tirarlo su. Il Re fece forza sul braccio del trono e riuscì a sollevarsi. Si appoggiò tranquillamente al figlio per camminare e i due scesero insieme i gradini con qualche difficoltà. Anche una semplice passeggiata era una fatica per il sovrano, che appoggiava tutto il suo peso su Stefano, giovane e vigoroso. Lui gli ricordava tanto se stesso quando era giovane, non solo per gli addestramenti, i medesimi che aveva seguito lui per diventare cavaliere, non solo per i lineamenti che aveva preso da lui, ma anche per il carattere forte e pieno di sé, sicuro, autoritario. C’era chi avrebbe potuto definire tanto il principe quanto il Re come arroganti, ma Uberto pensava che invece il loro fosse un orgoglio più che giusto, dovuto ad un potere che si erano conquistati da soli, ad una forza che li distingueva dagli altri. Che gli invidiosi avessero da ridire era perfettamente normale.
Quella forza, comunque, ora per Uberto rimaneva un connotato puramente caratteriale, perché se di forte il suo fisico non aveva più nulla ad eccezione della taglia, di certo dentro rimaneva un tiranno nato, che riusciva a spaventare i servi con un solo sguardo, che si faceva temere dai suoi nobili e da tutti coloro che gli ronzavano intorno in cerca di favori. E Stefano era proprio come lui: si faceva rispettare e temere, si comportava con la dovuta freddezza con quelli di un rango inferiore al suo, trattava i sottoposti come meritavano, affrontava con la dovuta serietà le faccende burocratiche e aveva già più volte dato prova della sua abilità nel trattare con i Regni stranieri. Continuando così sarebbe diventato uno dei più grandi sovrani che la storia avesse mai conosciuto, tanto più ora che si stava avvicinando il momento di stringere un’alleanza che avrebbe fatto tremare di paura i Re stranieri.
 Quando Uberto e Stefano furono arrivati nel piccolo giardino privato degli appartamenti del Re, quest’ultimo fece un cenno alle guardie che stavano ritte ai lati dell’arco di pietra per il quale si entrava, e queste si ritirarono lasciando padre e figlio completamente soli. I due presero a passeggiare nel labirinto formato dalle siepi, senza che Uberto avesse detto ancora una sola parola. Ma a questo rimediò non appena si furono inoltrati fra le siepi.
-Come tu ben sai, Stefano, fin dal primo giorno che diventai Re fu mia grande preoccupazione quella di trovare una moglie per te, una futura Regina tale da non farti sfigurare, il cui Regno potesse essere un vantaggio per il nostro, e fin da quando seppi della nascita della principessa Helena della nobilissima casata Harrington, sigillai un accordo matrimoniale con il Re suo padre, fra di voi. Fra poco meno di un mese la principessa compirà sedici anni, l’età giusta per il matrimonio, e quel giorno, insieme alla festa in suo onore, si terrà la festa del vostro fidanzamento.
 Stefano non disse nulla. Da quando aveva tredici anni, da quando suo padre era diventato Re, sapeva che un giorno avrebbe sposato una principessa che non conosceva minimamente – o quasi: Stefano e Uberto avevano naturalmente preso parte tutti gli anni alle feste di compleanno della principessa Helena –  solo per ampliare il proprio potere, ma a quell’età non aveva mai potuto comprendere realmente che cosa  quest’obbligo avrebbe significato. Ora sì.
-Prima di allora, la principessa con la Regina sua madre verrà qui per una settimana, così avrete la possibilità di approfondire la vostra conoscenza. Questo è un gran privilegio, un’opportunità che molti sovrani prima di te non hanno avuto, ma non vuol dire che tu possa scegliere. – Il tono di Uberto si fece più severo – Ti piaccia o no, sarà lei tua moglie. Se poi avrai qualche altro interesse particolare, nessuno ti vieta di avere un’amante. O anche di più. Come si è sempre fatto.
 Uberto scrutò suo figlio per qualche secondo, per vedere come avrebbe reagito. Visto che non rispondeva, disse in tono più conciliante: – Tutto quello che ho fatto l’ho fatto anche per te, lo sai, vero? I complotti, gli accordi, i sacrifici, tutto perché un giorno tu potessi essere Re. Ho tenuto io lo scettro quando non potevi essere tu a farlo, ho salvaguardato il tuo regno e il tuo potere, e tra poco toccherà a te regnare e fare lo stesso per tuo figlio. Io sto per andarmene, devo sapere che tu sei abbastanza forte per essere Re, qualunque sacrificio questo comporti. Lo sei? – Stefano annuì – Bene. Rientriamo, ora.
Una volta riaccompagnato suo padre nella Sala del Trono, Stefano gli chiese il permesso di uscire da solo a caccia. Il permesso gli fu accordato e, cambiatosi d’abito e prese le sue armi, il principe montò in sella al suo stallone nero e partì al galoppo verso il bosco che circondava la capitale.

***

Requiescat in pace. Era una frase che Carabosse aveva letto una volta in uno dei tomi più polverosi della biblioteca del castello; voleva dire “riposi in pace”, ma sapeva che non era quello il caso. Non di sua madre, Elsa. Lei non avrebbe mai riposato in pace, mai, finché la vendetta che aveva imbastito e sognato per anni non fosse stata portata a compimento. Forse era stato proprio quel pensiero a consumarla, a corroderla dall’interno, a portarla alla morte. In fondo era una donna giovane e sana, non che le condizioni di vita sulla Montagna Proibita fossero l’ideale, ma Elsa ne aveva passate di peggiori in gioventù, e non si sarebbe certo lasciata sconfiggere questa volta dall’indigenza, ma aveva un tarlo che le rodeva il cuore. Alla fine era quasi impazzita.
Carabosse guardò con tristezza i due cumuli di pietre, fuori dal castello. Aveva seppellito sua madre accanto a suo padre. Almeno così sarebbero stati di nuovo insieme.
Una lacrima scese silenziosa lungo la guancia già rigata della ragazza, che non sapeva se stesse piangendo per il dolore causato dal lutto o se fosse invece il vento che le frustava il volto e le faceva svolazzare i lunghi capelli castani a far lacrimare i suoi occhi. Lei non piangeva più con facilità. Gli anni trascorsi nel castello sulla Montagna Proibita con una madre quasi pazza ed estremamente esigente l’avevano temprata. Per di più, non poteva cedere ai sentimenti se doveva vendicare suo padre. Elsa l’aveva fatta crescere con quell’idea, le aveva spiegato il suo piano, non le aveva fatto avere sogno all’infuori di quello. Carabosse si era sempre domandata se fosse giusto, anche se non aveva mai osato chiederglielo. Ma d’altra parte, era giusto ciò che aveva fatto Uberto? E non era forse suo dovere realizzare le ultime volontà di sua madre? Quel chiodo fisso che era diventato anche un po’ il suo… era davvero tutto ciò che le rimaneva da fare? Uccidere un uomo e suo figlio, e poi regnare al posto loro?
No, tu sei la Regina. Era questo ciò che doveva ricordare, ed effettivamente era vero. Quindi, doveva partire. Guardò il fagotto ai suoi piedi: conteneva i vestiti più pratici, le sue cose più importanti, sebbene abbandonasse a malincuore tutti i libri della biblioteca. Non riusciva ad accettare l’idea di non tornare mai più sulla Montagna Proibita: per quanto sua madre le avesse ripetuto che doveva odiare quel luogo, che la sua vera casa era il palazzo reale, lei ci era cresciuta, lì. Aveva passato una parte importante della sua vita, per quanto infelice potesse essere. Si chiedeva cosa avrebbe potuto provare al palazzo reale, ritornando lì da sola. Ma doveva farlo.
Raccolse il fagotto, diede un ultimo saluto alle tombe dei suoi genitori, ripromettendosi che una volta finito tutto li avrebbe fatti spostare nel posto che meritavano, e si diresse verso la giumenta dal manto color cioccolato legata poco più avanti, che scalpitava leggermente. Assicurando bene le cinghie della sella e delle bisacce che contenevano le sue provviste montò sulla giumenta; l’aveva barattata con i bracconieri in cambio di due intere armature. Le sarebbero mancati i bracconieri, ormai erano diventati grandi amici, ma se c’era una cosa buona del suo piano di diventare Regina era che avrebbe avuto il potere di graziarli.
 
Dopo tre o quattro giorni di galoppo e brevi pause necessarie sia alla cavalla che alla principessa per ristorarsi, Carabosse era finalmente ritornata nei confini del suo Regno; aveva poi proceduto ad un trotto veloce per un altro giorno per dirigersi verso il castello, verso casa sua, e adesso era quasi arrivata. Si trovava nel bosco che circondava la capitale e quindi il castello, e aveva deciso di sgranchirsi le gambe e riposarsi un po’ prima di mettere in atto il suo piano, soprattutto perché non sapeva quando ne avrebbe avuto di nuovo l’occasione. Si sarebbe appostata nei pressi del castello, attenta a non farsi scoprire dalle guardie reali, e avrebbe atteso che il principe uscisse da solo per poi attirare la sua attenzione, in qualche modo. Il piano presentava una grande incognita, da quel punto di vista, ma in fondo l’aveva sempre saputo e lei e sua madre avevano studiato mille modi per riuscire a far entrare Carabosse nel castello e abbindolare Stefano.
La ragazza scese da cavallo, avvertendo come previsto dei forti dolori alle sue povere gambe distrutte da quattro giorni quasi ininterrotti di galoppo. Certo, di notte riposava, ma solo il minimo indispensabile, e dormendo all’addiaccio doveva comunque rimanere vigile in caso di attacco di predatori animali o veri e propri predoni. Non era stato proprio il massimo… dopo la prima notte trascorsa all’aperto era più stanca di quanto non si fosse mai sentita in vita sua ed era tutta indolenzita, ma le gambe erano davvero martoriate, tanto che prima di riuscire di nuovo a salire a cavallo aveva dovuto sciogliere lentamente i muscoli camminando piano. Solo il pensiero di sua madre era riuscito a farle stringere i denti ignorando il dolore e a farla continuare imperterrita il suo viaggio. Certo, si era un po’ abituata, ma adesso aveva proprio bisogno di riposarsi.
Dopo aver fatto abituare nuovamente le gambe alla terraferma, si guardò finalmente intorno, e si rese conto di quanto le risultasse estraneo quel panorama rigoglioso e florido: non che le montagne fra le quali aveva vissuto fossero esattamente spoglie e desertiche, ma gli alberi erano abbastanza radi e di certo non lussureggianti come quelli della foresta in cui era. Con lo sguardo cercò un corso d’acqua che, se la memoria non la ingannava, avrebbe dovuto passare proprio lì vicino… e infatti scorse le acque che scorrevano infrangendosi su massi che emergevano dal letto sassoso; era un torrente più che un fiume, ma sarebbe andato benissimo. Tenendo la giumenta, la quale in quei giorni aveva preso confidenza con lei, per le redini, si avviò verso il torrente, e mentre la cavalcatura beveva lei si tolse i vestiti che portava per potersi lavare via dal corpo il sudore e la polvere del viaggio. Rimanendo solo con una leggera sottoveste di garza addosso, entrò in acqua, facendo attenzione ai sassi sotto i suoi piedi e rabbrividendo leggermente per la temperatura dell’acqua. Presto però si abituò e si sedette su un masso particolarmente sporgente con le gambe distese, lasciando che i piedi seguissero la corrente, ma tenendosi con le mani ben salda alla roccia scivolosa. Non sentì il fruscio dei rami né la sua giumenta sbuffare leggermente mentre alzava la testa, tendendo le orecchie: non si accorse minimamente della presenza di un’altra persona.

***

Stefano aveva preso due pernici, anche se aveva tirato molte frecce a vuoto: cosa abbastanza insolita per lui, anche se non amava particolarmente la caccia.
 Era agitato per quel che suo padre gli aveva detto. Da ragazzino aveva sempre saputo di essere destinato sì ad essere Re, ma anche a non avere voce in capitolo riguardo alle scelte che riguardavano la sua vita, tantomeno quelle che riguardavano il matrimonio. Quelle le avrebbe fatte suo padre per lui. Ed ora, a ventisette anni di cieca obbedienza al padre, provava il desiderio di mettere tutto in discussione.
Scosse la testa, sapendo che quella nascente ribellione non avrebbe portato a nulla di buono. Si sentì improvvisamente accaldato e, trovandosi lì vicino un torrente, decise che si sarebbe rinfrescato. Avanzò verso il corso d’acqua, ma tutt’a un tratto sentì dei rumori e d’istinto incoccò una freccia, tendendo la corda dell’arco. Avanzò acquattato facendo in modo da essere parzialmente nascosto dai cespugli ma sempre avendo una buona visuale del torrente. E fu allora che la vide.
Come una ninfa dei boschi, una ragazza dalla lunga chioma setosa color castano lucente era seduta su una roccia nel bel mezzo del fiumiciattolo, con indosso solo una leggera sottoveste bagnata e quindi semitrasparente, mentre con una mano che aveva immerso nell’acqua si rinfrescava il collo. Aveva le palpebre abbassate e la bocca rossa dischiusa come in estasi per la freschezza dell’acqua sulla pelle accaldata.
Che non avesse mai visto una tale bellezza era certo, e si dovette ancora ricredere quando la sconosciuta aprì gli occhi: le sue iridi erano di un verde così chiaro e delicato che illuminati dalla luce del sole sembravano quasi trasparenti.
Inavvertitamente, Stefano calpestò un rametto, facendo abbastanza rumore da essere sentito dalla ragazza – il suo cavallo aveva già avvertito la sua presenza. Lei lo trovò con lo sguardo e i loro occhi si incrociarono, come era già successo un’altra volta, solo che lui non aveva riconosciuto Carabosse.
Ma lei sì. Avrebbe riconosciuto fra mille quegli occhi di un verde così acceso che da piccola le incutevano timore. Le ci volle qualche istante per riprendersi da quello scambio di sguardi.
Alla fine l’aveva incontrato, l’uomo che avrebbe dovuto ingannare e uccidere.
Stefano.


*Angolo Autrice*
Dunque, rieccomi qui, in ritardo come sempre. Spero che con questo capitolo mi sia fatta perdonare da voi, perché a me piace davvero molto, rispetto agli altri che ho scritto.
Sì, sono passati quattordici anni ed è il momento per Carabosse di mettere in atto il piano materno, visto che Elsa è morta - visto, Beauty? Le tue supposizioni erano esatte - ma, come avete letto, dovrà sbrigarsi perché è in arrivo anche la principessa Helen...
Che incontro per i nostri protagonisti, eh? Bollente, proprio. Con queste premesse, che dite, ce la farà Carabosse a conquistare Stefano? 
Bene, ora devo andare, e ringrazio tutti quelli che hanno inserito fra le ricordate/seguite/preferite questa storia, i lettori silenziosi e Beauty per aver recensito.
A presto!
   
 
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