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Autore: Amens Ophelia    12/08/2013    2 recensioni
"Tredici anni, una katana insanguinata che premeva sulla schiena, che nessuno aveva il coraggio di affondargli nel petto.
Tredici anni, infiniti spasimi affrontati ed evitati, ma la ferita più dolorosa che avrebbe subìto si chiamava destino; Itachi era solo in attesa del suo fato.
Tredici anni, e già il sapore della morte ottenebrava i suoi sensi. Non aveva scelto lui cosa farne della sua vita, se mai la sua era stata un’esistenza".
***
Itachi contro il nome Uchiha, contro se stesso e ciò che è stato costretto a diventare. Può un incontro fortuito far fiorire sentimenti sepolti da tempo, anzi, forse mai germogliati?
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Itachi, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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2. Casa







Due occhi iniettati di sangue lo fissavano con disprezzo, più cupi della notte e più minacciosi di una tempesta. Itachi cercava di sostenere quello sguardo, ma era in trappola, lo sapeva bene: non si sarebbe potuto salvare, né fuggendolo, né affrontandolo. Era la resa dei conti, Sasuke era davanti a lui, incredibilmente maturato, nel fisico e nella mente, e più scrutava quelle iridi vermiglie, più la sua figura appariva pallida, divorata dalle fiamme dell’odio. Così aveva davvero seguito il suo consiglio, aveva deciso di eliminare definitivamente l’ideale del fratello maggiore per detestarlo di tutto cuore, odiarlo fino all’inverosimile, senza farsi fermare da niente e nessuno.
 Itachi sorrise amaramente, osservandolo. “Sei diventato un uomo, otouto”, avrebbe voluto dirgli, se la lingua non gli si fosse impastata nel sangue, dopo quel mille falchi che il fratello gli aveva scaraventato addosso fino alla colonna vertebrale. Mentre il respiro andava affannandosi, sputò quell’acre fiotto di sangue che gli stringeva la gola, rovesciando il sorriso in una smorfia di pieno disprezzo. Ma quel sentimento non era rivolto a Sasuke, come poteva biasimarlo? L’odio era tutto per sé, e non per quella strage, bensì per quelle parole che aveva rivolto al fratellino tremante, ormai solo al mondo. Gli aveva ordinato di fare dell’odio il suo maestro, di farsi guidare dal desiderio di vendetta e distruzione, e di tornare ad affrontarlo quando avrebbe posseduto quel diabolico marchio intorno alla pupilla. Ecco, ora era diventato persino più spietato e potente di lui, del temuto Itachi Uchiha, e sapeva benissimo che quei magnifici occhi mortiferi sarebbero stata l’ultima immagine che i suoi avrebbero raccolto.
            Il sorriso tornò a sfiorare le sue labbra spaccate; era onorato di trovare la morte per mano di Sasuke, era ciò che aveva sempre desiderato, nel momento in cui aveva fantasticato sulla propria fine.
          “L’ho tenuto in vita per due motivi: poter rivedere la luce o, paradossalmente, per far sì che lui possa continuare a goderne, chiudendo per sempre i miei occhi. Nel caso io venissi sconfitto, sarò onorato nel sapere che il mio sangue è stato versato dal mio stesso sangue… da un Uchiha, da Sasuke. D’altronde, chi meglio di lui ha un valido motivo per spedirmi all’altro mondo?”. Quel flusso di pensieri gli diede la forza per affrontare ancora lo sharingan del fratello.
 
Un improvviso fascio di luce colpì i suoi occhi chiusi, obbligandolo a strizzarli, infastidito, fino ad aprirli. Quel raggio di sole inaspettato gli sembrò persino più doloroso del mille falchi che lo aveva colpito. Prima di osservare lo scenario intorno a lui, si tastò l’addome, controllando la ferita inflittagli. Strabuzzò lo sguardo, toccando con più insistenza quella parte del corpo, affondando con decisione le dita, tanto da poter sentire le costole e contarle: tutto intatto, nessun danno. Com’era possibile?

«Ben svegliato!», esclamò una voce cristallina, al suo fianco. Itachi immediatamente si tirò su, sulla difensiva, scrutando il volto di quella ragazzina. Chi diavolo era? «Hai dormito dodici ore filate! Come ti senti?», gli chiese sorridente. Quella luminosità gli faceva male al cuore, gli ricordava che era ancora in vita, malgrado tutto. Sorrisi del genere non gli davano il buongiorno da troppo tempo, ormai; era quasi sicuro che non ne avrebbe mai più rivisti. Di fronte a lui, un altro segno di vita lo tormentava: la finestra era spalancata e faceva entrare prepotentemente la luce del sole, che pian piano andava ad alzarsi sull’orizzonte.
        «Dove sono?», mormorò con voce roca, osservando quella piccola stanza arredata alla bell’e meglio; era disteso su un divano sgualcito, sotto delle corte coperte marroni che gli pizzicavano maledettamente le caviglie. Fissò l’alluce spuntare da quell’ammasso di rattoppi e s’interrogò su dove fossero i suoi calzari, la katana… i suoi vestiti! Chi aveva preso la libertà di spogliarlo e metterlo a dormire? Tornò a fissare quella fanciulla, con uno sguardo severo e interrogativo, ma lei non fece una piega, così come il suo sorriso.
         «Questo è il posto in cui viviamo io e mio fratello. Se ti fa piacere, puoi chiamarla casa», gli propose raggiante la giovane.
         «Casa», ripeté meccanicamente Itachi, fissando gli alberi oltre la finestra. Poi proruppe in una risata spaventosa, che rasentava l’isteria e la commiserazione, e che riuscì a spezzare l’armonia dalle labbra della ragazza. «Nessun posto sarà mai casa, per me», commentò alzandosi, pronto ad andarsene.
         «Aspetta, rimani! Non sei ancora abbastanza in forze per ripartire … e, davvero, se tu volessi rimanere, io e mio fratello saremmo lieti di averti con noi. Non abbiamo nessuno al mondo», affermò lei, chinando il capo sull’ultima frase. Gli occhi cominciarono a pungerle, ma trattenne l’istinto di piangere, risollevando il capo e tornando a mostrare il suo sorriso. «Rimani, solo oggi». Sembrava una preghiera, ma Itachi aveva imparato a non farsi impietosire davanti a nulla.
         «Siamo tutti soli, nessuno escluso», ribatté lui, penetrando quegli occhi innocenti con i suoi.
 
Un rumore metallico, seguito da un tonfo, alle loro spalle, li fece sussultare. I due ragazzi si girarono contemporaneamente e trovarono un giovane disteso sul pavimento, che tentava di rialzarsi, imbarazzato.
       «Eiji! Sei il solito disastro!», esclamò in una fragorosa risata la ragazza, alzandosi e andando ad aiutarlo.
       «E tu sei la solita disordinata, Hikari! Ti sembra normale ammassare all’ingresso questa roba?», protestò lui, rinunciando alla mano che la ragazza gli aveva teso.
       Non appena i due furono in piedi, Itachi poté notare la grande somiglianza che li accomunava: lisci capelli color mogano scuro; occhi color blu notte intenso, grandi, ma anche affilati; carnagione lunare e sottili labbra armoniose. Solo la corporatura era diversa, perché se il ragazzo era più alto e ben bilanciato, la giovane invece era piuttosto minuta. Era chiaro come il sole che fossero gemelli.
      «Così ti sei alzato! Spero che ti senta meglio, ieri sera non eri un gran bello spettacolo», sorrise il ragazzo, avvicinandosi a Itachi. «Beh, io sono Eiji!», si presentò sorridente. Nessuna risposta dall’altro capo, se non uno sguardo indifferente. «Che dici, forse è sordo?», bisbigliò lui all’orecchio della sorella.
      «No, il tuo baccano l’ha sentito benissimo. Oh, è anche vero che la tua delicatezza da elefante la sentirebbe anche un audioleso, in effetti», sussurrò lei, tirandogli un’affettuosa gomitata nel fianco.
      «Vi sento benissimo, se ci tenete a saperlo», li interruppe lui, glaciale. «E se non vi dispiace, vorrei riprendermi la mia roba e andarmene». Per rafforzare il concetto, osservò quasi disgustato quella semplice maglietta bianca e i pantaloni neri che qualcuno gli aveva fatto indossare, mentre forse era svenuto.
      «Gran bel completo, vero? È la mia tenuta da corsa», sorrise Eiji, notando l’attenzione per quegli indumenti.
      «Dov’è la mia casacca?», tagliò corto, ignorando anche quel commento.
      «L’ho lavata, era sporchissima! Il fango più difficile che abbia mai dovuto strofinare», ricordò lei, massaggiandosi le mani, ancora affaticate da quel lavaggio. Non sospettava minimamente che sotto quelle incrostazioni di melma, gli indumenti erano macchiati di sangue, così come non poteva immaginare che quel ragazzo scontroso che avevano di fronte fosse un assassino. Continuava a sorridergli, come se fossero amici da una vita. «Per questo ti ho chiesto se volessi fermarti da noi; domani sicuramente sarà tutto pulito e asciutto per ripartire, senza contare che sarai più in forze», aggiunse.
      «E nel frattempo potrei anche affilarti questa bellissima katana», si offrì Eiji, sollevando quell’arma che gli aveva procurato il tonfo di poco prima.
      «Non toccarla!», urlò Itachi, avvicinandosi furioso. Gli strappò la spada di mano, incenerendolo con lo sguardo, poi accarezzò la nera guaina dell’arma, che nascondeva le prove del turpe crimine del giorno prima. Così perfetta, ma altrettanto fatale, proprio come i suoi occhi.
      «Non volevo mancarti di rispetto, è solo che è il mio lavoro. Ci so fare con la mola, e non lo dico per vantarmi. Beh, forse un po’ sì, ma sono sincero… ».
      «Se solo la sfiorerete ancora, vi giuro che sarà l’ultimo contatto che la vostra pelle sentirà», sussurrò sinistramente l’Uchiha, stringendo l’impugnatura.
      Hikari trattenne un fremito di terrore; il suo sorriso si era improvvisamente spento, di fronte a quell’aura scura. Eiji, invece, non si lasciò intimidire e continuò a guardarlo.
      «Beh, facciamo così, se mai avessi bisogno di un arrotino, ricordati di Eiji Ando, d’accordo? Per gli amici non bado a fatiche», esclamò sorridendo.
 
Itachi rinunciò a controbattere, a sottolineare che loro non erano amici, quasi nemmeno conoscenti… che lui non avrebbe mai più avuto amici, se non le tenebre. Sospirò, posando la katana contro il muro, e mancò poco che non si accasciasse per terra, in preda a un’improvvisa spossatezza.
     «Ti senti bene?», chiese preoccupata Hikari, correndo a reggerlo per un braccio. Lui la osservò muto, con i suoi occhi scurissimi e profondi come un pozzo.
     Perché darsi pena per lui, soprattutto dopo quella frase che l’aveva terrorizzata? Perché quei due non gli davano pace? Possibile che non capissero che la sua unica necessità era quella di andarsene? Davvero ci tenevano tanto a condividere una giornata della loro vita con un assassino?
     «Dovresti stenderti! Adesso provvedo subito a cucinare qualcosa!», lo rassicurò la giovane, non lasciando ancora la presa dal suo braccio. Era una morsa leggera, tenera, delicata quanto quella di una bambina, eppure i suoi polpastrelli erano ruvidi, esperti delle asprezze di una vita poco agiata.
 
Mentre anche Eiji lo aiutava ad accomodarsi sul divano, Itachi tornò a fissare quegli occhi blu come la notte, che sembravano essere l’unica cosa, in quel momento, capace di assicurargli un minimo di pace.
    «Te l’ho mai detto che Hikari sa cucinare la miglior zuppa di cardi e radici del Paese?», gli sorrise il ragazzo, battendogli la mano sulla spalla, prima di andarsene.
 
Itachi girò il capo e lo chinò, fino a fissare il pavimento. Quelle piccole scarpe bianche, ancora sporche di fango, gli occuparono di nuovo la visuale, e lui tornò a pensare a quanto fosse spregevole la sua anima, prima di precipitare in un nuovo abisso dell’inconscio.






Grazie a tutti per aver letto anche questo capitolo, per chi ha recensito il precedente.... sono davvero commossa davanti alle vostre parole! :') 
Spero che anche questo possa piacervi!
A presto!! :D
   
 
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