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Autore: Amens Ophelia    16/08/2013    2 recensioni
"Tredici anni, una katana insanguinata che premeva sulla schiena, che nessuno aveva il coraggio di affondargli nel petto.
Tredici anni, infiniti spasimi affrontati ed evitati, ma la ferita più dolorosa che avrebbe subìto si chiamava destino; Itachi era solo in attesa del suo fato.
Tredici anni, e già il sapore della morte ottenebrava i suoi sensi. Non aveva scelto lui cosa farne della sua vita, se mai la sua era stata un’esistenza".
***
Itachi contro il nome Uchiha, contro se stesso e ciò che è stato costretto a diventare. Può un incontro fortuito far fiorire sentimenti sepolti da tempo, anzi, forse mai germogliati?
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Itachi, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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4. Un aspide in seno

 
 
 
Ancora non si rendeva conto di quello che stava succedendo, perché quella situazione era figlia di una scelta improvvisa, un mero colpo di testa. Mai e poi mai l’Itachi che tutti conoscevano e rispettavano avrebbe sprecato un pomeriggio di sole per recarsi al fiume, improvvisandosi pescatore, soprattutto in compagnia di due mezzi sconosciuti. In giornate serene come quella – ma anche tempestose, o imbiancate dalle nevicate più imperterrite, o funestate da turbini ghiacciati – si sarebbe normalmente massacrato di allenamento, cedendo sotto i duri colpi del padre o ribaltando la superbia di qualche compagno della Squadra Speciale.
            Invece era placidamente adagiato sotto un salice, sulla sponda del fiume, con una rudimentale canna da pesca fra le mani, in attesa che qualcosa abboccasse, anche un vecchio scarpone... Tutto, per poter finalmente lasciarsi andare ad una sana risata liberatoria. Aveva un grande desiderio di ridere di gusto, a crepapelle, ma, allo stesso tempo, qualcosa di più grande di lui, dei suoi tredici anni, gli impediva di farlo. Si sarebbe sentito fuori luogo a comportarsi in modo tanto leggero, con ancora una katana insanguinata dietro la schiena. Si sarebbe sentito ancora più sporco e colpevole, se avesse riso senza Sasuke, praticamente l’unico ad avergli mai visto tutti i denti e ad aver ascoltato la vera intonazione della sua voce. Si sarebbe sentito un mostro abominevole, ridendo dopo tutto quello che aveva provocato al fratello. Avrebbe tanto desiderato vivere la spensierata gioia di un pomeriggio fra ragazzi, aveva cento buone ragioni per farlo, ma non gli sarebbe mai stato possibile per una sola, molto più preziosa di tutte le altre.
 
«Hikari, scommettiamo che pescherò più trote di te e Itachi?», esclamò con aria spavalda Eiji, proprio prima di gettare l’amo nel fiume e sedersi accanto all’Uchiha.
           «No, io mi ritiro dalla competizione. Però punto su Itachi», sorrise lei, tenendo conto del potere nascosto di quegli occhi neri.
           Sapeva benissimo come quell’abisso corvino potesse tingersi di una pericolosa tonalità vermiglia, cui non sfuggiva nulla. Aveva già avuto modo di osservare lo sharingan, un tempo, e ne era rimasta sconvolta; per quanto il ricordo fosse lontano, sfuocato, non avrebbe desiderato riviverlo. Inoltre, pur non vivendo nel villaggio, le voci sulla potenza del clan erano giunte alle orecchie di due bambini quali loro erano stati, e lei si era ritrovata sempre terrorizzata nell’apprenderle, ma anche affascinata, in qualche misura. Non aveva mai immaginato che un giorno avrebbe potuto osservare ancora tanto da vicino un esponente della famiglia più temuta di Konoha, un affiliato a quel gruppo che aveva segnato la storia del villaggio – e anche la loro.
           Era perfettamente fedele al fosco ricordo-stereotipo che le si era dipinto in mente: lisci capelli neri, penetranti occhi scuri, pelle diafana, lineamenti tanto affilati quanto armoniosi, un’indole imperscrutabile che trapelava soltanto quando le conveniva mostrarsi. Per quanto le provocasse dolore ricordarsi quale fosse il nome di quel ragazzo, traeva anche una certa felicità dall’averlo affianco, almeno per quella giornata; per poche ore, lei ed Eiji potevano dividere il tempo con una nuova persona… con un amico. Sorrise tristemente, intuendo che nessuno stringe un rapporto d’amicizia nel giro di un giorno, men che meno una persona come Itachi, ma voleva illudersi che lei e suo fratello avessero ancora qualcuno al mondo con cui spartire qualcosa, qualcuno che sapesse della loro esistenza.
           Ripensò a quella sera appena trascorsa, alla pioggia che lo aveva abbattuto, al fango che sembrava volesse inocularglisi fino alle ossa. Lui si era perso, era solo al mondo, proprio come loro. Tornò a fissarlo e si meravigliò nello scoprire un’espressione quasi rilassata sul suo volto, ora molto più simile a quello dei due gemelli: perché non sarebbe potuto essere così per sempre? Cosa gli impediva di mostrare al mondo quel piccolo atomo di felicità? Perché, semplicemente, non si sarebbe potuto fermare con loro e fingere di aver trovato casa? Chiuse gli occhi e, nonostante fosse pieno giorno e nessuna stella cadente solcasse il cielo, desiderò che le loro strade non si dividessero inesorabilmente.
 
            «Ehi, così non vale!», sbraitò Eiji, con una nota di frustrazione. «Hikari, digli qualcosa! Sta usando la sua abilità innata!», protestò in direzione della sorella.
            La ragazzina quasi non scoppiò a ridere, quando si ritrovò davanti agli occhi quello spettacolo: Itachi immerso nel fiume fino alla cintola, con il cesto pieno di trote, mentre cercava di catturare l’ennesimo pesce a mani nude. Aveva accuratamente deciso di non osservare le sue iridi, onde evitare di perdersi ancora in malinconici pensieri.
            «Non sai accettare la sconfitta», commentò sarcastico l’Uchiha, intanto che si avvicinava alla riva, ghermendo una nuova preda e restaurando la naturale sfumatura carbone nello sguardo.
            «Questo si chiama barare», affermò oggettivamente Hikari, contando mentalmente il numero di pesci pescati.
            «Dovresti ringraziarmi: ti ho fatto vincere di nuovo una scommessa».
            Gli occhi blu della giovane brillarono: per un secondo l’aveva visto di nuovo sorridere, ne era certa!
            «Grazie», mormorò profondamente lieta, prima di girarsi verso il gemello: «Dieci a uno. Eiji, devi pagare pegno», urlò lei, su di giri.
 
Itachi si buttò supino sull’erba, sotto il sole. La giornata era incredibilmente mite, i vestiti si sarebbero asciugati rapidamente. Ripensò al suo consueto abbigliamento, alla casacca che la ragazzina aveva provveduto a lavargli: probabilmente, essendo stata stesa al sole, a quell’ora era ormai già pronta per essere indossata. Il pensiero di dover ritornare a mettere quell’indumento, cui era profondamente affezionato, lo turbò leggermente: infilarsi quella maglia avrebbe voluto dire ergere una nuova barriera fra lui e il mondo, prendere nuovamente le distanze da tutti e dire addio a quella breve tregua dai suoi doveri. Il desiderio di lasciarsi andare e partecipare alla pesca aveva vinto sul rimorso, ma sapeva che si sarebbe trattato di una piccola parentesi. Non poteva sfuggire da ciò che era, né intendeva davvero farlo, andando pienamente fiero dei suoi natali, nel bene e nel male. Ad ogni modo, per quelle poche ore avrebbe cercato con tutte le sue forze di aggrapparsi ai suoi tredici anni, a quell’anelito di serenità.
           «Si può sapere in cosa consistano i vostri “pagare pegno”?», domandò con gli occhi chiusi, nel tentativo di occupare il cervello di chiacchiere, e non di pensieri.
           «Qualsiasi cosa che ci passa per la testa. Per lo più faccende domestiche, mansioni pesanti, come recuperare acqua dal pozzo, raccogliere legna, pulire lo sgabuzzino dove lavoro… chi perde, è costretto a saldare la scommessa», spiegò Eiji. Fissò Itachi e anche lui, come la sorella, si meravigliò nello scoprire quella perfetta macchina assassina mostrarsi improvvisamente umana. «Per caso ti va di scommettere qualcosa? Ti avverto che difficilmente perdo…», ridacchiò il ragazzo mentre, inspiegabilmente felice, osservava quell’inaspettata pace sul volto dell’Uchiha.
           «A parte oggi, mi pare. Hai azzeccato solo la mia età, per il resto hai perso due a uno contro Hikari», lo beffeggiò il moro, riaprendo gli occhi.
           «Dettaglio irrilevante, dato che ho all’attivo un centinaio di vittorie su questa perdente», si gloriò il diretto interessato, con un largo sorriso sul viso.
           «Oh vantatati fin tanto che hai fiato! Escogiterò una punizione tanto tremenda che a malapena ti reggerai in piedi, stanne certo!», esclamò Hikari con un sorriso forzatamente malvagio, assestandogli l’ennesima gomitata nel petto. Itachi sorrise, capendo come quell’atteggiamento fosse una montatura, esattamente come la storia del pagare pegno; si vedeva benissimo come entrambi si sostenessero a vicenda, contando l’uno sull’altra.
             Erano totalmente incapaci di ferirsi, di procurarsi gratuito dolore, essendo soli al mondo. Una fitta al petto, più atroce di qualsiasi spasimo che avesse mai provato prima d’allora, lo costrinse a rialzarsi; come poteva sentirsi simile a loro? Come poteva ancora dichiararsi fratello di qualcuno, quando aveva violentemente rovinato la vita di una creatura di soli otto anni? Non era degno di godere di quella spensieratezza e di quei sorrisi.
            Come se qualcosa lo avesse punto, si alzò improvvisamente in piedi, spaventando gli Ando.
            «Stai bene?», chiese Eiji, mentre la sorella si era già avvicinata a Itachi, preoccupata.
            «Devo andare», dichiarò meccanicamente. Traditore, urlava una voce nella sua testa, battendogli forsennatamente sulle terminazioni nervose. Traditore della famiglia, del villaggio, degli affetti.
            «D’accordo, torniamo a casa», acconsentì Hikari, prendendo il cesto con le trote.
            «Devo andare», ripeté il ragazzo, sempre più convinto, mentre quella voce non taceva.
 
La piccola dimora s’intravedeva a malapena, totalmente immersa nel verde dei cespugli e degli alberi. Itachi avrebbe potuto contare sul suo infallibile colpo d’occhio per individuarla subito, ma altri forestieri avrebbero penato parecchio prima di raggiungere quel luogo. O forse no?
            Un uomo guardava nella loro direzione, appoggiato al tronco della quercia che svettava sul lato destro dell’abitazione. Sembrava li stesse aspettando da parecchio tempo, in quella posizione, perché il sorriso che cercava di comporre sul volto assomigliava più a una smorfia di dolore, quando si era staccato dalla pianta. Era un uomo sulla cinquantina, dai crespi capelli brizzolati legati in un codino spettinato, gli occhi grigi e l’abbigliamento trasandato. Un avventuriero, molto probabilmente, come faceva pensare la spada che portava legata alla cintura. Eiji cominciò a sorridere, sfregandosi soddisfatto le mani: erano settimane che non faceva partire la mola e non vedeva l’ora di affilare qualcosa, di osservare le scintille alzarsi nella polvere dello sgabuzzino e respirare quell’odore di ferro, peripezie e coraggio. I polpastrelli gli prudevano per il desiderio di tastare il freddo acciaio e vedervi riflesso il suo sguardo soddisfatto. Per quanto la gente potesse ritenerlo un lavoro di poco conto, lui amava quel mestiere, ci metteva tutto se stesso. Lo amava perché gli ricordava gli istanti più belli della sua breve vita.
            «Cercavo la bottega degli Ando», disse quell’uomo dalla voce rauca.
            «Allora è proprio nel posto giusto! Sono Eiji Ando, come posso aiutarla?», esclamò sorridente, balzando in avanti per raggiungerlo.
            «Portami da tuo padre, devo far affilare una spada».
            Il sorriso gli si spense in un secondo, così come la luce nello sguardo. Le mani avevano smesso di fremere, abbandonandosi lungo i fianchi. «Ecco, lui non c’è», mormorò a capo chino.
            «Si occuperà Eiji, di lei. Non lo dico perché è mio fratello, ma è il miglior arrotino del Paese del Fuoco», dichiarò sicura Hikari, raggiungendo il gemello e posandogli una mano sulla spalla.
           
Itachi poteva solo rimanere al loro fianco ed osservare quanto fosse forte il legame fra i due. Quel semplice contatto sulla spalla era stato in grado di far risollevare la testa al ragazzo, permettendogli di guardare negli occhi quell’uomo. Avevano attraversato sicuramente periodi bui, lo intuiva; avevano affrontato ombre terribili, che ancora stavano minacciosamente alle loro spalle, oscurità che rispondevano al nome di passato. Eppure erano ancora lì, in piedi, l’uno vicino all’altra, e non solo perché erano fratelli, ma perché condividevano un legame.
            Per la seconda volta nel giro di una ventina di minuti, si era sentito pungere il petto da un tremendo aspide chiamato rimorso. Gli occhi gli bruciavano, gli dolevano più di quanto potesse fare l’uso incontrollato dello sharingan. Una lacrima pesantissima gli scese lungo la guancia, scavando nel suo animo una voragine che avrebbe lasciato un segno ben maggiore di quelle che gli Ando nominavano rughe. Non trovava la forza per strapparla violentemente dalla guancia, con un gesto della mano; le nocche erano chiuse, rigide e ciondolanti accanto alle cosce.
           Non capiva ancora quale fosse la sua vera natura, se fosse vittima o carnefice della sua esistenza, né era del tutto sicuro che ci fosse una riposta sicura a quel dilemma. Di una sola cosa era certo: Itachi era debole, soccombeva irrimediabilmente sotto i colpi feroci del nome Uchiha.
           Un impulso rapì i suoi piedi e lo costrinse a voltare le spalle a quella scena, per farlo dirigere nel fitto della foresta. Nessuna luce nei suoi occhi, né intorno a lui, se non quella opaca, macchiata di un rosso ancora troppo fresco, sulla lama della sua katana. 





Mmm... e quest'uomo misterioso? E la nuova fuga d'Itachi? Presto arriveranno delle risposte ;) 
Grazie per le testimonianze d'affetto e la lettura di questa storia :) Mi riempie davvero il cuore di felicità, è la mia prima long sul mondo di Naruto ed ero spaventatissima nello svilupparla... perciò grazie davvero!! :)
A presto!!
   
 
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