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Autore: Amens Ophelia    19/08/2013    2 recensioni
"Tredici anni, una katana insanguinata che premeva sulla schiena, che nessuno aveva il coraggio di affondargli nel petto.
Tredici anni, infiniti spasimi affrontati ed evitati, ma la ferita più dolorosa che avrebbe subìto si chiamava destino; Itachi era solo in attesa del suo fato.
Tredici anni, e già il sapore della morte ottenebrava i suoi sensi. Non aveva scelto lui cosa farne della sua vita, se mai la sua era stata un’esistenza".
***
Itachi contro il nome Uchiha, contro se stesso e ciò che è stato costretto a diventare. Può un incontro fortuito far fiorire sentimenti sepolti da tempo, anzi, forse mai germogliati?
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Itachi, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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5. Più di una lama, meno della morte

 
 




Era consapevole che presto o tardi un velo avrebbe per sempre coperto i suoi occhi, ma non immaginava che quel giorno potesse già fare capolino nella sua vita, soprattutto quando la causa non era ancora una malattia dei bulbi oculari, ma un’improvvisa rabbia, che era impetuosamente scesa nel suo cuore come una colata lavica, distruggendo tutto ciò che trovava sul proprio cammino.
          Non sapeva dove quel funesto sentimento lo stesse guidando, non riusciva a controllare le proprie azioni, rinunciava a pensarci. A un certo punto, però, notò che i suoi piedi si erano fermati davanti a un alto faggio, e che la katana che stringeva tra le mani stava ripetutamente affondando fendenti nel robusto tronco dell’albero. Osservò furiosamente quella superficie scalfita, rantolando per la fatica e l’ira, finché non decise di smetterla. Cosa diamine stava facendo? Non aveva forse promesso a se stesso che non avrebbe più sguainato quella lama, se non in casi di estrema necessità? Quello non lo era di certo, e non c’era motivo per comportarsi così.
           Inspirò profondamente e ricacciò la spada nella sua guaina nera. Nemmeno quei colpi sulla corteccia erano stati in grado di scalfire la perfetta affilatura e lucentezza di quell’arma, né tantomeno erano riusciti ad eliminare il sangue ancora rappreso. Non intendeva lavarla o prendersene cura, anzi, era sul punto di abbandonarla lì, per sempre. Aveva scelto di consacrare la propria esistenza alla costruzione della pace, con ogni mezzo possibile, purché rispettoso delle vite umane. Avrebbe fatto di tutto per non ferire più nessuno, e non gl’importava se questo significasse pugnalare se stesso.
           Guardò quell’arma raffinata, elegante, il cui richiamo era pericolosamente seducente per qualsiasi ninja; la osservò con quello sguardo d’addio che prepara la mente a rimuovere per sempre i ricordi, le immagini, legate a un qualsiasi oggetto. Stese la mano verso terra, aprendo lentamente le dita, una dopo l’altra, come una lenta, esasperante carezza di commiato, pronto a far cadere la katana sul manto erboso.
           Quanto sforzo può costare, abbandonare una parte di sé in un luogo sconosciuto, dove non si tornerà mai più indietro? Itachi era sul punto di scoprirlo, se un urlo agghiacciante non avesse fatto irruenza nel suo orecchio, costringendo le dita a cingere nuovamente quella spada, quel fardello pesante.
 
***
 
Hikari stringeva fra le braccia Eiji, privo di sensi. Il respiro affannoso di lei scuoteva entrambi i corpi, ma non sarebbero bastati quei sussulti per ridestarlo; il sonno era pericolosamente più profondo, stavolta.
            «Ti prego, fratellino, svegliati», gli sussurrava all’orecchio, premendogli la testa sul suo cuore, come se i battiti di vita potessero trasmettersi per osmosi.  Sentiva il suo respiro essersi fatto più lento e, pur sapendo che non rischiava la vita, era in preda al panico. Eiji era sempre stato la sua ala protettiva, l’aveva fatta sentire a casa nonostante tutto quello che avessero passato… era la sua famiglia, era sempre stato così. Non vedere le iridi blu del ragazzo, tanto identiche alle sue da potervisi specchiare, in quel momento, era come morire.
            «Questo è ciò che succede agli insolenti che pretendono soldi da chi è al verde», commentò con un sorriso spietato quell’uomo, osservando i gemelli. «E adesso, affinché la lezione sia chiara anche a te, proverò la spada. Voglio proprio vedere se quell’inetto è il miglior arrotino del Paese del Fuoco», affermò in un’agghiacciante risata, che bloccò il sangue nelle vene della Ando.
            Non doveva finire così, la morte non poteva coglierla senza che lei provasse almeno a tenersi stretta la vita. Osservò Eiji, il sorriso che nemmeno quel sonno forzato era riuscito ad estirpargli dal viso. Sorrise di rimando, facendo cadere una lacrima sulla guancia del fratello. Non avrebbe rinunciato a proteggerlo, per quanto fosse gracile. Lo stese per terra, accomodandogli la testa su una fascina di rametti secchi, impugnò una vecchia spada che giaceva impolverata in fondo allo stanzino e guardò negli occhi quell’uomo, affilando lo sguardo come mai aveva fatto prima.
            «Usciamo di qui», ringhiò con una voce improvvisamente adulta.
           
           
***
 
Se le sue gambe prima avevano corso velocemente, ora avevano addirittura raddoppiato la celerità, tanto che i piedi non sembravano toccare terra, con tutto quel chakra che li sospingeva alla casa degli Ando. Itachi aveva distinto chiaramente il timbro di voce di Hikari, in quell’urlo terrorizzato. Non avrebbe mai immaginato che la sua gola potesse emettere suoni diversi da quelli di una risata, e la cosa lo preoccupava terribilmente.
            Quasi gli mancò il fiato quando la scorse fuori dal capanno di Eiji, sola, esile e tremante quanto un giunco, mentre tentava di difendersi con una vecchia spada, malridotta dai colpi che quell’uomo le stava infliggendo. Aveva mirato alla testa della ragazzina, senza alcuna pietà, e lei era riuscita miracolosamente a deviare il fendente con uno sfregamento assai debole della lama. Talmente fiacco che la spada le sfuggì di mano, di fronte alla ferocia del colpo appena sviato.
            «Ah, bel tentativo, mocciosa! Potrei anche risparmiarti la vita, ma voglio sperimentare l’affilatura della mia katana… senza contare che non amo lasciare le faccende in sospeso!», asserì sinistramente l’energumeno, facendo un passo avanti. 
            Hikari si lasciò cadere sulle ginocchia, ormai pronta a fare da fodera a quella lama affilatissima e lucente. Non avrebbe pianto, sarebbero bastate le lacrime che Eiji avrebbe versato sul suo volto, una volta sveglio e messo violentemente davanti a quella scena. Le si spezzò il respiro, immaginando il nuovo dolore che sarebbe gravato sul fratello, l’ennesimo colpo che il destino gli avrebbe assestato. Cosa avevano fatto di tanto orribile per meritare una vita così dura?
           
«Sei un vigliacco della peggior specie ad attaccare una ragazzina disarmata», urlò una voce furente.
            Hikari sgranò gli occhi, sorpresa quanto il suo carnefice. Non lo conosceva che da un giorno, ma avrebbe subito distinto quel timbro basso, pacato da mettere i brividi, fra altri mille. Si era chiesta, in effetti, che fine avesse fatto, ma se anche se la fosse data a gambe, non l’avrebbe potuto biasimare: nessun estraneo e sano di mente si sarebbe mai fermato ad aiutarli, tenendo giustamente alla propria pelle.
            Invece era proprio lì, l’aveva raggiunta, parandosi davanti ai suoi occhi, al suo corpicino inginocchiato, pronto a difenderla.
            «Non è così importante…», aveva mormorato, guardando la sua schiena tesa e preparata all’attacco. I singhiozzi le avevano impedito di terminare la frase. “Non è così importante, la mia vita”, completò mentalmente.
            «E tu chi saresti, ragazzino?», domandò stupito il cinquantenne, squadrandolo dall’alto in basso.
            «Sono quello che ti darà una bella lezione, se non ti sbrighi a levare le tende», gli intimò per niente impaurito.
            Odiava combattere, sperava di non dover provare ancora quel sentimento di disprezzo misto ad adrenalina per un bel po’, ma non poteva lasciare quei due ragazzi indifesi, sentiva l’onere di doverli difendere, proprio come loro avevano fatto con lui. Hikari l’aveva protetto dalla pioggia sferzante, Eiji dal malumore; ora sarebbe stato il momento giusto per poter pagare pegno. Un sorriso fece capolino sul suo volto, pensando a come, pur non avendo scommesso nulla, gli Ando avessero vinto anche su di lui, riuscendo a scoprire la sua natura più nascosta. Sarebbe stato il modo migliore per sdebitarsi.
            «Hikari, prendila tu e allontanati», disse alla ragazza, girandosi velocemente e lanciandole la katana. Non voleva uccidere, avrebbe mantenuto la promessa che aveva stipulato con se stesso pochi minuti prima, davanti al faggio.
            Sentì un fruscìo allontanarsi timidamente, alle sue spalle, e, rincuorato, estrasse dalle tasche alcuni kunai e shuriken che aveva recuperato dal suo armamentario, prima di andare a pesca. Un accorgimento lungimirante, grazie al cielo.
 
L’uomo si scagliò verso l’Uchiha, innervosito da quell’aria di superiorità che il giovane trasudava da tutti i pori. Con quale insolenza poteva credersi migliore di un ninja esperto di campi di battaglia quale lui era? Avrebbe dato ben volentieri una lezione di vita a quei tre mocciosi.
            Itachi bloccò la lama a pochi centimetri dal suo volto, allontanandola con un kunai impugnato saldamente. Lo stridio che quel contatto aveva provocato era nulla in confronto al fastidio che gli suscitò la vista della benda coprifronte del manigoldo, allacciata sotto la spalla. Era del Villaggio della Sabbia, e la lamina di metallo era attraversata da una scheggia orizzontale. Quell’uomo era un traditore, godeva della stessa fama che lo aveva toccato da poche ore.
            Lo guardò negli occhi grigi, così vuoti e putridi da farlo rabbrividire. No, lui non voleva essere quel genere di traditore e, in fondo, sapeva di non esserlo.  L’abominio che aveva compiuto era frutto di un nobile ideale, mentre in fondo a quelle pupille malvagie poteva quasi leggere la scelta individuale e ipocrita di quel ninja, poteva scorgere il suo credo corrotto, totalmente asservito al tornaconto personale, non certamente alla salvezza di terzi. Quell’uomo, nonostante a un osservatore esterno potesse sembrare simile a lui, era quanto di più lontano ci potesse essere da Itachi.
            Il traditore indietreggiò di un passo, riprendendo fiato. Odiava ammetterlo, ma quel ragazzo gli stava dando filo da torcere; probabilmente non aveva nulla in comune con quei due gemelli, era come se fosse di un’altra scuola, tutt’altro livello. Gli era bastato quel colpo di kunai preciso sulla lama per capire che lo scontro fisico non avrebbe dato i risultati ottimistici che aveva immaginato, con lui. Rinfoderò quindi l’arma, osservandolo con un sorrisetto maligno agli angoli della bocca. Voleva il gioco duro? Bene, l’avrebbe ottenuto.
            Itachi notò quella smorfia e capì che ora avrebbe fatto sul serio. Aveva rinunciato a un combattimento ravvicinato, probabilmente puntando su qualche abilità innata da poter usare a distanza. Era il momento giusto per vederci chiaro: chiuse gli occhi per un secondo e, quando li riaprì, poté leggere il nuovo stupore dipinto sul volto dell’avversario, quasi annegato nel rosso sangue del suo sharingan.
            «Oh, non mi dire… un Uchiha», mugugnò, cercando di mantenersi calmo, mentre delle gocce di sudore cominciavano a imperlargli la fronte.
Itachi alzò un sopracciglio, sorridendo soddisfatto al suono di quelle parole: la fama del clan era davvero conosciuta in ogni dove.
            L’uomo, percependo quanto l’orgoglio e il senso di superiorità stessero crescendo nell’animo del ragazzo, tentò di freddarlo, giocandosi la carta dell’insolenza: «Chi ti credi, Madara in persona? Sei un insignificante sputo sulla tela degli Uchiha, moccioso».
             Una nuova rabbia cominciò a ribollire nelle vene di Itachi, quando quelle parole raggiunsero il cervello, quasi incendiandogli i nervi. Voleva davvero prendersi gioco di lui? Eppure, a quell’età, doveva aver imparato cosa succede a scherzare con il fuoco! Non sapeva niente di lui, del clan, di quello che era successo… come poteva azzardarsi ad infangarlo in quel modo?
             Un cieco impulso distruttivo s’impadronì del suo cuore. Si girò verso Hikari, ordinandole di non guardarlo negli occhi fino alla fine dello scontro, anzi, di allontanarsi.
            La ragazza, alla vista di quello sguardo vermiglio, sobbalzò terrorizzata e s’impietrì di colpo. Allontanarsi, aveva detto? Non era in grado di muovere un solo muscolo, dopo aver rivisto quello sharingan. Aveva sperato di non incrociarlo mai più, ma avrebbe dovuto immaginare che il fato non sarebbe mai stato troppo benevolo con lei, ne aveva avuto delle prove ineluttabili. Avrebbe dovuto intuire la probabilità di rivedere quegli occhi nel momento in cui aveva scorto quel ventaglio bianco e rosso sulla schiena di Itachi, la sera prima. Sapeva benissimo che quello sharingan, stavolta, li avrebbe protetti, eppure non si sentiva tranquilla. I ricordi bruciavano nello spazio dietro la mente.
 
“Questo è il solo modo in cui voglio essere pericoloso: più di una lama, ma meno della morte. Non voglio ferire irrimediabilmente, non voglio più uccidere, desidero solo concedere una seconda opportunità a chi mi sfida, concedergli una via per la redenzione, mettendogli davanti le sue più grandi paure”. Aveva deciso che quelle parole sarebbero diventate il suo mantra, il suo nuovo credo ninja. Le scolpì nel proprio cuore, mentre guardava negli occhi quell’uomo e si apprestava a infliggergli una punizione.
            «Luna insanguinata!». L’espressione gli uscì stentorea dalle labbra, fredda e imperiosa quanto una coltellata.
            Hikari aveva chiuso gli occhi, ma poteva benissimo immaginare la scena, grazie alle urla dell’energumeno.
 
 Tutto era durato per un breve, intenso istante. Forse due secondi, a dir tanto, eppure all’uomo sembrarono essere passati giorni, delle decine di ore terribili, in cui i contorni del mondo che conosceva si erano fatti spigolosi, quasi taglienti, e i colori della realtà si erano rovesciati, macchiandogli le pupille di sangue. Era stata l’esperienza più terribile che avesse mai vissuto, persino peggiore della Terza Grande Guerra Ninja. Da quelle battaglie aveva avuto scampo, era potuto fuggire, ma quegli occhi e il loro tormento non aveva potuto evitarli.
              Quando sollevò le palpebre, si trovò accasciato per terra, ancora agonizzante. Davanti a lui scorse rannicchiato quel micidiale ragazzino di stirpe Uchiha. Lo fissava senza lasciar trapelare nessuna emozione, se non un certo disgusto.
             «Se fossi in te, non tornerei più qui», gli consigliò il giovane, risollevandosi. Gli occhi gli si erano tinti della consueta tonalità scura, eppure all’uomo tremava ancora il respiro.
             Appena fu in grado di rialzarsi, il ninja traditore della Sabbia non obiettò nulla, non ci pensò due volte e prese a camminare lentamente, affaticato, nella direzione da cui era giunto, lasciandosi alle spalle quella casa e quei tre ragazzi. Sperava solo di non dover incrociare mai più un Uchiha in vita sua e nemmeno sapeva che, proprio grazie a quel temibile giovane, le possibilità che il fatto si sarebbe avverato erano davvero effimere.
 
Itachi si girò verso il capanno e si meravigliò nel trovare lì Hikari, nel punto esatto in cui l’aveva vista prima di invocare la luna insanguinata.
             Lo fissava con gli occhi persi nel vuoto, stringendo ancora nelle piccole mani pallide la katana. Le sue pupille, probabilmente, stavano contemplando tutt’altre iridi da quelle color carbone che la stavano osservando.
             Le ci sarebbe voluto tempo per assimilare quegli avvenimenti, per capire cosa fosse successo, ma lui sapeva benissimo che non sarebbe più riuscita a guardarlo senza pensare allo sharingan, a sorridergli come in precedenza, e per quanto poche ore prima la cosa non lo toccasse minimamente, ora quel timore non gli dava pace. Aveva perso la fiducia di una persona cui aveva appena salvato la vita, e quella certezza lo feriva crudelmente.
Itachi non disse una parola; non ne trovava più, dentro di lui. Si diresse nello sgabuzzino e sollevò il corpo privo di sensi di Eiji, per poi dirigersi in casa.
             Nonostante la grande paura, lo spavento, il terrore che era corso sulla sua pelle e nelle sue vene come una lama infuocata, Hikari riuscì finalemente a sbattere le palpebre e un senso di riconoscenza riuscì a spronarla per farla entrare nell’abitazione. 



So che vi starete chiedendo perché diavolo Hikari abbia reagito in quel modo... e avete ragione! XD Nel prossimo capitolo scopriremo il motivo ;)
Grazie infinite per aver letto anche questo episodio, aver segnato "Ora è morto" tra le seguite/preferite :') grazie di cuore, perché è il primo mio vero tentativo di scrivere una fan fiction "seria".
Un ringraziamento speciale, doveroso, va a The Valkiria e DoubleSkin... la fortuna di avervi conosciute non riesco ancora a spiegarmela! *-*
A presto, 

Ophelia
   
 
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