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Autore: Subutai Khan    02/03/2008    1 recensioni
Frederick, guardando con estrema noia il signor Cahill avanzare goffamente verso lo scranno, ebbe l'inusuale voglia di fargli del male. Gli sarebbe piaciuto alzarsi dal suo posto, avvicinarsi con aria di sfida alla cattedra, afferrare il collo di quel vecchio sovrappeso e spezzarglielo con una sola mano.
Poi, per sua fortuna, tornò in sé.
Si era dimenticato di essere perfettamente in grado di farlo.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Katrina camminava un po' spaesata per l'aeroporto internazionale di Minneapolis-Saint Paul. Era molto, molto più grande sia del Pulkovo di San Pietroburgo, dal quale era partita ormai un giorno prima, sia dello Sheremetyevo di Mosca. Si sentiva un pochino sperduta, a dir la verità. Non vi era ancora traccia dei suoi compagni, nonostante i ripetuti richiami che aveva lanciato loro durante l'ultimo tratto del volo da New York.
Provò un'ennesima volta, mentre addentava un panino comprato al più vicino bar disponibile dopo aver superato mille difficoltà per farsi capire dagli indigeni. Il suo inglese era a dir poco zoppicante e riuscì persino a chiedere di farsi dare una bestemmia invece di un hot-dog.
Wang balbettò qualcosa sul jet lag e sulla stanchezza che lo permeava, mentre Hans non mancò di farle qualche avances leggermente spinta, annoiato come si diceva dal lungo viaggio da Francoforte.
“Gente inutile” rimarcò acida davanti alla superficialità mostratale come un trofeo di cui andare fieri.
Si rassegnò ad una lunga attesa. Cercò di trovarsi un passatempo piacevole, ma fallì miseramente. Era troppo concentrata sulla missione, e questa sua tensione palpabile non mancò di eccitare Hans, indispettire Wang e mettere in completo allarme Frederick.
Poi, dopo alcune ore di vagare senza senso durante le quali alcuni membri del personale dell'aeroporto l'avevano presa per una barbona disperata, ricevette finalmente una buona notizia: Hans era sbarcato. Corse di filato verso il terminal Lindbergh, dove fece una fatica boia a riconoscerlo. Una marea umana di persone, difatti, le si parò davanti. Lei, che a conti fatti non sapeva nemmeno che faccia avesse, si ritrovò spiazzata.
Esaurì la sua ricerca quando si sentì colpire leggermente alla schiena da quello che poteva essere un bastone. Si voltò di scatto e si trovò davanti un bel ragazzo, ben più alto di quanto non lo fosse lei, coi capelli corti e scuri tirati all'indietro e un sorriso furbetto. Le sarebbe piaciuto constatare il colore dei suoi occhi, ma li teneva chiusi e non pareva avere intenzione di aprirli. Si limitava a guardare nella sua direzione con uno sguardo compiaciuto.
Lei fece due più due.

“Hans... tu...”.
“Oddio, non mi starai facendo credere di essere stupita?”.
“Beh... a dire il vero... sì”.
“Sono cieco, già. Non ho ritenuto importante farvelo sapere”.
“Ma cazzo, Hans. Perché ce l'hai tenuto nascosto?”.
“A cosa sarebbe servito dirvelo, mia dolce zarina? Inoltre il mio handicap non inficia per nulla il mio ruolo, te lo assicuro”.
“Wang, dì qualcosa!”.
“Grunf... cosa vuoi, russa? Stavo dormendo, io”.
“Oh, ma impiccati. Almeno hai sentito?”.
“Cosa?”.
“Hans è cieco”.
“... lasciami riposare. Da Shanghai è un'odissea”.
“Spero di poterti ammazzare quando avremo finito, ammasso di letame ambulante”.
“Oh che peccato, il nobiluomo delle lande germaniche non ci vede. Mi si spezza il cuore dalla tristezza”.
“Stai tranquillo che 'sta ironia del cazzo te la facciamo ingoiare, magari insieme ai denti”.


Cominciarono a colloquiare in un inglese davvero ridicolo, almeno da parte di lei, giusto per non attirare troppo la curiosità dei passanti. I quali passanti, altrimenti, avrebbero potuto notare due tipi che gesticolavano e si scambiavano occhiate come se stessero parlando ma tenendo le labbra sigillate. E loro non volevano richiamare attenzione non richiesta, avevano già abbastanza grane per i fatti propri senza andarsene a cercare di ulteriori.
Passate altre ore, in cui Katrina sfiorò una crisi isterica e Hans sbadigliò all'incirca sedicimila volte, finalmente fu il turno anche di Wang. Il suo look da rapper fallito, tale solo perché non aveva il più orrendo dei catenacci in oro che gli pendeva dal collo, provocò in loro risa incontrollate e svariate frecciatine più o meno efficaci. In particolare fece faville il jeans strappato. Passò totalmente inosservata, invece, la cicatrice da coltello che adornava orizzontalmente il suo naso.

“Ma da dove sei uscito, dall'equivalente cinese del Bronx?”.
“E allora tu, con quella ridicola giacca in pelle di daino? E il signorino, che probabilmente avrà firmato anche il pisello?”.
“Per tua norma e regola, a casa mia fa sempre un freddo cane e se non si indossa uno di questi cosi tredici mesi l'anno si muore assiderati”.
“Sì sì, interessante. E ora che si fa? Dove troviamo il baldo Frederick McWillis?”.
“Non dovete correre lontano. Sono più vicino di quanto possiate pensare”.
“Ti è cresciuta della spina dorsale, contadino?”.
“Risparmia il sarcasmo, Katrina. Uscite dal terminal, dovreste trovare con facilità dei tram elettrici. Se uno di voi è in grado di comunicare in maniera almeno decente fatevi indicare quello che porta alla Mall of America. È la Hiawatha Line. Vi aspetto all'ingresso, teste di merda”.
“Stiamo venendo a prenderti, McWillis. Non hai scampo”.
“Bla bla bla. In Russia vi insegnano da piccoli a essere pedanti?”.


Le indicazioni di Frederick si rivelarono clamorosamente corrette. Per fortuna dell'eterogeneo gruppo Hans masticava la lingua locale decisamente bene e non fu eccessivamente problematico trovare il giusto mezzo di trasporto.
Un brevissimo viaggio li condusse finalmente a destinazione. Wang si premurò di non toccare nessuno che non fossero i suoi compagni.
Si avviarono con passo sostenuto verso la grande arcata che fungeva da entrata per il gigantesco centro commerciale. Schiamazzi di bambini felici e adolescenti su di giri li circondavano, ma erano troppo focalizzati per farsi distrarre da eventi tanto triviali.
Katrina lo riconobbe subito, come se lo conoscesse da una vita: era appoggiato al muro, i capelli scarmigliati e piuttosto unti, una sigaretta spenta che spuntava dalla sua bocca e un'orrida maglietta con su disegnato a mano il simbolo dell'Uomo Ragno. Una roba indecente.
Fece cenno agli altri di seguirla e si avventò su di lui come un avvoltoio si avventerebbe su una carogna appetitosa.

“Dio. Avevo sentito dire che gli americani si vestono malissimo, ma tu batti ogni malelingua”.
“Raschimova, finiscila di disquisire su 'ste stronzate. Abbiamo una questione da risolvere, noi quattro”.
“Temo di dovergli dare ragione, mia dolce zarina. E, se mi è concesso, consiglierei caldamente di proseguire con la farsa del parlare. Risultiamo troppo sospetti così”.
“Approvo”.
“Io pure”.
“Qua lo stesso”.


Hans aveva perfettamente ragione. Già qualche persona aveva gettato l'occhio su quel piccolo, bizzarro capannello di ragazzi dalle più variegate nazionalità ma apparentemente muti. E fu lui stesso a prendere in mano la situazione, instaurando con Frederick un discorso routinario e totalmente di facciata. Nel frattempo, nelle loro teste, avveniva il vero confronto.

“Allora, minnesotiano...”.
“Cos'è che sarei? Un minnesotiano? Ti prego, donna di San Pietroburgo, non farmi morire dalle risate. Non avevi detto che vi servivo integro?”.
“Basta con le troiate, per favore”.
“Sono con Wang”.
“Va bene, va bene. Dunque, piccolo rompiballe che non sei altro, spiegaci ancora una volta perché ti rifiuti”.
“Ma allora io, in questi dieci giorni, ho parlato con dei muri. Vi ho già detto che non posso fare quello che vorreste io facessi. È una cosa... apocalittica”.
“Lo sappiamo benissimo, questo. Ma noi tre abbiamo accettato quel che siamo e il compito che ci è stato assegnato. Tu, invece, ti stai attaccando a qualcosa che non è più tuo. Sei affezionato a quand'eri un essere umano”.
“Ti sbagli, Katrina. Io sono ancora un essere umano. Siete voi ad esservi persi, e a voler far perdere anche me”.
“Frederick, ascoltami. Sai che io, nel nostro piccolo entourage, sono la voce della ragione. Non mi sembra di essere mai uscito dal seminato della concordia”.
“Te lo concedo, Hans. Difatti sei quello che odio di meno”.
“Lo prenderò come un complimento, nonostante tutto. Quello che Katrina sta cercando di dirti, e che io e Wang approviamo in toto, è che il tuo destino è questo. A te evidentemente non piace, su questo non si può discutere. Ma non puoi sfuggirvi all'infinito. Ti stancherai, prima o poi”.
“Possibile. Ma finché ho la forza di oppormi lo farò, dovesse costarmi la vita”.
“Non sarà per mano nostra, questo lo sai”.
“Sì, lo so. E so che questo vi fa dannare l'anima. Forse tu no, ma Katrina e Wang godrebbero mille volte nell'ammazzarmi qui, adesso, se solo potessero. Confermate, vero?”.
“Certo che sì”.
“Ovviamente, mentecatto”.
“Siete deliziosi, davvero. Hans, te lo dirò una sola volta: io mi ribello. Non accetto che qualcuno mi dica cosa devo fare di natura, figurati se si tratta di... quello”.
“Senti, perché non ci mostri il vostro meraviglioso centro commerciale? Magari possiamo giungere a un compromesso mentre ci rilassiamo seduti. Inoltre non so te, ma io mi sto affaticando molto nel sostenere due conversazioni in contemporanea”.
“Sì, è difficile. E sia. D'altronde avete viaggiato solo per me, sarebbe scortese da parte mia non offrirvi qualche specialità locale”.
“Ma vai a fanculo, Frederick”.
“Madonna. Ringrazia che non ti posso toccare neanche con un dito, sennò ti farei conoscere la furia dell'Huli Jing Demoniaco”.
“Suvvia, quanto astio nei miei confronti. Prendete esempio dal tedesco. Lui sì che è sempre posato”.


Si incamminarono tranquillamente verso l'interno della Mall of America.
Pranzarono in silenzio in un ristorante del secondo piano. Ogni tanto Frederick e Hans si scambiavano qualche battuta, sempre per mantenere una parvenza di normalità, mentre considerazioni e contro-considerazioni volavano furibonde nei loro cervelli.
Wang e Katrina erano più che altro elementi di disturbo, buoni solo a scaricare la loro rabbia sotto forma di insulti veramente pesanti. Il vero contendere era fra gli altri due. E Frederick dovette ammettere più di una volta che Hans era un interlocutore dalla parlantina, o nel loro caso dal pensiero, sciolta e veloce. Ci sapeva fare e se lui non fosse stato assolutamente convinto della sua posizione avrebbe di sicuro finito col cedere. Quasi lo ammirava, per questo.
Ma non lo avrebbe fatto desistere. Nossignore.
Era una questione di libertà o morte.
   
 
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