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Autore: Honey Tiger    02/09/2013    13 recensioni
Sono Eva Salmons, uno dei tanti frutti del Dexcell. Ho 18 anni, e sono una ragazza estremamente riservata e poco socievole.
Non conosco molta gente, sicchè la mia madre adottiva mi ha sempre tutelata nei riguardi del mondo che mi circondava, così fino ad ora, ho avuto poco più che qualche paio di amici.
Ultimamente, non faccio altro che riflettere e farmi domande su una persona che non dovrei affatto avere tra i miei pensieri. Però non riesco proprio a levarmi dalla testa quei suoi occhi corrucciati dal dolore che mi trasmisero un malessere profondo con solo alcuni timidi scambi di sguardi.
Queste sono tutte certezze che io, come voi, che state leggendo questa sciocca sintesi della mia vita sino a questo momento, avete forse afferrato la significanza, ma quello che voi non sapete, cari miei lettori, è ciò che si cela dietro al mio sorriso spento di oggi. Quello che voi non sapete, e che forse nemmeno io riesco bene a comprendere è che questa cosa, che fa di me una "diversa" cambierà la mia vita per sempre. Da oggi a questa parte, nulla sarà più come prima. La scuola, le mie confidenze, le mie passioni...che cosa saranno?
Genere: Fluff, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 2. Eva Salmos. 

 


      Piove, piove fuori e dentro di me.
Ho la fronte imperlata di sudore, gli occhi ancora gonfi di lacrime e i vestiti impregnati di sangue: il suo sangue. Nella mia mente continuo a vedere i suoi occhi che mi supplicano di perdonarlo, ma io non posso, non posso farlo; non dopo quello che m’ha fatto.
Sento il cuore dilaniarsi, vuole uscire dal petto.
Sono sola e ho paura di affrontare il mondo ora. Come potrei del resto senza il suo supporto. Mi sento come un uccellino in gabbia, rinchiusa dentro un corpo che non mi appartiene più.
Assaporo il suo sangue portandomi un lembo del vestito alla bocca: è dolce.
Almeno adesso sono sicura di non potergli più fare del male.
Mi sento morire e se solo avessi il coraggio giuro che lo farei.
Mi ucciderei, si. Solo per sentire cosa avresti di nuovo da dirmi.
Sussulto quando una mano fredda mi sfiora la guancia. Mi volto e lo guardo con i miei occhi freddi e arrossati: è Josh. Sta male anche lui. Riesco a notare la sua sofferenza negli occhi, ma non ho la forza di parlare in questo momento o meglio non voglio farlo. Non gli sarei di grande aiuto.
Mi sorride, ha gli occhi talmente lucidi che riesco a specchiarmi in essi. Non devo essere proprio un bel vedere in questo momento.
«Non riesco più a vederti in questo stato.» Mi sussurra all’orecchio. Ha ragione, neanche io ho più la forza per convivere con me stessa. «Ti prego solo di perdonarmi» prosegue lui mentre percepisco un lieve piccotto nell’avambraccio. «Perdonami se puoi» Mi sussurra depositandomi un lieve bacio sulle labbra.
«Ma cosa…» Non riesco a concludere la frase che tutto intorno a me comincia girare, per poi svanire nel nulla.
Fine.
Sono forse morta?


Mi risveglio di soprassalto, ho di nuovo avuto un incubo. Sto forse impazzendo per caso? Per fortuna esso evapora dalla mia mente con facilità. È ora di iniziare una nuova giornata.
La solita routine che ripeto da oltre diciassette anni e che oggi dovrò riuscire a scardinare. Dopo aver preso un lungo respiro, mi alzo controvoglia e vado a infilarmi nella doccia. Adoro la sensazione dell’acqua che piano mi accarezza la pelle, riesce sempre a rilassarmi e calmarmi dopo ogni incubo in cui annego per tutta la notte.
Impiego una quindicina di minuti per prepararmi: indosso velocemente la divisa della mia nuova scuola, che consiste in una gonnellina a scacchi azzurra e nera, decisamente smilza, che a parer mio mette in risalto davvero troppo del mio misero corpo e mi fa sentire in imbarazzo, degli scaldamuscoli della stessa tonalità e colore, accompagnate da un paio di ballerine nere, decisamente scomode per una come me che è abituata a indossare sempre le scarpe da tennis. Sopra, una camicetta dalle maniche corte mi cinge il petto e una cravattina azzurra mi stringe il collo; sul braccio destro posiziono la fascia nera, che poi, in futuro segnalerà a quale corso apparterrò. Alla fine applicò un fiocco sul lato destro dei miei lunghi e profumati capelli neri e mi guardo allo specchio per controllare che tutto sia apposto.
Con mia grande meraviglia, noto che i miei occhi, solitamente dipinti di un verde smeraldo, sono ora tinti di un giallo candido, quasi trasparente. Mi piace vedere il gioco di colori che le mie iridi mettono in atto, anche se, quando succede, provo sempre un lieve mal di testa che non riesco a comprendere fino in fondo.
«Eva! Dobbiamo andare, muoviti se non vuoi perdere il treno o dovrai farti tutto il tragitto a piedi!» Mi urla Sally dal piano inferiore.
Sally è la mia madre adottiva, vivo con lei sin da quando ho memoria e per me è una madre a tutti gli effetti. Si è sempre presa cura di me, ricoprendomi di affetto, attenzioni e sincerità e io la ringrazio per tutto questo. Probabilmente senza di lei, oggi non sarei quella che sono.
«Piuttosto preferirei la morte» mentre dico questa frase mi esce un risolino, per un attimo pronunciare la parola “morte” mi ha dato una sensazione assai strana, ma comunque allontano quel pensiero senza pensarci troppo su.
«Beh? Allora? Ti vuoi muovere?» continua lei inducendomi a prendere la valigia strabordante di cianfrusaglie e libri vari, e a scendere le scale a tutta velocità.
«Ci sono Sally…» Sembrerà strano che io non la chiami mamma, ma, da quando ho la consapevolezza che da qualche parte nel mondo ci sia qualcuno che mi abbia abbandonata così senza pensarci due volte, credo che il titolo di “madre” non sia poi così importante e fondamentale.
Ad ogni modo le voglio lo stesso un gran bene. La guardo silenziosamente negli occhi, è davvero una donna molto bella per la sua età: è alta, dai lineamenti talmente dolci e armoniosi da conferirle un’aria estremamente bonaria e amichevole, mentre i suoi capelli lunghi e biondi, le trasferiscono quella sensualità travolgente atipica per i suoi cinquant’anni.
Mi fa cenno di seguirla e così, insieme usciamo da quella casetta dalle mura familiari. Fuori, un albero ricoperto di neve ci fa dimenticare che è settembre solo da pochi giorni, ma nello stesso istante ci fa ricordare che il Dexcell può tutto.
«Allora? Ti senti pronta bimba?» Mia madre nonostante i miei 17 anni suonati, continua a chiamarmi bambina! E io, per sua fortuna, glielo lascio fare.
«Alleluia! Credevo che non saresti più uscita da quella casa!» Vedo spuntare la folta chioma rossiccia di Mona ,che in un baleno mi è addosso con uno sguardo curioso, ben stampato in volto. Mona è la mia amica più cara, la conosco fin da quando ero piccola. Abbiamo frequentato la stessa scuola e anche adesso stiamo per intraprendere la stessa strada. Frequenteremo insieme una delle scuole più note dei Bariesu: Richford. Con lei al mio fianco mi sento più forte e coraggiosa, quindi capace di affrontare questa nuova esperienza. Non sono mai stata lontana da casa per troppo tempo, e qui, in questo istituto lontano chilometri da New Varsavia, potrò tornare solo per natale, pasqua e le due settimane di vacanze estive. E sarà così per i prossimi tre anni, nei quali accrescerò la mia conoscenza della cellula.
«Scusa, è che ho fatto un altro dei miei incubi e sono ancora un po’ scossa.» Le rispondo sottovoce, non voglio che Sally ci senta; si preoccuperebbe inutilmente per me e non voglio che succeda.
«Me ne vuoi parlare?» mi chiede l’esile figura al mio fianco.
«Non lo ricordo!» le rispondo velocemente io, mentendo e tagliando subito il discorso.
Piano, ci giriamo verso mia madre, che sta già posando le valige dentro la macchina. Noi siamo una delle poche famiglie ad avere ancora una macchina che non voli. La nostra è una semplice Poison azzurra, evidentemente datata.
«Muovetevi, ragazze!» sbotta Sally.
Facciamo per incamminarci e salire verso quello che sarà il nostro mezzo di trasporto, per raggiungere la stazione che poi ci condurrà a Krakow: luogo dove sorge l’imponente scuola dei Bariesu.
Una volta giunti al porto, Sally ci saluta con le lacrime agli occhi e augurandoci buona fortuna, ci abbraccia calorosamente. So già che mi mancherà molto, e per rivederla dovrò aspettare davvero tanto tempo.
Mi volto verso il treno che ruggendo e fluttuando tra le tubature celesti della stazione, ci avvisa che sta per partire.
Il caos generale mi impedisce di sentire le parole che Mona e mia madre mi stanno rivolgendo. Vedo solo che la prima mi indica di seguirla, facendosi spazio tra la folla, la quale spinge e preme per ottenere un posto in prima linea tra i binari del treno, per poter vedere meglio e così salutare i propri cari.
L’unica cosa che riesco a percepire intorno a me è un profumo tanto forte, quanto dolce, come fosse una qualche fragranza floreale.
Camminando in mezzo alla folla perdo improvvisamente di vista Mona, che viene come inghiottita da quelle figure stagliate tra le luci artificiali della stazione. Cerco di farmi spazio per raggiungerla ma, lentamente, vengo risucchiata e assorbita anch’io da quella stessa folla agitata di New Varsavia.
Mi sento spaesata, intorno a me non c’è più uno sguardo amico, un volto che io sappia riconoscere. Barcollo da un lato all’altro della strada, inciampando tra i passanti che totalmente assorti dai loro pensieri, non si accorgono nemmeno di starmi calpestando. La mia vista è come offuscata, le mie mani si irrigidiscono e la mente mi si annebbia, quando ecco che qualcuno o qualcosa mette fine al mio delirio.
Sento delle braccia, forti e accoglienti, sorreggermi e proteggermi da quel burrone che sta per inghiottirmi impietoso.
Rimango ferma per alcuni istanti, cinta da quelle mani che mi sembra di conoscere da tempo.
Che siano quelle di Mona? Mi domando senza fermarmi a dare un’effettiva risposta a questo quesito. In realtà non mi importa molto di chi siano, almeno per ora. So solo di essere al sicuro dal resto del mondo.
Lentamente incomincio a riacquistare quella vista che di punto in bianco ha deciso di abbandonarmi, facendo sì che tutto intorno a me ritorni ad essere caotico e rumoroso, come prima del mio malore.
«Va meglio?» mi domanda una voce maschile molto profonda. Avvampando notevolmente in volto, mi rendo conto che le braccia, che fino ad allora mi avevano sorretta, non appartenevano né a mia madre né a Mona.
«Chi sei?» esclamo sfuggendo al suo abbraccio, voltandomi verso di lui. Non riesco a vederlo bene in volto, sicché un cappuccio nero come la notte lo ricopre quasi totalmente, mostrandomi solo le sue labbra leggermente carnose, con una piccolo e superficiale taglio che gli graffia la parte inferiore di queste.
«Un grazie sarebbe stato più che sufficiente» mi canzona ironicamente.
«E per cosa dovrei ringraziarti? Per avermi stretta a te? Maniaco….» replico io del tutto fuori di me. «Se pensi di abbindolarmi ora, facendomi sentire in debito con te, ti sbagli di grosso!
Conosco i tipi come te! » proseguo mentendo. In realtà non ho mai avuto un rapporto chissà quanto intenso con il sesso opposto al mio. Sono sempre stata poco attratta dal mondo che mi circondava, e l’unico ragazzo che ho avuto è stato con me solo per pochi mesi; poi qualcosa, dentro di me, che non so bene spiegare, mi ha indotto a lasciarlo.
«Ah si?» mi domanda lui con una sfacciataggine inaudita. Sento il sangue pulsarmi nelle vene, scoppiettando e implorandomi di far fuoriuscire il peggio di me. Non capisco, sinceramente, perché io stia perdendo con così tanta facilità il controllo. Non mi era mai successo prima.
«Si bello mio! Oh, scusami! Tanto bello non devi essere visto che ti nascondi dietro un cappuccio da quattro soldi evitando di mostrare la tua vera identità » con vergogna mi accorgo di stare esagerando con le offese, ma ormai è troppo tardi per battere la ritirata.
«Vedo che ti piace fare conversazione, eh? » ridacchia lui portandosi le mani sul cappuccio e togliendoselo, permettendomi così di poterlo vedere in volto, senza maschere alcune.
Degli occhi del colore del ghiaccio una volta immerso nell’oceano mi congelano il cuore. I suoi lineamenti, tanto aspri e acerbi quanto dolci e puri, mi ricordano quante realtà il nostro mondo possa celare, e i suoi capelli, neri e spettinati, fanno sì che io percepisca il suo essere trasandato e vissuto, nonostante la sua giovane età.
«Beh? Ora ti risulta più semplice parlarmi?» si prende gioco ancora una volta di me con un sorriso quasi impercettibile. Poi, senza aspettare la mia risposta, che probabilmente non sarebbe mai arrivata, si volta e scompare tra la folla della stazione, lasciandomi sola come quando mi aveva incontrata.
«Eva? Che stai facendo?» Mi chiede Mona a pochi passi da me. Ero talmente tanto assorta nel vedere quello sconosciuto allontanarsi dalla mia vista, che non mi sono neanche accorta della sua presenza così vicina alla mia.
«Ho preso i biglietti. Salutiamo tua madre e poi andiamo che i posti in treno saranno già belli che occupati» prosegue lei prendendomi il braccio e trascinandomi verso mia madre. «Spero che a Richford ci sia molto da mangiare…ho una fame! Si dice in giro che… » Le parole di Mona sembrano sfuggirmi di dosso, mentre i miei pensieri confusi e offuscati cercano di avere la meglio su tutto il resto.
Non capisco perché io mi sia comportata in quel modo così sgarbato con quello sconosciuto, che altro non aveva fatto, se non sorreggermi dopo il mio malessere. Ma la rabbia, che per diciassette anni non avevo mai tirato fuori era come riuscita a liberarsi da ogni catena o trappola che la imprigionava, venendo fuori indomata.
Salutiamo mia madre e tra falsi sorrisi e qualche lacrimuccia entriamo in quello che, nel giro di sette ore, ci condurrà verso la nostra nuova casa.

   
 
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