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Autore: Jules_Black    02/09/2013    6 recensioni
Ottawa.
Radio Voice ha trovato un nuovo spocchioso conduttore che, in poco tempo, è divenuto la star radiofonica del momento: Duncan Rogers.
Allo stesso tempo, Mr. Holmes ha deciso di andare in pensione e di lasciare la sua società legale multimilionaria nelle mani di due avvocati di successo: Courtney Adair e Matt Jones.
Le vite dei tre si incontrano a causa di una denuncia del signor Smith, anzianotto, molestato dai rumori che il suo vicino di casa, Duncan Rogers, produce ogni notte a causa dei numerosi amplessi.
A tutto ciò si aggiungono un maniaco che sembra conoscere le opere di Shakespeare a menadito, fastidiosi fantasmi che sono riemersi dal passato e attrazioni quasi fatali.
Perché, come ci insegna Courtney, non ha molto senso aspettare ciò che non si vuole.
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Nuovo Personaggio | Coppie: Duncan/Courtney
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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Voice.
Capitolo quattro: “Where were you?”

 
Lost and insecure, you found me. You found me.
Lying on the floor, surrounded, surrounded.
Why’d you have to wait? Where were you?
Where were you?
Just a little late, you found me. You found me. 
[The Fray, You found me
]
 
Bzzzz.
“I presentatori di Radio Voice vi annunciano
con estremo rammarico la sparizione di Duncan
Rogers. Il noto conduttore è scomparso da più
di quarantotto ore; le ricerche vengono portate
avanti in tutta la città, anche se la nostra amata
star non sembra aver lasciato indizi che potrebbero
facilitarne il ritrovamento.”
 
Courtney si prese la testa tra le mani, dopo aver spento la radio che ancora gracchiava. Non riusciva nemmeno a immaginare perché Duncan avesse deciso di svanire, di evaporare, di non lasciare traccia.
Come se non fosse mai esistito.
Scossa da un moto di rabbia, picchiò il pugno sul tavolo, pregando qualche divinità che quel cretino si facesse vivo, in un modo o nell’altro.
Vivo.
“Torna, ti prego, torna.”
Un altro pungo sbattuto sul tavolo della cucina fece traballare la tazza di caffè che la donna aveva davanti. Una miriade di fotografie giaceva in una pila disordinata proprio accanto alla tazza.
Fotografie. Fantasmi del passato catturati sulla carta lucida da obiettivi opachi. Silenzi immobili in cui Duncan sorrideva e la stringeva a sé; momenti immortalati entro i bordi di un foglio, incancellabili.
Non riusciva a capire perché fosse sparito: l’aveva persino chiamato, facendo recuperare il numero a un’affranta e piagnucolante Amanda. Tutto quello che aveva ricavato era stato l’ascoltare la metallica voce del nastro registrato della segreteria telefonica.
“Salve, sono Duncan Rogers, la prego di lasciare un messaggio vocale dopo il segnale acustico.”
Piatto, vuoto.
Eppure aveva richiamato, poi di nuovo e un’altra volta ancora; perché non riusciva a stare lontana dalla sua voce, non riusciva far funzionar la sua vita senza di lui.
Ci aveva provato, eccome se ci aveva provato: un giorno di fine novembre aveva giurato a se stessa che lei, con Duncan Rogers, aveva chiuso per sempre. Eppure doveva saperlo, doveva aver ormai capito che il “per sempre” nell’amore non è contemplato.
Un avverbio di frequenza troppo banale, troppo cristallizzato, per funzionare.
Così ogni tanto si concedeva di pensare a lui: magari durante una commedia romantica, che guardava da sola con una confezione di gelato ipocalorico tra le mani. Magari appena sveglia, quando si voltava e accanto a sé non trovava nessuno.
Si concedeva spesso di pensare a lui, doveva ammetterlo; più del dovuto e del razionale, dell’auspicabile e del necessario, più di quanto avrebbe perfino ammesso.
La verità le saltò agli occhi inevitabile e definitiva, mentre osservava nuvole scure addensarsi nel cielo: lei non aveva mai smesso di amare Duncan.
E proprio quel mai, quell’avverbio così forte e definitivo, che per lo più significava “addio”, aveva deciso di assumere la sfumatura di significato più pericolosa: l’impossibilità di fare qualcosa, qualcosa di essenziale, come smettere di pensare a lui.
***
– Amanda, oggi non vengo in ufficio – sussurrò, stanca e demotivata nella cornetta. Dall’altro capo del telefono le giunse un sospiro affranto.
– Miss Adair, sono Mr. Holmes; temo abbia digitato erroneamente il numero dell’interno.
Courtney trattenne a stento un’imprecazione, poi si costrinse a rispondere con garbo e con educazione.
– Mi scusi, Mr. Holmes; ero sicurissima di aver premuto il tasto giusto – ammise, alzando gli occhi al cielo e ringraziando qualche divinità per il fatto che Mr. Holmes non potesse vederla.
– La trovo piuttosto… Tra le nuvole, ultimamente – proseguì l’uomo, con la sua voce flebile ma estremamente dura.
– Ho avuto qualche problema di natura personale – spiegò, brevemente, la donna, senza soffermarsi sui particolari.
– Il signor Jones ha provveduto a informarmi del suo lieve esaurimento nervoso – replicò lui, adesso quasi comprensivo. Courtney strabuzzò gli occhi.
– Esaurimento? – domandò, incredula. Poté sentire Mr. Holmes sospirare nella cornetta.
– So che è difficile ammettere di essere mentalmente instabili, ma credo che lei debba prendersi un bel periodo di vacanza. E per quanto riguarda quella promozione… Per il momento lascerò tutto nelle mani del signor Jones; provvederà lui a reinserirti a tempo debito.
Il tono di Mr. Holmes, seppur pacato, non ammetteva possibilità di replica. Courtney boccheggiò qualche parola indistinta, prima di prendere bruscamente fiato.
– Mi sta licenziando? – domandò, tagliente, con le mani che le tremavano incessantemente.
– La prenda come una vacanza momentanea; non è necessario che venga a firmare le sue dimissioni: il signor Jones provvederà. La saluto.
Mr. Holmes aveva riattaccato. Courtney si guardò intorno, spaesata, senza avere coscienza di se stessa né dell’ambiente che la circondava. Si sentiva… Svuotata. Assolutamente priva di qualsiasi recettore sensoriale che la mantenesse inserita nel modo.
Galleggiava, ecco.
Per un nanosecondo si chiese se per caso non fosse morta, se un infarto fulminante non l’avesse appena colta e si trovasse oramai a galleggiare nel più puro Nirvana, da creatura benefattrice quale era.
La sua vita stava letteralmente andando a rotoli.
Sentì lo spettro di una risata gorgogliarle nella gola, poi scoppiò a ridere, istericamente. Doveva essere tutto un stupidissimo scherzo. Tra poco Mr. Holmes sarebbe venuto fuori da dietro le tende con una telecamera e il mondo sarebbe tornato al suo posto, tassello dopo tassello, attimo dopo attimo. Invece nulla si mosse nella sua cucina asettina.
Non un alito di vento, non lo squillo di un telefono né il ronzare rassicurante di una telecamera e di un microfono.
Doveva essere davvero morta, perché l’ultima cosa che sentì oltre alla propria disperazione, fu il marmo del pavimento contro il palmo delle mani e poi contro il viso; era tutto così gelido.
***
Courtney Adair era sempre stata una guerriera: avrebbe potuto confermarlo Chris McLean o i suoi ex compagni di squadra; avrebbe potuto confermalo Daisy Sweetlife (*), la cicciottella che sedeva accanto a lei al corso di biochimica al liceo, con cui intraprendeva lunghe discussioni logorroiche pur di farle ammettere di aver torto; avrebbe potuto confermarlo l’intero corpo docenti della Harvard Law School; avrebbero potuto confermarlo tutti, ma non Duncan.
Perché lei, per lui, non aveva combattuto abbastanza.
Indecisa, spezzata, si era chiusa in casa da due giorni ormai; Matt Jones sembrava essere sparito dalla sua vita e Duncan era ancora dato per disperso. Con un moto di crescente agitazione, riprese il telefono e compose il numero dell’uomo, ormai imparato a memoria.
Squillava.
Qualcuno rispose al quarto squillo.
– Pronto?
Una voce roca di donna, impastata di alcool e fumo probabilmente. Courtney rimase per un secondo paralizzata, prima di ritrovare la voce.
– Duncan? – domandò, piuttosto tremebonda, quasi temesse la risposta. La donna senza volto respirò rumorosamente nella cornetta.
– Sta dormendo – rispose, piatta, atona; Courtney rimase per qualche istante in silenzio.
– Dove… Dove si trova? – chiese, sperando con tutte le sue forze che Duncan stesse almeno bene.
– Ragazzina, non è affar tuo – sibilò la donna; Courtney strillò qualche parola rabbiosa, ma si rese conto troppo tardi che la sconosciuta doveva aver riattaccato da un pezzo. Con un moto di pura stizza, buttò all’aria i giornali e le riviste che aveva posato sul tavolino del salotto. Aveva in mente l’immagine di uno squallido motel, con Duncan avvolto nelle spire di quella puttana sconosciuta, una di quelle sgualdrine con il rossetto rosso sbavato e gli occhi dalle palpebre pesanti. Per un secondo, un dolore sordo le divampò nel petto. Si sentì mozzare il respiro.
Riprese a poco a poco il controllo di se stessa, mentre lacrime irrazionali le rigavano le guance e una rabbia folle verso se stessa si prendeva gioco di lei.
Lei, che negli ultimi tre giorni aveva a stento mangiato. Lei, che era stata persino licenziata perché troppo presa da una storia fatta a pezzi. Lei, che l’aveva amato e che forse non aveva mai smesso di farlo.
E lui, quel lurido porco, non aveva fatto altro che sparire per rifugiarsi da una squallida puttana da quattro soldi, chissà, forse nel Vermont per quanto ne sapeva lei. Si diresse verso la cucina, del tutto incapace di proferire la minima parola. La sua vita era appena finita nel dimenticatoio e, per quanto si fosse aggrappata al baratro, non sarebbe mai riuscita a risalire a galla.
***
Bzzzz.
“Duncan Rogers sembra essere definitivamente
scomparso dalla faccia della terra. Non sembrano
esserci nuovi indizi, anche se gli investigatori
stanno battendo nuove piste. Per il momento si
esclude l’ipotesi dell’omicidio o del suicidio,
anche se sembra attendibile l’ipotesi
di una sparizione volontaria dell’uomo.
Ultimamente, la vita dell’uomo non sembrava
essere molto regolare…”
 
Ottawa brillava in quella calda e rassicurante aria di fine settembre. A ogni angolo di strada, dove prima il suo sorriso svettava, c’era una foto in bianco e nero di Duncan, sormontata da una scritta poco rassicurante: “scomparso”. Courtney guidava con una sorta di vaga rassegnazione, senza prestare molta attenzione al volto della ragazzo; si sentiva osservata, anche se quelle foto a due colori non rendevano giustizia ai suoi occhi acquamarina. Strinse il volante tra le mani con maggiore forza, prima di svoltare bruscamente a destra, immettendosi in uno dei viali più trafficati della città. Aveva bisogno di un nuovo lavoro e dato che ormai l’avvocatessa Adair aveva un certo fascino negli ambiente giuridici della città, si era finalmente decisa a fare il grande passo: mettersi in proprio. Aveva guadagnato abbastanza per permettersi un modesto ufficio nella City di Ottawa, qualcosa di non troppo appariscente, ma di estremamente professionale. L’agente immobiliare l’aspettava, anche se l’orologio segnava ormai le diciotto.
– Buonasera – lo salutò Courtney, dopo aver speso ben otto minuti e diciannove secondi a cercare di ritrovare l’appartamento lungo la via. L’agente immobiliare, un tipo magro e alto e persino giallognolo, la salutò con un cenno secco del capo.
– La puntualità – sbottò, riservandole un’occhiata risentita. Courtney lo fulminò con lo sguardo.
– L’educazione – sibilò in risposta, ticchettando con le sue Louboutin sino alla finestra, dalla quale la strada più trafficata di Ottawa era ben visibile.
– Le piace l’appartamento? – proseguì il tizio, scuro in volto, con un tono di voce piuttosto tagliente. Courtney annuì, continuando a guardare fuori dall’ampia finestra.
– Come vede, l’appartamento è centralissimo e molto grazioso, nonché ben illuminato. Se vuole seguirmi, le mostro la stanza principale.
La donna lo seguì osservando l’ottima dinamica di tutto l’appartamento: ingresso ampio e spazioso, una bella finestra che dava luce, faretti che illuminavano la stanza in maniera soffusa, ben incastrati nella cornice del soffitto.
– Tra l’altro, l’accesso è molto confortevole, con tanto di meraviglioso cortile interno – le fece notare l’uomo, accennando a una finestra che si apriva sul cortile del palazzo, i cui muri erano interamente ricoperti di edera rampicante.
– Piuttosto grazioso – mormorò Courtney – sporgendosi appena. L’agente immobiliare le sorrise, benevolo.
– Il prezzo è vantaggiosissimo! Il vecchio proprietario è estremamente ansioso di venderlo – le rispose il tizio, porgendole dei documenti che la donna scorse; a mano a mano che procedeva nella lettura, sentiva una rabbia indecente nascerle nel petto.
L’appartamento apparteneva a Duncan.
Duncan.
– Come mai il vecchio proprietario ha ansia di vendere un gioiellino come questo? – domandò Courtney, cercando di non far trasparire il suo immenso interessamento.
– Signorina, quanto si diventa una star, secondo lei ha molta importanza un appartamento stipato tra una banca e un consolato?
***
Courtney uscì dall’appartamento vagamente frastornata: che Duncan avesse numerose proprietà immobiliari era risaputo. Di certo non era così stupido da vendere un appartamento così lussuoso a un prezzo tanto basso. Ci doveva essere qualcosa sotto, qualcosa che a Courtney era sfuggito: un legame, un dettaglio capace di far luce su tutta la vicenda.
Duncan aveva bisogno di soldi liquidi; all’acquirente era richiesto il pagamento quasi immediato. Eppure non doveva di certo essere troppo disperato: la cifra non era troppo esosa; tuttavia aveva una certa fretta di concludere l’affare, a qualsiasi costo.
Vagamente irritata da quei pensieri, Courtney si diresse verso il posto dove aveva lasciato l’automobile; un passo dopo l’altro si rese conto che evidentemente doveva aver sbagliato strada, perché non era quello il luogo da cui era venuta. Oltretutto la strada era quasi deserta, dato che l’orario di chiusura di tutti gli uffici non superava quasi mai le diciotto e trenta. Particolarmente stizzita, fece marcia indietro, badando bene ad affrettare il passo. Non era nemmeno sicura che quella fosse la direzione giusta, dato che non riconosceva gli edifici ai lati della strada. Si fermò e inspirò rumorosamente. Certo non poteva essersi allontanata troppo, anche perché le case che la circondavano ostentavano ancora un lusso sfarzoso e le auto parcheggiate lungo il marciapiede erano perlopiù costose berline. Individuò infine un negozio di lusso che aveva notato mentre guidava: in vetrina vi erano esposti articoli di pelletteria troppo graziosi per non essere ammirati. Da ciò dedusse che le sarebbe bastato svoltare a sinistra e poi proseguire per qualche decina di metri prima di mettere di nuovo le mani sul volante. Rapidamente, iniziò a camminare verso quella direzione.
A un certo punto si sentì strattonare verso il basso.
In trappola.
Cadde con un tonfo sorso sul marciapiede, compressa da qualcuno che si agitava sopra di lei, tentando di tenerla ferma. Riusciva soltanto a sentire la forte puzza di alcool che quel corpo premuto contro di lei emanava; l’uomo la prese per i polsi, mentre lei cercava di divincolarsi.
Voleva Duncan.
L’urlo atterrito di qualche passante dovette spaventarlo, perché quello subito si rialzò e scappò via, senza tuttavia essere inseguito. Courtney riuscì a rialzarsi e solo allora si rese conto che dalle sue labbra ancora sfuggiva un grido sommesso: “Duncan, salvami.”
– Principessa, sono qui.
***
Non appena lo vide, Courtney si gettò letteralmente tra le sue braccia.
Non riusciva a sentire, a provare, nient’altro che non fosse Duncan.
Il suo odore, la sua mano che la premeva contro il suo petto, il suo respiro che le scompigliava i capelli. Le sue labbra premute sulle guance, inondate di lacrime; eppure lei non si era resa conto di star piangendo, almeno fino a quando Duncan non le aveva accarezzato il viso.
– Duncan – ripeté la donna per l’ennesima volta, seppellendo il viso terrorizzato contro il petto dell’uomo che la stringeva. Non riusciva a smettere di tremare; una parte del suo cervello stava tentando disperatamente di farle ricordare che lei era lì, tra le braccia dell’uomo che amava. L’altra parte riusciva a soltanto a visualizzare nella testa la sequenza di lei scaraventata a terra, con quel porco addosso. Un nuovo gemito sgorgò dalla gola di Courtney. Duncan la strinse più forte contro di sé.
– Va tutto bene – le ripeteva con voce carezzevole, una dolce cantilena contro cui Courtney si adagiò fino a calmarsi definitivamente. Una discreta folla di persone si era oltretutto accalcata intorno a loro, chi per timore, chi per curiosità. A un certo punto Duncan la scostò dal suo petto.
– Non sei ferita, vero? – le domandò, premuroso. Lei indicò le abrasioni che la caduta le aveva provocato, stringendosi nelle spalle.
– Nulla di grave. Solo qualche graffio – rispose infine, incapace di staccare le mani dalle spalle dell’uomo.
– Volete che chiami l’ambulanza? – domandò un passante, ma Courtney scosse ampiamente la testa.
– Sto bene – rispose, anche se aveva la voce rotta e l’aspetto stralunato. Duncan le sorrise, comprensivo.
– Adesso andiamo a casa, okey? – le domandò; Courtney annuì, grata. Si rimise in piedi; nel farlo, notò che un biglietto le era scivolato dal grembo. Duncan fu più veloce di lei e lo afferrò.
– “Sarai mia” – lesse ad alta voce, guardando poi la donna con aria indagatrice. Per tutta risposta, un nuovo fiotto di lacrime inondò il viso di Courtney.
– Il maniaco – riuscì a dire, tra un singhiozzo e l’altro, prima di gettarsi nuovamente tra le braccia di Duncan.
Perché lì si sentiva a casa.
– Maniaco? – domandò lui, allarmato, senza smettere di stringerla. Lei annuì appena.
– Ti prego, – sussurrò con voce rotta – andiamo a casa.
– Sì, Principessa – rispose lui, sciogliendo con delicatezza l’abbraccio. La prese per mano.
– Non andare via questa notte.
– Te lo prometto.
 
 
 
 
  
(*) Un omaggio a “Margherita Dolcevita”, l’opera di Stefano Benni che credo di amare, letteralmente.
   
 
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