Tracy.
Karma.
We gotta…we gotta do something about
this
Well you got to do something.
Yeah.
Cause
if we don't take care of this then... I
don't even want to think about it
Le
medicine non
bastavano più. “Va tutto bene, sempre
meglio” sbraitava il dottore “meno
pastiglie, meno pastiglie! Stai guarendo!”. La visione non
era chiara, e la
faccia del dottore si allungava e si stringeva, poi si allargava.
Sembrava che la
guardasse da dietro una boccia per pesci rossi.
Aveva avuto un pesce rosso, una volta. Ma ricordarlo le
faceva male,
perché era morto da tanti anni. “Tutto bene, tutto
bene, sei solo cattiva. Ma
quella è indole, non si può curare”.
Tracy
andava di corsa.
Correva a buttare la spazzatura e a comprare le sigarette, poi si
raggomitolava
sulla finestra. Potrei fare questo o quest’altro, pensava,
fra i dolori di
stomaco. Ho fatto questo e quest’altro, d’altronde.
Ricordare era anche peggio,
e non riusciva a sopportarlo. C’era stato un tempo, un tempo
remoto, in cui lo
stomaco non urlava in ogni minuto di veglia. Un tempo in cui la notte
portava
solo luna piena e lenzuola al profumo di lavanda. Ma c’era
stato davvero? O era
solo un’illusione, un riflesso di vite altrui in cui
rispecchiarsi?
Aveva
una cucitura nel
vestito, da cui ogni tanto tirava via con uncino il cuore e lo
analizzava
preoccupata. C’è del marcio, si diceva. Dovrei
andare in Danimarca. Ma come
potrei, dovrei correre per troppo tempo. Il mondo esterno non
è positivo. Il
mondo esterno è fatto di cose che cadono, di fognature che
mandano effluvi
quando piove, è un precipizio di suoni e dettagli
così struggenti da uccidere
chi passa per caso. Non le piaceva il fatto che tutto fosse collegato
da fili
invisibili, da sequenze numeriche facilmente decifrabili.
C’era chi pensava che
fosse una sorta di veggenza, ma non era vero. La realtà era
un libro
tendenzialmente ripetitivo. Causa e conseguenza. Percentuali
probabilistiche.
Fisica delle particelle. Regole dappertutto.
Lei
aveva capelli ricci
e non era bella. Era comunque una spanna sopra Tracy. Tracy aveva
notato, e
aveva preso atto. Lei sarebbe potuta sembrare solo un puntino
all’orizzonte, ad
un occhio poco allenato. Punto A punto B punto C. La cosa non la
sconvolse più
di tanto, quando successe. Era logico. Rientrava nella casistica. Forse
era
quasi una prerogativa, come incontrare la stessa persona il quattro
novembre di
ogni anno, o andare a laurearsi con la febbre. Alla sua laurea
c’era solo la
sua famiglia e nessuno aveva portato una macchina fotografica,
né coroncine
d’alloro, né mazzi di fiori. Tuttavia non era
così importante, la sua laurea.
Non era mica come suo fratello, che lui sì che aveva
studiato una cosa
difficile e aveva invitato tanti amici a festeggiare.
Che sagoma, tuo fratello. Così solare. Mica con il tuo
caratteraccio,
Tracy, che sei sempre immusonita. Dopo la discussione, se ne
andarono a
casa. Non aveva invitato i suoi pochi amici, Tracy. Non voleva rubare
loro del
tempo per qualcosa di così noioso. I suoi genitori non le
regalarono nulla. Dopotutto,
Tracy, non era una facoltà molto difficile. Figurati cosa
vuoi aver imparato, e
ti sei pure laureata in ritardo.
Qualche
anno dopo nei suoi
sogni comparivano ancora i visi di vecchi compagni
dell’università. Pensò
dunque che quel periodo, a posteriori, non fosse stato poi
così tremendo.
Invece le venne da vomitare e fu costretta a smettere di ricordare. Te lo ricordi quel tizio al primo anno,Tracy,
diceva una voce nella sua testa,
quella
volta che eri sola nel cortile, aggrappata a una sigaretta, avvolta
dentro te
stessa. Avevi una giacchetta in tartan rosa che avevi comprato qualche
giorno
prima. Pioveva, e tu pensavi a quanto fosse ingiusto essere soli a
novembre.
C’era un poeta, ma lo avresti scoperto tempo dopo, che diceva
che un anno aveva
sedici mesi. Dodici normali, e altri quattro novembre in aggiunta,
giusto perché
l’esistenza non è abbastanza buia di suo. Poi la
porta a spinta si era aperta
con un tonfo poco aggraziato. Era quel tizio tanto carino che vedevi
sempre a
lezione. Speravi ti ignorasse. Invece lui si era avvicinato, e aveva
cominciato
a raccontarti della tua vita da musicista. Di dove sei, Tracy? Ah,
sì, ho
suonato nella tua città. C’è una bella
scena hardcore. Vieni, ti offro un
caffè, aveva detto, rovistandosi nelle tasche. Oh, povera
Tracy, a quel punto
eri entrata in panico. Mi fa schifo il caffè, avevi
sibilato. Dovrebbero
abolirlo per legge. Sciocca, sciocca Tracy. Proprio tu che bevevi litri
di
caffè al giorno. Tutto era cominciato da lì.
Sognavi di scopartelo sul divano
della casa in affitto quando veniva a studiare da te e non
c’era nessuno,
tantomeno quella coinquilina stupida che non lavava mai i piatti. Te lo
ricordi, uh, Tracy? Quando finalmente ti aveva chiesto un appuntamento-
un
appuntamento vero- e
tu ti eri messa
tutta in tiro, con quel maglioncino che aveva un buco sulla schiena, in
fondo,
ma ti stava troppo bene,e poi era l’unico maglione pulito che
avevi al momento.
Lui aveva una giacca di pelle che sapeva di canfora, lo sapevi bene,
perché ti
aveva stretta a sé e tu gli arrivavi al petto. Piccola,
bassa Tracy. Avevate bevuto
ed eravate sempre più vicini, però poi era
arrivata la sua ragazza. L’aveva
invitata per farle conoscere la sua cara compagna di corso. Scusate il
ritardo,
aveva detto lei baciandolo, rischiavo di non poter venire. Te lo
ricordi, Tracy?
Lei era tanto carina e alla fine della serata tu eri nel cesso a
vomitare e lei
ti reggeva la testa. Il
giorno dopo
avevi un esame. Occhi pesti e un 23 strappato non si sa come. Anni di
appunti
regalati, riassunti fatti in fretta e furia alle tre di notte per
compiacerlo.
Per elemosinare un bacio che non era mai arrivato. Ma lui ti
abbracciava e ti diceva
“Sei così eterea” e tu ti scioglievi in
un brodo di giuggiole quando ti
stringeva la gamba sotto il banco, a lezione. Ogni volta avevi sperato
che la
sua mano salisse, e il solo pensiero ti faceva scappare
dall’aula in preda al
panico. Quante lezioni che hai perso, Tracy, solo perché lui
ti si sedeva
accanto e tu non riuscivi a sopportare il desiderio di possederlo.
Gliel’hai
detto, a mamma, che ti sei laureata in ritardo perché avevi
gli ormoni in
ebollizione?
Anni
dopo Tracy
l’aveva detto a lui. Ma sì, era acqua
passata, che importava. Ormai era solo un ricordo sbiadito, vago e
lontano. “Mi piacevi, una
volta” gli aveva detto.
“Ti ricordi che tremavo sempre, e tu
mi
prendevi in giro perché pensavi soffrissi il freddo. Sai,
non era il freddo”.
“Non l’avevo
notato” le aveva
risposto lui gelido, e lei non l’aveva mai più
sentito.
Tracy
guardava i treni
passare, e il medico diceva che tutto andava bene. Ma che voleva
saperne, il
dottore, di quello che le correva per la testa, attutito dallo schermo
benevolo
delle medicine. Mi spaccheranno il fegato, un giorno, pensava.
Diventerò gialla
canarino e allora sarà già troppo tardi,
volerò via in un letto di ospedale, io
che ho sempre odiato volare. A Tracy non piacevano molto i medici.
Aveva avuto
a che fare con uno studente di medicina, una volta. Il tizio si
impasticcava
per benino perché sapeva farlo, diceva. Lui aveva i capelli
neri e amava
cantare. Anni dopo Tracy incontrò una ragazza sul treno, una
che aveva
conosciuto in quel periodo, una del gruppo. “Oh,
lui soffriva di schizofrenia paranoide.
Ma lo sapevi, giusto, Tracy? D’altronde lo sapevano tutti.
” Ma Tracy non lo
sapeva, Tracy non sapeva un bel niente. Eppure c’erano state
le regole per
capirlo, scritte in bei caratteri in cielo e fra gli abbracci troppo
forti,
troppo soffocanti. Fra le cose che lui sosteneva di vedere, e lei
pensava che
scherzasse. Fra le braccia che erano un reticolo di tagli, ma, si sa,
succede
ad alcuni adolescenti. Quando poi lui si era perso del tutto, aveva
iniziato
lei. L’aveva infettata, forse? Le aveva attaccato qualcosa,
una visione del
mondo distorta e malata, fatta di alberi che diventavano mostri e
luoghi chiusi
che si richiudevano in un vortice su se stessi? E
giù a medicine, anche quando l’adolescenza
era passata da un bel po’, e poi via dal dottore che ora
diceva che stava
guarendo.
Ma
durante i cambi di
stagione il cuore di Tracy martellava nel petto con troppa forza. L’aria
frizzantina delle prime sere di fine
estate le si infilava su per il naso e scatenava il panico. Sta per
succedere,
pensava Tracy, senza capire bene cosa
esattamente dovesse accadere. Il non saperlo era ancora peggio.
Respira.
Inspira. Ossigena il cervello senza andare in iperventilazione. Prendi
le
gocce, dove sono le gocce, ah, ecco. Ora mettile sotto la lingua.
Stringi le
chiappe. Cammina. Pensa ad altro. Cosa dovevi fare, esattamente? Ora
passa. Ma
non passava. Faceva male, la puzza di settembre. Le ricordava la sua
prima
volta, schiacciata su un impermeabile steso su un prato sporco. Lui le
aveva
fatto male, troppo male, e lei aveva pianto e lui si era arrabbiato. La
sera
Tracy aveva lavato le mutande sporche di sangue di nascosto, mentre si
chiedeva
se avesse sbagliato a valutare qualcosa, perché la prima
volta è sempre
speciale, lo dicevano tutti. Ma a lei aveva lasciato solo una gran
voglia di farsi
la doccia. Durante la notte lei fece un sogno strano, che raccontava di ciò che
sarebbe accaduto l’indomani. Lui
lasciò la mattina dopo alle sette, davanti alla scuola. Per
Tracy non fu una
novità. Si premurò solo di nascondersi prima di
scoppiare a piangere.
Ma
ancora prima, cosa c’era stato, Tracy? Cos’ha
scatenato la tua follia? Avevi
quindici anni ed eri in vacanza. Rileggere il diario di quei giorni
è come
guardare un film che punta verso il delirio a tutta birra. Eri bella,
Tracy?
Tutti sono belli a quell’età, no? Ma lui non aveva
occhi per te. Ti sussurrava canzoni
dei Nirvana e poi si scopava una tizia austriaca. Lei era una facile,
bastava
una moneta per portarsela in tenda. Eppure, Tracy, tu avevi visto
qualcosa nel
suo sorriso sottile quando ti guardava di sfuggita che ti aveva fatto
credere
di poterlo tirar via da quel mondo. Tracy, non è divertente
ricordare e notare
parallelismi fra storie che, dai, si sapeva che sarebbero andate allo
stesso
modo? Un passo a due. Di coppia in coppia. Tremavi, povera ingenua,
quando gli
hai chiesto se a lui andava di fare un giretto con te. Voi due soli.
Per
parlare. Mi piaci, gli avevi detto arrossendo. Mi piaci tanto. Alla
fine tu eri
a piangere in spiaggia, sotto le stelle, e un tizio che conoscevi poco,
quello che
beveva sempre latte e menta, era arrivato per caso, o forse ti aveva
seguita,
perché a mezzanotte, in spiaggia, è difficile
trovare qualcuno, se non lo stai
cercando. Non piangere, ti sussurrava facendo correre le sue dita sulle
guance,
sei così bella, Tracy. Lui non ti merita. Hai dei begli
occhi, usali. Poi i
tuoi begli occhi erano annegati nei suoi, in un bacio che non voleva
dire
niente, che urlava solo portami via.
Ma
il giorno dopo Tracy
era sulla bocca di tutti. Sua madre l’aveva presa per i
capelli e chiusa a
chiave nella sua stanza. Puttana,
dicevano tutti lì in paese. La turista ha sedotto il
fidanzato della nostra figghia
più bella. Maria Rosa, quella
che sarebbe andata a Roma, via dal paese, per sposarsi con quel bravo
ragazzo,
adesso era piena di vergogna . Proprio quel giorno era il compleanno di
Mister
Latte e Menta. Maria Rosa andò alla festa di compleanno del
suo fidanzato. Loro
lo sapevano. Gli invitati lo sapevano. Ma Maria Rosa e Latte e Menta si
baciarono lo stesso, perché bisognava fare finta di niente.
Mancava una
persona, alla festa, e la sua assenza pesava come il piombo. Vagava fra
gli
invitati e i sussurri a mezza bocca.
Tracy
passò la giornata
a piangere nel letto aspettando che lui la chiamasse e la invitasse a
mangiare
un pezzo di torta. Il terzo giorno, finite le lacrime, uscì
dalla sua
reclusione coatta. Camminava per strada, e lui le si
affiancò “Hai ottenuto
quello che volevi, eh?” le sussurrò a mezza bocca,
poi la superò. Tracy si
chiese se Latte e Menta scherzasse, ma non disse nulla.
Una
settimana dopo
camminava da sola sulla spiaggia. Era una giornata particolarmente
fredda e
ventosa, per essere luglio,e lei si stringeva nella felpa nera. Lo vide
arrivare da lontano, e quando le fu davanti notò che i suoi
occhi erano pieni
di lacrime “Hai
incasinato tutto” disse
Latte e Menta “Il mio futuro era già scritto e poi
sei arrivata tu, con quei
cazzo di occhi verdi.” Tracy lo fissò da sotto in
su. Cominciò a cadere qualche
goccia di pioggia. “Dimmi solo una parola, Tracy, e io mollo
tutto, te lo
giuro. Dimmi una parola e ti porto via, ce ne andiamo, io e te. Per
sempre.” Tracy
lo guardò per un attimo,
poi scoppiò a ridere.
“Avresti
dovuto
invitarmi alla tua festa” disse. Poi se ne andò,
lasciandolo sotto la pioggia.
“Va
tutto bene, va tutto bene” diceva il dottore “Sei
solo cattiva, ma quello non
si può curare. E’ solo Karma, figliola. Ad un
certo punto passerà. Credo”
Note
dell’autrice
Allora,
ragazzi, anche se di
solito non lo faccio, vorrei spiegarvi il senso di questa storia. In
primo
luogo perché ci tengo molto, in seconda battuta
perché non è giusto buttar
sempre sassi nello stagno senza mai spiegare perché. Non so
se è comprensibile
a una prima lettura, ma la storia va a ritroso a cercare la radice di
un
malessere che, sorpresa! E’ nient’altro che la
conseguenza di una brutta azione
commessa in un tempo remoto. A volte basta una parola per condizionare
il corso
delle cose, e in questo racconto ho voluto portare la cosa alle sue
“estreme”
conseguenze. Qui si parla di attacchi di panico, è la
patologia di cui soffre
Tracy e di cui ho sofferto anch’io per un certo periodo. Se
qualcuno di voi ne
soffre vi mando un caldo abbraccio e vi assicuro che non siete soli e
che prima
o poi se ne esce. Se avete voglia di scrivermi per condividere il
vostro
disagio, sappiate che ci sono.
Poi,
è ora di buttar giù la
maschera con chi mi segue da sempre. Penso di fare un regalo gradito a
chi ha
letto le mie storie in questi anni se svelo una cosa che ho taciuto
fino ad
adesso (ma che molti hanno già colto): la maggior parte
delle mie storie sono una
il seguito dell’altra, o sono comunque collegate da fili
sottili. Questa,
per dire, contiene parecchie
spiegazioni a domande che eventualmente vi siete posti. Per esempio
(coff coff)
che senso aveva Paludi e quel CAFFE’ rifiutato? Voilat la
storia completa in un
pezzo di questa. Sono malata, giusto? Ma questo me l’avete
sempre detto! A voi
l’arduo compito di collegare il resto, se ne avete voglia.
Prima di salutarvi:
le parole in corsivo all’inizio sono prese da Tracy dei
Mogwai, canzone che ho
ascoltato allo sfinimento mentre scrivevo questa storia. Grazie a tutti
per le
recensioni che mi avete lasciato alle ultime storie, piano piano
risponderò a
tutti.
Un abbraccio
Alice