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Autore: LaRagazzaConLaSciarpaRossa    03/09/2013    3 recensioni
AU!
Elena Gilbert è una giovane avvocatessa appena laureata che viene convinta dalla sua migliore amica Caroline a raggiungerla a New York dove lavora allo studio legale Somerhalder&Wesley. L'ultima cosa che le interessa è farsi coinvolgere da un ragazzo, ma quando conoscerà Damon Salvatore scoprirà che non è facile dire di no a due occhioni profondi.
Dalla storia "Prima di alzarmi dal letto quella mattina, rimasi avvolta dalle lenzuola leggere per dieci minuti buoni. Avevo sognato Damon. Oddio era così strano chiamarlo per nome. Mi dava l'impressione di conoscerlo. E questo non poteva assolutamente essere più stupido visto che avevamo scambiato appena qualche parola sull'aereo mentre cercavo ripetutamente di non vomitare. Ma dovevo essere onesta con me stessa: mi aveva colpito. All'inizio in modo negativo e dopo in modo molto, molto positivo. Era uno sconosciuto e si era preso cura di me in un momento in cui mi sentivo letteralmente morire"
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caroline Forbes, Damon Salvatore, Elena Gilbert, Stefan Salvatore, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chelsea Apartment No 2

 

Pov Elena

 

«Il volo 5862 diretto a New York City è in partenza. Preghiamo i signori viaggiatori di avvicinarsi al Gate 18 per l'imbarco».

Alzai lo sguardo dalla rivista che stavo leggendo distrattamente e mi concentrai sui suoni provenienti dall'altoparlante inchiodato al muro dell'areoporto di Richmond. Era il mio aereo, non potevo più tirarmi indietro. Infilai la rivista nella shopper color salmone e mi alzai dalla poltrona nella sala d'attesa. Respirai profondamente un paio di volte prima di mettermi in fila dietro le altre persone che, contrariamente a me erano entusiaste di mettere piede sul velivolo. Due hostess presero in esame il mio biglietto e mi sorrisero accomodanti. Probabilmente riservavano quella premura a tutti quelli che viaggiavano in prima classe. Dovevo ringraziare la mia migliore amica Caroline per quel biglietto in prima classe. Lei sapeva che non ero un'amante del viaggio in aereo così mi aveva spedito quel biglietto nella speranza che riuscissi a rilassarmi un po'. Come se avessi potuto davvero farlo, a 13.000 metri da terra.

Una delle hostess mi accompagnò verso la parte anteriore dell'aereo e m'indicò la poltrona 56, la mia. Ero sbalordita dall'atmosfera di eleganza e lusso che si percepiva all'interno. Come faceva un posto così stretto e limitato ad essere più sfarzoso del mio piccolo appartamento nel cuore di Richmond?

Camminai nel corridoio osservando gli uomini in completo scuro che pigiavano i tasti dei loro portatili e le anziane signore che tentavano di imitare la regina Elisabetta con i loro cappelli colorati.

Mi sedetti sulla poltrona centrale. Era comoda e spaziosa, aveva addirittura il poggiapiedi. Nuovamente trovai inevitabile paragonarla con il mio divano comprato in negozio vintage. C'era poco da discutere, le persone che si erano occupate dell'arredamento dell'aereo erano indubbiamente più capaci di me.

Allacciai la cintura di sicurezza e tentai di ignorare il peso sullo stomaco causato dal mio -finora ben celato- nervosismo.

«Desidera dello Champagne?» mi chiese una delle hostess un secondo dopo essermi sistemata. Improvvisamente mi illuminai. Champagne? Quale modo migliore per rilassarsi se non con dell'alcol in circolo?

«Certo!» risposi entusiasta. Forse Caroline aveva ragione, forse questa volta il viaggio sarebbe stato godibile.

«E per lei signore? Desidera dello Champagne?».

Mi voltai incuriosita. Non avevo nemmeno realizzato che accanto a me ci fosse qualcuno. Ero troppo presa ad assaporare la magica atmosfera della prima classe.

Il ragazzo era vestito casual. Indossava un pullover scuro dal quale usciva il colletto blu navy della camicia e un paio di jeans neri. Ma quando si voltò per rispondere alla donna rimasi senza fiato. I suoi occhi erano icredibili. Avevano un'inclinazione verso il basso che gli donavano uno sguardo maliconico e ammaliatore. Le iridi poi erano di un intenso celeste così particolare da sembrare innaturale. Il viso era di forma triangolare, caratterizzato da una mascella squadrata e la fronte alta che però era nascosta da disordinati capelli corvini.

«Prefersico del Bourbon, grazie» sorrise alzando a destra le labbra sottili.

Tornò a guardare fuori dal finestrino e io tentai di ricompormi recuperando un po' di quell'autocontrollo che avevo coltivato nei miei venticinque anni a contatto con il genere maschile.

Ma non riuscivo a resistere, dovevo guardarlo ancora. Giusto per controllare di non essermi immaginata niente. Anche se era seduto potevo dire con certezza che era più alto di me grazie alla lunghezza delle sue gambe, il fisico era snello e l'aspetto elegante e curato. Trasmetteva anche un' aria dominante e imponente con le sue spalle larghe e le braccia atletiche che si intravedevano dal pull. Ripensadoci dire che aveva un bell'aspetto non era nemmeno lontanamente sufficiente per descriverlo.

«Posso fare qualcosa per te? Una foto...un autografo?» domandò il ragazzo posando nuovamente lo sguardo su di me. «Una sveltina, magari».

Sgranai gli occhi e sentii le guance che si surriscaldavano. Ma che razza...?

«Scusami?» chiesi con un tono di voce acuto «Ma come ti permetti? Chi ti credi di essere?»

«Oh perdonami. Non volevo offenderti» mormorò innocente «Vedi, mi capita spesso di ricevere proposte simili»

«Davvero impressionata» dissi tagliente. Sbruffone. Ritirai tutto ciò che avevo pensato prima, poteva essere anche bello come un dio greco o nordico -visti gli occhi glaciali- ma certamente il suo punto di forza era la spavalderia.

«Lo so, faccio sempre questo effetto alle ragazze». Ancora quel sorriso obliquo. Cos'era? Un marchio di fabbrica per caso?

«Ero ironica»

«Io no» sorrise ammiccante e io alzai gli occhi al cielo. Se i ragazzi di New York erano tutti come lui cominciavamo male. Se c'era qualcosa che non sopportavo erano i ragazzi sbruffoni e arroganti, non ero più al liceo e non avevo quindi l'obbligo di sopportarli.

«Ecco a voi» L'hostess era arrivata con due bicchieri in mano. Un calice di champagne e un bicchiere appena riempito da un liquido ambrato.

Il ragazzo sorrise alla donna maliziosamente. «Le hostess sono il sogno erotico di ogni uomo» mi spiegò non appena l'assistente di volo si era allontanata lungo il corridoio dell'aereo.

Ricambiai il suo sguardo con un'occhiata scettica e mi voltai immediatamente dalla parte opposta. Mi metteva a disagio. Più delle sue battutine erano quegli occhi a paralizzarmi. Erano bellissimi, i più seducenti che avessi mai visto. E io non volevo passare per quella a cui bastavano due occhi a calamita per sciogliermi. Ancora di più se erano di proprietà di un idiota sessista.

Posai le labbra sul calice e bevvi una generosa sorsata di champagne. L'aereo stava decollando e sentivo la paura crescere ed espandersi lungo tutto il corpo. Chiusi gli occhi e appoggiai la testa alla poltrona per cercare un po' di sollievo. Dio quanto odio volare. Era qualcosa che non avevo mai sopportato. Ero sempre stata una con i piedi per terra. Anzi una con i piedi cementificati a terra, per meglio dire e probabilmente questo era uno dei motivi che mi impediva di apprezzare il volo.

Rimasi immobile, tesa come una corda di violino, per un tempo che mi sembrava infinito. Quando riuscii a rilassarmi, il dannato veicolo sobbalzò improvvisamente. Calma, stai calma, sono solo due ore di viaggio mi dissi mentalmente. Perché diavolo mi ero fatta convincere? Dovevo prendere il treno come avevo progettato. Se fossi morta sarei tornata come fantasma e avrei tormentato Caroline fino alla pazzia.

Aprii gli occhi per un secondo e vidi la hostess barcollare per un sussulto dell'aereo.

Cazzo, cazzo, cazzo.

Cominciai a respirare faticosamente, le mani tremanti avevano cominciato a sudare. Mi mancava l'aria, il respiro era mozzato. Ecco, lo sapevo. Sapevo che sarebbe andata a finire così. Altro che New York, altro che nuova vita, sarei morta in mezzo all'Atlantico, sbranata dai pescecani!

«Ehi, tutto bene?».

Il ragazzo accanto a me mi stava guardando pensieroso. Ci mancava solo lui.

Mi morsi il labbro e scossi la testa, incapace di formulare una sola vocale. Non stava andando tutto bene, per niente. Cominciai a guardarmi intorno per vedere se ero la sola che si stava agitando ma appena mi voltai verso le anziane che avevo addocchiato quando ero salita a bordo, l'aereo subì un altro scossone e chiusi gli occhi di scatto, stringendo le mani al poggia gomito del sedile.

Morti, morti, morti, saremo tutti morti.

All'improvviso sentii una mano stringere delicatamente ma con determinazione la mia. Aprii gli occhi e vidi il bel passeggero dai capelli scuri sorridermi fiducioso. Nessun sorriso ammiccante, nessuna occhiata maliziosa o piacente solo un'espressione...rincuorante. Non era preoccupato, non era in preda all'ansia come lo ero io. Mi teneva la mano come se fosse la cosa più naturale del mondo nella circostanza più tranquilla del mondo.

«Va tutto bene, ci sono io».

Lo guardai e cominciai ad analizzargli il volto con estrema concentrazione. Se non altro questo riusciva a distrarmi dalle turbolenze.

Aveva i lineamenti del viso marcati ma non duri o aggressivi, quando sorrideva gli spuntavano delle sensuali fossette intorno alle labbra. La fronte alta era nascosta da ciocche di capelli vaporosi. Se facevo attenzione riuscivo a sentire il profumo di dopobarba che aleggiava intorno a lui.

«Chiudi gli occhi» mi disse gentilmente e io lo guardai titubante. «Non ti bacerò all'improvviso, a meno che non sia tu a chiedermelo» aggiunse ridacchiando.

«Cosa? Io non ti chieder...ah» tentai di rispondergli a tono ma l'ennesimo sobbalzo improvviso mi ammutolì.

«Chiudi gli occhi, è utile per soffrire meno i singhiozzi dell'aereo» riprese serio.

Lo guardai ancora una volta, velocemente per fotografare il suo viso e poi chiusi gli occhi cercando contemporaneamente di controllare il respiro. Mi sentivo inspiegabilmente sicura e protetta con la sua mano stretta nella mia. Era stupido forse ma era come se lui fosse un'ancora in grado di tenermi sulla terra ferma dove nessuna scossa poteva spaventarmi e lentamente cominciai a rilassarmi. In realtà non sapevo dire se era perché l'aereo aveva cominciato a stabilizzarsi o perché lui mi teneva stretta ma in ogni caso rimasi sorprendentemente felice quando, finita la turbolenza lui mantenne la sua mano sopra la mia.

Restammo così, in silenzio, per tutto il viaggio, finché l'aereo non cominciò ad atterrare e allora aprii gli occhi.

«Non siamo morti» disse il ragazzo lasciando la mia mano con delicatezza.

«Un gran sollievo».

Quando le assistenti di volo entrarono nella nostra area, cominciarono ad indicare le uscite con gesti autoritari. Tutti i viaggiatori e turisti si avviarono verso il corridoio formando una fila compatta. Io camminavo stringendo la mia borsa. Sentivo la presenza del ragazzo dietro di me e mi spuntò un sorriso. Alla fine non era poi così male.Si era rivelato meno fastidioso di quanto avevo immaginato. Anzi.

«Allora...posso conoscere il nome della ragazza che ha declinato la mia offerta indecente?» domandò allegro raggiungendomi una volta entrati nella zona arrivi per recuperare i bagagli dai nastri trasportatori.

«Non credo tu l'abbia meritato».

Lui sorrise imbronciato «D'accordo. Io sono Damon comunque» porse la mano e io la strinsi immediatamente. Era ancora calda. Damon si voltò per recuperare il suo trolley rigido nero e tornò a guardarmi. «È stato un piacere, Miss Senza Nome» sorrise avviandosi verso le uscite mescolandosi tra la folla creata con gli arrivi degli aerei. Rimasi a guardarlo allontanarsi per un pò, fino a quando non fu invisibile e continuando a domandarmi se non fosse il caso di inseguirlo e rivelargli il mio nome...o il mio indirizzo.

Posando lo sguardo su un'allegra famiglia indaffarata con le valigie tornai con i piedi per terra e mi avviai verso i rulli trasportatori dove la mia valigia azzurra girava a vuoto. Con un po' di difficoltà la recuperai e l'appoggiai a terra. Normalmente non mi portavo molte cose in giro, ma quello che stavo facendo non era un viaggio di piacere. Non stavo solo andando a trovare la mia migliore amica per qualche giorno o settimana.

Mi stavo trasferendo.

Trovavo ancora strano pensarlo. Ma era proprio così. Io Elena Gilbert mi ero fatta convincere da tutte quelle voci che mi dicevano di lasciare la Virginia.

Non avevo avuto un'infanzia facile, i miei genitori erano morti in un incidente d'auto quando avevo diciassette anni e da quel giorno avevo perso la spensieratezza tipica degli adolescenti.

Mia zia Jenna aveva solo venticinque anni quando le venne affidata la mia tutela e quella di mio fratello Jeremy, che aveva appena quindici anni. Non era stato facile per nessuno di noi ma alla fine eravamo riusciti a cavarcela con qualche litigata e qualche fraintendimento.

Nonostante Caroline e Bonnie – le mie migliori amiche - mi fossero sempre state accanto, avevo raramente assaporato la vera vita di un teenager. Non ero un'amante delle feste o delle sbronze, non ero mai rimasta fuori casa tutta la notte e non avevo mai rischiato di essere arrestata dalla polizia come alcuni dei miei vecchi compagni di scuola.

Quando ripensavo ai vecchi tempi, non mi sentivo affatto contenta di come avevo vissuto l' adolescenza, era stato un periodo piuttosto cupo e l'oscurità causata dalla morte dei miei genitori non mi aveva mai realmente abbandonata.

E mentre le mie amiche sognavano di lasciare la sconosciuta cittadina in cui abitavamo io mi accontentavo di cercare lavoro nelle vicinanze. Così quando Caroline si trasferì a New York per frequentare la Columbia University e Bonnie nel Massachusettes, dove le era stata offerta una borsa di studio alla Boston University, io rimasi sola. Non sola sola, avevo Jenna e Jeremy e anche il mio migliore amico, nonché ex ragazzo del liceo, Matt ma l'assenza delle ragazze era qualcosa che avevo accettato con molta difficoltà. Non avevamo mai passato nemmeno un'estate da sole, sei anni al college era come una scalata sull'Everest per uno senza coordinazione motoria.

Avevo scelto di frequentare il Whitmore College ad un'ora di macchina da Mystic Falls -dove abitavo- per stare vicina a Jeremy e a Jenna, che aveva abbandonato tutto per stare con noi. Mi sentivo in dovere di restare e in realtà avevo bisogno di farlo perchè non volevo che il ricordo dei miei genitori si affievolisse a causa della lontananza. Come Caroline avevo deciso di frequentare la Law School. Fin da piccole eravamo rimaste affascinate dal mondo dell'avvocatura, Ally McBeal era stata la nostra passione segreta. Progettavamo di frequentare lo stesso college e lo stesso corso da quando avevamo dieci anni. E anche se le cose erano andate decisamente in modo diverso da come le avevamo immaginate, alla fine, dopo sei anni eravamo diventate entrambe quello che sognavamo: avvocati. Dopo il primo anno come tirocinante nello studio convenzionato con il College a Richmond avevo inviato il mio breve curriculum a diversi studi legali della Virginia. Erano tutti studi molto piccoli, spesso con un taglio familiare e nessuno di loro aveva tempo e risorse disponibili per formare nuovi giovani avvocati.

Ero frustata e insoddisfatta.

«Vieni a New York» mi disse Caroline, quando, uscita dall'ultimo deludente colloquio di lavoro, le avevo telefonato.

«Cosa?» le chiesi sorpresa. Non che non avessi mai pensato di trasferirmi ma in quel momento mi sembrava una pazzia che non aiutava il mio status da disoccupata.

«Si! Hai sentito bene!» sbuffò «Ascolta, hai passato tutta la vita pronta ad aiutare la famiglia, a rimanerle accanto perché ti sentivi in dovere, hai scelto un College vicino per poterci tornare velocemente...»

«Caroline, Jeremy aveva bisogno di me! Ero l'unica rimasta»

«Lo so! Elena...so bene cosa avete passato...ma io sono tua amica e se tu non lo fai è mio dovere pensare al tuo bene»

«E secondo te il mio bene è a New York?»

«Beh in qualsiasi altra città affollata dove gli studi legali hanno bisogno di nuove reclute ogni giorno» mi spiegò sicura «Ma qui ci sono io quindi sono parziale e ti dico che il tuo bene è assolutamente New York». Rimasi in silenzio, immersa nei miei pensieri e non completamente convinta.

«Senti, io non voglio forzarti a fare nulla, ok? Però penso che sia giunto il momento di fare qualcosa per te stessa. Hai venticinque anni, sei intelligente e lavori sodo. Hai tutte le qualità necessarie per questa città. Jeremy è grande e non devi certo fare da balia a Jenna! Qui non c'è nessuno di cui ti devi prendere cura, se non te stessa, te lo devi!»

«Ho tutte le qualità giuste?»

«Assolutamente! Tra due settimane cominciano i colloqui al mio studio, il Somerhalder&Wesley, e tu ci devi essere!»

«Non lo so, Care...dovrei preparami, cercar casa e...»

«Non dire sciocchezze! Ti ricordi casa mia? C'è una stanza in più che ti aspetta!»

«Cosa? No no, io non posso...non voglio darti questo peso!»

«Ma quale peso? Sai che ho sempre sognato di vivere con le mie migliori amiche! E poi se fosse un peso non l'avrei proposto, ti pare?»

Rimasi di nuovo in silenzio e m'immaginai Caroline tutta sorridente, emozionata dall'idea di avermi intrigata. Forse lei aveva ragione, forse avevo davvero bisogno di quella città, di qualcosa che fosse diverso da quello a cui ero abituata. Avevo bisgno di concentrarmi su qualcosa che non mi ricordasse costantemente il difficile passato. Forse ero l'unica al mondo ad aver bisogno di passanti sfuggevoli che non prestano attenzione alla vita degli altri, di non sentire la pena che i miei compaesani emanavano quando mi vedevano. Avevo bisogno di New York.

E poi c'era Care, la mia pazza Care. L'idea di vivere con lei era fantastica, era un connubio tra passato e futuro, tra provincia e città. Mi era mancata così tanto quando se n'era andata.

«Va bene» risposi infine.

«Dici sul serio?» esclamò lasciandosi sfuggire gridolini che facevano molto bambina al suo decimo compleanno.

«Sì. Mi hai convinta» ripetei tentando di mascherare il mio entusiasmo con la calma «Sei un bravo legale, per la cronaca. Mi hai convinto in meno di mezz'ora».

Caroline ridacchiò felice. «Modestamente».

E così eccomi qui al JFK con uno spirito ottimista a guidarmi. Una nuova vita, ecco a cosa stavo andando incontro. Ricominciavo da zero, in una delle più belle città del mondo.

 


Una volta recuperata la valigia mi spostai in un angolo fuori dalla folla in uscita. Presi il telefono dalla shopper e lo accesi. Aspettai solo qualche secondo e i messaggi che mi erano stati inviati durante il volo comparvero sulla schermata del Samsung. Uno era di Jenna che voleva sapere com'era andato il volo, uno era di Bonnie che aveva bisogno di una valvola di sfogo contro il suo capo e infine quello di Caroline, il più importante. "Non riesco a venire a prenderti, sono corsa in tribunale per l'udienza. Vieni a vedermi: l'indirizzo è 60 Center Street. Aula 16. Baci C".

Uscii dal JFK e alzando il braccio attirai l'attenzione di un taxi. Sorrisi nel vederlo avvicinarsi. Era davvero come nei film, come faceva Carrie Bradshaw, come immaginavo facessero tutti i veri newyorkesi. Credevo fosse qualcosa che avessero nel sangue e che io avrei dovuto imparare a fatica e invece eccomi li, ad alzare il braccio in aria.

«60 Center Street» dissi al taxista e questi partì velocemente evitando la coda che si era formata accanto al marciapiede fuori dall'areoporto.

Tenni il viso schiacciato contro il finestrino per tutto il tragitto, ammaliata dal centinaio di persone che camminava per i marciapiedi, affascinata dalla quantità di caffetterie, ristoranti e locali che fiancheggiavano i negozi alla moda nelle strade più famose della città. Times Square, Fifth Avenue e Brodway. Oh quanto mi sarebbe piaciuto assistere ad un musical una di quelle sere. Appena entrati nella Lower Manhattan assaggiai l'atmosfera finanziaria che emanava. Gli imponenti grattacieli facevano tremare i piedi, la New York Stock Exchange troneggiava come un dio greco sul quartiere e i passanti erano tutti rigorosamente in giacca e cravatta.

Il taxi si fermò davanti ad un palazzo alto in mattoni bianchi sopra il quale brilla la scritta in oro "Tribunale Civile del Distretto sud di Manhattan". Pagai ed entrai nell'edificio. Era affollato da guardie addette alla sicurezza e gruppetti di avvocati in attesa di essere chiamati per discutere le istanze con i giudici.

«Elena Gilbert?».

Mi voltai sorpresa. Una ragazza sulla trentina dalla carnagione olivastra mi guardava incerta. Aveva in mano una ventiquattrore e indossava un tailleur grigio scuro.

«Sì, sono io»

«Buongiorno Miss Gilbert, sono Hayley, l'assistente di Miss Forbes. Mi ha chiesto di aspettarla qui e di indicarle l'aula del tribunale»

«Oh...ma certo, salve» risposi. Miss Gilbert? Miss Forbes? Ma dov'ero finita in una puntata di Downtown Abby?

Seguii Hayley lungo i corridoi trascinando dietro il trolley rumoroso. Ero decisamente a disagio, attiravo l'attenzione come un palo della luce nella notte. Hayley si fermò davanti all'aula 16 e mi incoraggiò ad entrare. «Questa la tengo io» aggiunse guardando la valigia. Le sorrisi passandole il manico estraibile. Chissà cos'avrebbe pensato il giudice se una ragazza in valigia fosse entrata nella sua aula.

Aprii la porta delicatamente e passai accanto a due guardie in uniforme blu dall'aria severa. Mi sedetti nella penultima fila. L'aula era molto più grande di quelle che avevo visto quando frequentavo il tirocinio nello studio legale a Richmond. C'erano almeno una settantina di persone sedute davanti al giudice e dietro agli avvocati della difesa e dell'accusa. Inclinai leggermente la testa e riuscii a vedere dei boccoli biondi. Caroline era davanti al giudice intenta a parlare con un testimone o un imputato. Dovevo ancora capirlo.

«Ecco vede, in questa nota c'è un aumento del 12% delle vendite nel primo quadrimestre di quest'anno» disse Caroline porgendo un foglio bianco al giudice e mostrando il suo all'uomo seduto al banco dei testimoni.

«Vendiamo alla catene di caffetterie...si sono espanse...»

«Sì ma se guarda qui» lo interruppe Caroline «Non c'è stato un aumento corrispondente negli acquisti di farina e sciroppo di mais, se aveste aumentato la distribuzione, anche i costi per le materie sarebbero dovuti aumentare...»

«Obiezione, vostro Onore! Sono solo supposizioni» alzò la voce l'avvocato seduto alla scrivania della difesa. Caroline si voltò e riuscii a guardarla. Era sorridente e calma. Indossava una camicetta color panna con una scollatura a V impreziosita da una spessa collana dorata e una gonna ad anfora rosa confetto che le lasciava scoperte le ginocchia. Il giudice, un uomo stempiato sulla cinquantina la guardava con interesse.

«Vostro Onore, sto solo cercando di capire le dinamiche in cui sono avvenuti i fatti»

«Respinta. Avvocato proceda pure» sentenziò il giudice sorridendo a Caroline.

«È fantastica, vero?». Mi voltai richiamata dalla domanda che mi era stata posta.

La voce apparteneva ad un ragazzo biondo con i capelli tendenti al riccio. Indossava abiti informali che gli davano comunque un'aria curata ed elegante. Non era esattamente il mio tipo ma dovevo ammettere che per i modi di fare risultava certamente affascinante. Guardava Caroline con attenzione e fierezza. Che fosse il suo ragazzo? Lei non mi aveva detto niente. Avrei voluto domandarglielo ma Caroline ricominciò a parlare e avevo come la sensazione che se avessi detto qualcosa lui non se ne sarebbe nemmeno accorto.

«Grazie Vostro Onore. Signor Haynes, può spiegarci la discrepanza appena accennata?»

«Per prevenire i rincari, gli abbiamo acquistati il trimestre prima» rispose seccato il signor Haynes.

«No, non stando a questa tabella che confronta gli acquisti annuali» Caroline camminò sui suoi stiletti a ritroso verso il banco dell'accusa e recuperò dalla cartellina altri due fogli. Uno lo porse al giudice e l'altro lo mostrò all'uomo. «Se guarda qui, in questa nota a piè di pagina, vedrà che non risulta un aumento dei profitti annuali. La domanda è ovvia, se ha avuto una crescita del 12% che fino ha fatto l'eccedenza?»

«Obiezione! La domanda è faziosa, fa sembrare il signor Haynes responsabile di una frode il cui processo è ancora in corso»

«Ritiro la domanda» disse Caroline alzando le braccia al cielo.

«L'accusa vuole porre altre domande?» domandò il giudice.

«Sì vostro Onore» rispose Caroline schietta.

«D'accordo. La corte si aggiorna a Mercoledì». Il giudice sbatté il martelletto sul tavolo e la settantina di persone si alzò caoticamente per raggiungere l'uscita. Mi alzai anch'io in piedi. Dietro di me non c'era più nessuno, il ragazzo doveva essere uscito subito dopo la fine dell'udienza. Uscii dall'aula e raggiunsi Hayley che aspettava seduta su una poltroncina controllando il tablet. Accanto a lei c'era la mia valigia.

«Hanno finito» annunciai per rompere il ghiaccio. Hayley sembrava piuttosto disinteressata alla faccenda. Il che mi stupiva visto al suo posto sarei stata trepidante nell'attesa di sapere com'era andata l'udienza.

Caroline uscì cinque minuti dopo. Quando mi vide sorrise ampiamente, emozionata quanto me all'idea di rivederci.

«Non hai idea di quanto mi sei mancata». Caroline mi abbracciava con la stessa delicatezza con cui si abbraccia un panda. Lei non aveva idea di quanto mi era mancata. Alle volte sapeva essere davvero una rompiscatole ma personalmente non avrei potuto farne a meno.

«Anche tu» sussurrai. Le sue bracciette magre mi stritolavano più di quanto avrei potuto immaginare. Si staccò da me e, con le mani appoggiate sulle mie spalle, controllò velocemente la mia salute. Faceva sempre così quando non vedeva qualcuno da parecchio tempo, un rapido check-up di controllo. Doveva fare il medico altro che avvocato!

«Ti ho già detto che sei bellissima?» le dissi qualche secondo dopo averla esaminata io stessa. Era elegante su quei stiletti dello stesso colore della gonna. Il rosa, per essere chiari.

«Scherzi? C'era il ventilatore acceso sopra la mia testa! Se mi guardassi adesso allo specchio mi scambierei per qualche cantante degli anni ottanta!»

«Forse è perché non ti vedo da un po' ma...non sei mai stata più bella» continuai sincera. Aveva ancora la faccia allegra da diciassettenne ma riuscivo a vedere i tratti della maturità e dell'esperienza.

«Oh Elena Gilbert, salvatrice della mia autostima» rispose lei prendendomi a braccetto e conducendomi verso l'uscita del tribunale «Andiamo, abbiamo una camera da sistemare».

Fuori dall'edificio ci aspettava un taxi. Hayley lo aveva chiamato mezz'ora prima. Non sarà stata un'assistente entusiasta ma era davvero efficente. Venti minuti dopo, superato il traffico sostenuto della City alle cinque del pomeriggio, l'auto gialla si fermò davanti ad una palazzina di tre piani con i mattoni rossi nel quartiere residenziale del Chelsea. L'architettura era proprio come l'avevo immaginata guardando i film ambientati a New York.

Pagato il taxi salimmo le scale e quando Caroline aprì la porta di casa io splanacai gli occhi.

«Care...mio Dio...è tutto così...meraviglioso»

«Ci ho messo un anno per arredarla»

«È bellissima! È tutto così elegante, tutto molto...Caroline».

Lei sorrise.«Si beh, la maggior parte dei mobili gli ho comprati all'Ikea, ma non mi lamento» mi spiegò chiudendo la porta d'ingresso. «Lavoro ottanta ore la settimana, mi merito un po' di lusso quando torno a casa».

Annuii spostandomi verso la finestra che dava sulla strada residenziale. Anche la vista era meravigliosa, così cittadina, così urbana.

«Ti faccio vedere la stanza» disse Caroline recuperando la valigia che avevo lasciato sulla porta d'ingresso. Alla sinistra del soggiorno c'era un corridoio con le pareti occupate da alcuni quadri che rappresentavano Parigi. C'erano tre porte e Caroline aprì la prima alla sua destra. La stanza non era molto grande ma c'era tutto l'indispensabile: un letto matrimoniale, una scrivania, un armadio a due ante e lo specchio da parete sufficientemente grande da potersi specchiare fino al ginocchio.

«In confronto al resto della casa è un po' spoglia, non ho mai avuto il tempo di sistemarla come si deve»

«Scherzi? È perfetta!»

«Davanti c'è il bagno e accanto, la mia stanza»

«Ottimo» esclamai entrando dentro la camera. In effetti non c'erano molti oggetti, solo un piccolo quadro -di nuovo Parigi, era un'ossessione- ma preferivo così. Avrei potuta arredarla a piacimento. Sarebbe diventato il mio piccolo paradiso newyorkese.

«Ordino la cena dal cinese» m'informò Caroline saltellando allegra in soggiorno «Nel mio frigo c'è spazio solo per vino, vodka e tequila»

«Amica mia, noi andremo d'accordo!» le risposi a voce alta in modo che mi riuscisse a sentire anche dalla cucina. Eccoci qui Elena Gilbert. Eccoci a casa.
 

Prima di tutto voglio assolutamente ringraziare la mia adorabile beta, Taiga89, per lo scrupolosissimo aiuto che mi ha dato. L'ho apprezzato tantissimo e lo dico con pura onestà: Sei la migliore!!! :3
A chiunque sia arrivato fino a qui incolume faccio i miei sentiti complimenti xD! Okay non so bene che cosa sia questa cosa ma ho cercato di unire due cose che adoro: Vampire Diaries e i telefilm sugli avvocati v.v non so bene da quando ho questa insana passione ma boh eccomi qua xD Non seguo giurisprudenza quindi probabilmente le udienze e le arringhe che inserirò saranno un pò (spero non molto) scadendi, se qualcuno ha dei consigli sono davvero ben accetti! Allora questo è un capitolo prettamente introduttivo e penso lo sarà anche il secondo. Purtroppo li ritengo necessari per la trama e spero comunque che non risultino troppo noiosi. Se vi fa piacere scrivere qualcue commento ne sarei davvero felicissima e spero tanto di avervi incuriosito! Baci vostra Red :*

  
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