In direzione ostinata e
contraria
Suo fratello glielo
aveva spiegato molti anni prima, uno dei primissimi giorni da matricola
sperduta in quel mondo sconosciuto che era l’università. Aveva parlato con un
leggero sorriso, ironico, perché in fondo credeva anche lui che quella fosse
soltanto una stupida superstizione.
“Non
importa quanto tu sia in ritardo per la lezione,”
aveva esordito, facendola fermare bruscamente, “Non devi passare per il centro dell’atrio fino a quando non ti sarai
laureata.”
Carla aveva aggrottato
le sopracciglia e, scettica, aveva gettato un’occhiata di fronte a sé: era
vero, l’atrio era praticamente deserto e gli studenti sembravano preferire il
colonnato, nonostante questo significasse allungare il loro percorso.
“Se
lo farai non riuscirai mai a laurearti,” l’aveva avvertita,
continuando a camminare e facendole cenno di seguirlo.
Carla a quel punto
l’aveva guardato con sufficienza e la sua sempiterna istintività l’aveva spinta
a tirare dritto, in direzione del grande cancello da cui si accedeva all’aula
magna, inaugurando così un’abitudine a cui non avrebbe mai rinunciato negli
anni successivi.
Anche quel giorno di
ottobre, con il cardigan stretto tra le mani per il gran caldo e la borsa di
pelle che sbatacchiava contro il fianco, percorse l’atrio di gran carriera,
senza curarsi degli sguardi che curiosi si posavano su di lei: non che quella
curiosità fosse dovuta al suo disinteresse per la famosa tradizione, aveva
ragione di pensare che dipendesse dal piglio agguerrito che doveva avere negli
occhi, quella sicurezza che molti in quegli anni avevano imparato a conoscere e
temere.
Salì in fretta la
maestosa scala in marmo che tanti anni prima l’aveva messa in soggezione e,
fedele alle sue abitudini, al bivio scelse la scala alla sua sinistra e tra le
due porte d’ingresso quella alla sua destra. Si fermò un attimo, stordita
dall’assordante cacofonia che regnava nell’aula: il familiare miscuglio di
voci, sedie trascinate, risate e saluti che aveva accompagnato i suoi quattro
anni di università.
Qualcuno tra le prime
file le fece cenno. Puntuali come lei non sarebbe mai stata, Alessandra e
Francesca non l’avvertivano nemmeno più quando le tenevano un posto: sapevano
che non si sarebbe mai persa una lezione e che non sarebbe mai arrivata in
tempo per trovare un posto a sedere. Mentre camminava verso le amiche, diede
un’occhiata all’orologio e scoprì di non essere affatto in ritardo: erano le
10:45 e la lezione sarebbe iniziata alle 11. Forse in un altro posto questo
sarebbe bastato, ma non lì e non per quella particolare materia: nonostante non
fosse previsto dal regolamento di facoltà, la professoressa Testa aveva imposto
la frequenza obbligatoria, costringendo ben quattrocento ragazzi a seguire le
lezioni di Storia del diritto medievale.
— Alzati.
Mentre cercava di non
calpestare i poveri sventurati costretti a sedersi a terra, una voce
particolarmente sgradevole attirò la sua attenzione.
— Come scusa?— domandò
una ragazza che sembrava appena essersi seduta.
— Questo è il mio posto
e mi ero alzato un attimo per andare a fumare,— le rispose indispettito un
ragazzo dalla figura allampanata.
L’altra si guardò
imbarazzata intorno.— Ma guarda che non c’era nulla sulla sedia,— spiegò in
difficoltà.
— Io sono venuto alle 8
per prendere posto e non me lo faccio rubare così…
Carla distolse lo
sguardo da quella scena penosa e riprese subito a camminare, ancora più nervosa
di quando era arrivata.
Stava quasi per
arrivare al suo posto quando prese la sua decisione: non ci stava. Non era da
lei stare in silenzio né poteva permetterselo, visto che era rappresentante
degli studenti. Così, consapevole delle amare conseguenze che avrebbe pagato
all’esame, raggiunse la cattedra e la temibile professoressa Testa.
— Professoressa.
La donna stava
sistemando il suo prezioso impermeabile e l’immancabile Louis Vuitton sulla
cattedra, con una cura maggiore rispetto a quella per i suoi studenti,
costretti a stare per terra o all’in piedi.
— Mi dica,— rispose,
rivolgendole uno sguardo infastidito: l’aveva già riconosciuta.
— Vorrei farle presente
il disagio degli studenti. L’aula non è abbastanza grande,— iniziò a spiegarle
con calma.
— Cosa crede, che a me
faccia piacere questa situazione? Torno a casa con un mal di testa feroce
praticamente ogni giorno!
Si costrinse a
respirare e cercò di mantenere un tono ragionevole:— Tre ore di lezione per
terra sono un po’ difficili da sopportare.
— Non è colpa mia se la
facoltà non dispone di aule più capienti,— la liquidò.
— Ma è lei ad aver
imposto la frequenza, quindi è suo dovere garantirci un’aula sicura e spaziosa.
Appena incontrò gli
occhi inviperiti della professoressa, Carla seppe di aver già perso la
possibilità di superare l’esame con un buon voto.
— Chi si stanca può
anche andarsene.
Si fronteggiarono per
un lungo momento, una offesa perché qualcuno aveva osato sfidarla, l’altra
indignata da una simile noncuranza per il prossimo.
Sapeva cosa avrebbe
fatto la stragrande maggioranza degli studenti: avrebbero chinato la testa,
avrebbero preferito la strada più semplice, perché troppo abituati a “evitare il centro dell’atrio” per avere
una reazione. Carla, invece, aveva sempre tirato dritto, incurante della
supposta sfiga di cui tutti parlavano e così, anche quella volta, mettendo da
parte le conseguenze delle sue azioni, scelse di andare dritto, in una
direzione opposta a quella che avrebbero seguito tutti gli altri.
— Ragazzi,— esordì al
microfono abbandonato sulla cattedra,— La professoressa ha detto che chi si
stanca di stare per terra o all’in piedi può anche andare via. Non so voi, ma
io credo che dovremmo andarcene tutti,— la sua voce, da sempre abituata a
parlare davanti a folle di studenti, era risuonata forte e sicura,— Perché
penso che chi è seduto oggi domani potrebbe anche arrivare tardi e quindi è
interesse di tutti cambiare aula.
Lasciò andare il suo
sguardo lungo le prime file: alcuni si alzarono praticamente subito, altri solo
dopo esortazione dei vicini; c’era chi si consultava e chi le rivolgeva sguardi
infastiditi.
— Se anche restasse un
solo studente, io farò comunque lezione,— avvertì la professoressa, irritata.
Carla continuò a
fissare i suoi colleghi con sguardo duro, di sfida e, mentre alcuni di loro
sembravano accusarne gli effetti e raggiungevano la piccola folla che si stava
raccogliendo fuori l’aula, c’era anche chi restava seduto. Non si sorprese nel
trovare tra questi ultimi anche quella particolare persona: seduto in terza
fila, con l’immancabile camicia e pantaloni scuri, Manfredi le rivolgeva il suo
solito sguardo di sufficienza, quello che le riservava da quando si erano conosciuti, quattro anni
prima. Pronta come sempre ad accettare qualsiasi tipo di sfida, Carla alzò il
mento, strinse le labbra e sostenne quello sguardo freddo per un tempo che
sembrò allungarsi a dismisura, mentre intorno a lei qualcuno iniziava a urlare “fuori” ai colleghi rimasti seduti.
Poi successe qualcosa
che non si sarebbe mai aspettata: Manfredi, sempre senza distogliere gli occhi
da lei, si alzò lentamente e si sistemò la tracolla sulla spalla. Gli occhi
scuri, la smorfia sarcastica sulle labbra e le sopracciglia appena arcuate le
dissero che non credeva minimamente in quel gesto, ma che per quella volta—e
quella volta soltanto— era disposto a concederle ciò che per lei, povera
ingenua, sembrava contare così tanto.
— Se ha finito con i
suoi comizi, io vorrei iniziare la lezione,— sbottò la professoressa,
avvicinandosi al microfono.
Carla diede un’ultima
occhiata all’aula: almeno cinquanta persone erano rimaste sedute e una ragazza
che fino a quel momento era seduta sul pavimento adesso stava occupando il
posto che Alessandra e Francesca avevano riservato per lei. Tutti sordi alle
urla di chi era uscito: “fuori.”
Non li degnò di uno
sguardo, quando percorse l’aula e
raggiunse gli altri colleghi, ma non poté fare a meno di pensare che in
fondo i veri nemici non fossero la professoressa Testa e la sua arroganza,
quanto piuttosto quel muro di indifferenza, quell’incapacità di provare anche
una sola volta ad andare verso una direzione che non fosse quella più semplice.
***
Sua madre glielo aveva
spiegato anni prima, una delle prime volte in cui si era offerta di aiutarla a
preparare la cena. Aveva parlato con un leggero sorriso, dolce, perché in fondo
sapeva che quello fosse il vero segreto della sua buona fama come cuoca.
“Non
importa quanto tu sia in ritardo,” aveva esordito, con
una mano posata gentilmente sulla sua, “Non
avere mai fretta in cucina, trova il piacere in ogni piccolo gesto.”
Nonostante non le
avesse mai dato retta, quel consiglio era rimasto sempre fisso nella sua mente
così da ritagliarsi sempre il tempo necessario a cucinare qualcosa di buono.
Detestava saltare i pasti e ancora di più mangiare i cibi surgelati che
piacevano tanto a Carla.
Sveva amava andare al
mercato, scegliere la frutta di stagione, litigare con il venditore che voleva
sempre fregarla, ascoltare i consigli di quello che ormai l’aveva presa in
simpatia; adorava tagliare le zucchine sottili sottili, pelare il pomodoro con
cura e persino sgusciare i gamberetti. Cucinare, e ancora di più cucinare per
qualcuno, era la cosa che più la rilassava al mondo.
In quel momento, però,
nonostante ogni tentativo, non le riusciva proprio di rilassarsi e sospettava
che questo avesse poco a che fare con i funghi un po’ molli che aveva comprato
il giorno prima e molto, invece, con il malumore della sua coinquilina: la
perennemente tesa Carla quel giorno sembrava fuori di sé, mentre andava su e
giù per la piccola cucina del loro appartamento e inveiva contro una certa
professoressa e certi suoi colleghi.
— E mentre lei
continuava a fare lezione, voi cos’avete fatto?— domandò per fare andare avanti
l’amica con il racconto. Altrimenti, con il suo amore per i particolari,
avrebbero fatto notte.
— Ho portato alcuni
ragazzi con me dal preside,— le spiegò l’altra, mentre portava alla bocca una
manciata di cubetti di pancetta.
— Serve per la pasta!—
la rimproverò Sveva, allontanandola dal ripiano. Carla era fatta così, non
sapeva cucinare praticamente nulla e per sopravvivere mangiava tutto ciò che di
commestibile trovava in frigorifero.
— Il preside ci stava
per mandare via, ma appena ha sentito le parole “frequenza obbligatoria” ha capito che la faccenda richiedeva il
suo interesse.
— Quindi la cosa si è
risolta?
L’amica le rivolse uno
sguardo intenerito.— Come sei ingenua e sprovveduta, tu…— la prese in giro, con
una leggera pacca sulla spalla,— Il preside ha obbligato la professoressa a
ritrattare in pubblico le parole che potrebbero dare dei problemi alla facoltà
e a tranquillizzare gli studenti sul carattere facoltativo della frequenza,
anche se di fatto non cambierà nulla e i non frequentanti non supereranno mai
l’esame.
Sveva buttò i funghi in
padella, facendo scostare rapidamente l’amica: la forte e combattiva Carla
aveva il terrore degli schizzi d’olio bollente.
— Non capisco come fai
a sopportare tutto questo.
Con la coda
dell’occhio, Sveva la vide sospirare e per un attimo le vennero alla mente ricordi
passati, quando l’amica portava i capelli castani sempre sciolti e una graziosa
frangetta sugli occhi nocciola. Adesso, invece, i lunghi capelli tinti di rosso
tiziano erano sempre raccolti e tirati indietro, conferendole un’aria
perennemente tesa.
— Ci vuole diplomazia e
pazienza,— le rispose dopo un po’,— E il vero problema non è neanche scontrarsi
con l’autorità. Quello è stimolante, lo metti sempre in conto. Ciò che davvero
pesa è l’indifferenza degli altri studenti. Nel resto d’Italia e d’Europa c’è
un risveglio in atto, aria di cambiamento. A Barcellona, quest’estate, potevi
avvertire la tensione per le strade, leggere la rivoluzione negli occhi e nelle
parole dei nostri coetanei,— si lasciò andare a un sorriso nostalgico: quello
che le illuminava gli occhi quando ricordava le settimane trascorse a stretto
contatto con i leader del movimento parigino,— C’era voglia di ascoltare l’altro,
soprattutto. Non si aspettava il turno per dire la propria, si cercava insieme
una soluzione.
— Carla, ero lì con te
e mi costringevi a farti da traduttrice, me lo ricordo fin troppo bene!— la
interruppe guardandola male,— E come al solito stai descrivendo solo quello che
hanno voluto vedere i tuoi occhi!
Dopo aver controllato
la cottura della pasta, aggiunse:— Vai ad apparecchiare, è quasi pronto.
Si misero a tavola e
Carla continuò a blaterare contro i suoi colleghi per tutta la durata del
pranzo. Non che Sveva non ci avesse fatto l’abitudine ormai. Del resto non le
dava nemmeno fastidio stare ad ascoltare quella che nel corso degli anni era
diventata molto più di una semplice coinquilina. Certo, se pensava a come erano
andate le cose all’inizio, quando ancora Monica occupava la terza camera del
loro appartamento, faticava a credere che quella ragazza dall’aria battagliera
fosse la stessa persona che un tempo era solita mettersi all’ombra dell’amica.
Quanto le aveva disprezzate?
— Ho bisogno di
riposare un po’,— si lamentò Carla, con un’occhiata verso la porta della sua
stanza.
— Carla…
— Non iniziare!— la
minacciò con una posata,— Mi aiutano a rilassarmi, mi conciliano il sonno!
— Ma se a volte tiri
fino all’alba per leggere quella robaccia!— le rinfacciò senza nascondere una
smorfia di disgusto,— Se non ti conoscessi, potrei prenderti per una donnetta
insoddisfatta.
L’amica sbuffò,
portando via i piatti sporchi.— Non posso farci nulla. Mi piace leggere roba
seria, ma non disdegno neanche…
— Romanzetti rosa di
quarta categoria?— le chiese ad alta voce,— Le storielle che Harmony spaccia
per romanzi storici? Con la damigella in pericolo e l’aitante gentiluomo pronto
ad assisterla e, all’occorrenza, farle alzare la gonna?
Non si prese nemmeno la
briga di nascondere il suo divertimento, quando Carla tornò nella sala da
pranzo e la fulminò con gli occhi: Sveva era una delle poche persone immuni
allo sguardo inviperito della ragazza e ne erano entrambe consapevoli.
— Mi piacciono. Mi
distraggono. Mi rilassano,— scandì lentamente con tono perentorio.
— E te ne vergogni
infinitamente!— le schiacciò l’occhio mentre finiva di sparecchiare,— Tanto più
che quando viene Gabriele ti preoccupi di nasconderli con molta cura.
— Ci manca solo che li
veda Gabriele!
Sveva non poté impedirsi di esprimere tutta la sua
sufficienza.— Non capisco perché il suo parere conti così tanto. O forse hai
paura che possa aver voglia di leggerli e prendere spunto per le sue
discutibili tecniche di rimorchio?
— Si unirebbe a te per
sfottermi da qui all’eternità. Solo questo.
Come al solito, Sveva
continuò a punzecchiare Carla mentre era impegnata a lavare i piatti. Era più
forte di lei: quell’assurdo amore dell’amica per quel genere di romanzi era un
vero mistero. Era incredibile che una ragazza intelligente e volitiva come
Carla riuscisse anche solo a tollerare quella roba melensa e banale. Una volta
le aveva svelato che ci aveva anche provato a smettere, ma il risultato era
stato disastroso: dopo due mesi di astinenza, era tornata a essere più fissata
che mai e in una sola settimana era arrivata a leggerne una decina. Adesso,
invece, se ne concedeva uno dopo una lettura più impegnativa o una giornata
particolarmente stressante.
— Almeno sei andata
dall’assistente?— le chiese Carla, sottraendola ai suoi pensieri.
— Vado domani,— sollevò
le spalle noncurante.
— Sveva…
L’interessata la guardò
divertita.— Che c’è, adesso è il tuo turno con le ramanzine?
— Sì, concedimi di
recuperare un po’ di dignità!— le rispose con un sorriso ironico,— Dimmi,
quanto ancora dovrai rimandare l’incontro con il temutissimo dottore La Scala?
— Te l’ho detto: mi ha
avvisata senza mezzi termini che se fossi andata a ricevimento senza una buona
idea non avrebbe collaborato con me,— ignorò l’occhiata scettica dell’amica e
continuò a spiegare:— Lo so che non puoi capire, ma La Scala è uno più stimati
esperti di letteratura greca della nostra facoltà ed è rarissimo che accetti di
seguire uno studente per la tesi.
— Ma tu non hai dovuto
insistere,— la guardò con un sorriso che mal celava un qualche tipo di
orgoglio.
— Non significa che
posso andare lì con la prima idea che mi passa per la testa!
Carla sbuffò,
guardandola male.— Hai paura.
— No, io…
— Hai paura. Ma non hai
alcun motivo, Sveva. Negli ultimi tre anni ti sei letteralmente chiusa in casa
a studiare, per non parlare della tua media a dir poco imbarazzante: non sarà
certo la tesi a darti problemi!
Sveva scosse la testa
e, prima di lasciarsi andare a commenti poco educati, preferì lasciare la cucina.
Carla non poteva capire e sarebbe stato superfluo spiegarle il motivo per cui
la tesi contava così tanto per lei. Molto più della laurea in sé, a voler
essere sincera. Aveva seguito le lezioni di La Scala con una devozione e una
passione che aveva provato raramente nel corso dei suoi studi. L’amore e la
foga con cui aveva analizzato le poesie struggenti di Saffo, il commento
ironico alle commedie di Aristofane, il tono solenne con cui aveva recitato
brani delle tragedie di Sofocle avevano acceso qualcosa dentro Sveva: una
voglia di essere all’altezza di quello studioso, il bisogno di condividere con
lui quella dedizione che anni prima l’aveva spinta a iscriversi a Lettere.
Sì, aveva paura. Ma non aveva nulla a che fare con la laurea o con i voti. Era
solo la paura di rivelarsi maledettamente ordinaria agli occhi dell’assistente,
di non essere in grado di parlargli da pari a pari, di essere come in fondo si sentiva
dentro: mediocre.
***
Il romanzo procedeva
come sempre: in quel momento i protagonisti si detestavano, ma Carla sapeva che
presto sarebbe successa una qualche banalità che avrebbe portato entrambi a un
amore di carta, un po’ melenso ma per lei rassicurante. E rassicurante era
proprio la parola più adatta per descrivere quelle storie che tanto si
vergognava a leggere. Per lei era come spegnere il lato più battagliero della
sua testa e immergersi in un mondo semplice, bianco e nero…e rosa… tanto, ma
tanto rosa.
— Caro Marchese, mi sa
che dovrete aspettare per concludere…— mormorò mentre chiudeva il libro.
Il citofono iniziò a
suonare proprio quando si era appena seduta alla scrivania, con il libro di
procedura penale davanti. Tre scampanellate in rapida successione. Per l’esattezza,
tre stramaledette scampanellate in
rapida successione.
Si alzò rapidamente per
catapultarsi da Sveva e impedirle di…
— Sì, aspetta che apro.
Troppo tardi. Sveva, la
cui stanza era la più lontana dalla porta, come sempre e inspiegabilmente era
arrivata prima di lei e aveva già aperto.
— È lei, vero?— domandò guardandola male.
— Lei e la sua adorabile tripla scampanellata. Finalmente è venuta a
prendere le sue cose.
Mentre Carla si sforzava
di fare un respiro profondo a occhi chiusi, Sveva buttò lì con noncuranza la
cosa peggiore che potesse dire in quel momento: — Ah, c’è anche il coso…
Aprì gli occhi atterrita
e non perse tempo a spalancare la porta e a origliare la conversazione tra le
due persone che stavano salendo le scale in quel momento: Monica e Andrea.
— A un certo punto
dovevi pur affrontarli…— disse Sveva con un’odiosa pacca sulle spalle.
— Fanculo!
Uscì nel pianerottolo e
cominciò a salire le scale di corsa, mentre Sveva le borbottava dietro qualcosa
che suonava come “molto maturo, Carla”.
Arrivata al quarto
piano, stava tirando un sospiro di sollievo quando sentì Monica dire qualcosa
che la terrorizzò: — Ma dove vai? Non è questo, è più su!
Carla non perse tempo a
maledire la cretinaggine della sua vecchia coinquilina e si mise a suonare all’unico
campanello dove non avrebbe mai dovuto suonare.
Fa
che non apra lui. Fa che non apra lui. Fa che…
La porta si aprì. Mentre
un paio di seri occhi scuri la fissavano, Carla decise che quella non era
affatto la sua giornata.
Manfredi.