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Autore: _Hikari    05/09/2013    2 recensioni
«Emma».
Socchiude gli occhi, cercando di proteggersi dai granelli di sabbia portati dal vento.
«Cosa c’è, David?» sbuffa, continuando a camminare, l’odore della salsedine nei polmoni; le iridi fisse dinanzi a sé, che tentano di cogliere qualunque profilo, qualunque presenza che non sia solo una delle tante ombre che l’affiancano.
«Non sono suo padre, miss Swan». Sussulta impercettibilmente nell’udire la solita punta d’ironia farsi strada nella voce dell’uomo; non è acuminata, pungente, non riesce a trapelare d’ilarità a ferire, dilaniare la carne come una volta. Ma c’è,
è presente, per quanto fioca.
Esattamente come quella persona che l’ha raggiunta, che le cammina accanto, nonostante l’andatura stanca e gli occhi spenti.
Quand’è stata l’ultima volta che un barlume li ha attraversati? Due, quattro, sei mesi fa?
«Questo lo sapevo» risponde, leggermente stizzita, mentre lascia vagare il proprio sguardo sugli alberi che li sovrastano, che si stagliano imponenti contro il cielo dell’Isola che non c’è, proseguendo la loro disperata ricerca.
Oh, al diavolo, cosa pensa di vedere? Henry che le corre incontro libero e sano?

{«Di parole portate dal vento» | Mr. Gold/Emma Swan}
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Signor Gold/Tremotino
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Di parole portate dal vento.
#06


Giace immobile, il viso incorniciato dai capelli biondi; gli occhi fissi sul soffitto.
Questa volta non ci sono fratelli con cui condividere la stanza, sorelle che ti osservano incuriosite o con sguardo d’acrimonia; bensì solo due volti – due dei tanti – che l’hanno accettata ed accompagnata in quel locale, una volta augurata la buona notte.
Lascia dardeggiare gli occhi lungo la superficie della camera, sentendo qualcosa scricchiolare.
Non sono fantasmi, lo sa: gliel’hanno spiegato bene, quelli non esistono.
Infine lascia che i muscoli si rilassi e le pupille si perdano in quella luce argentata che penetra dalla finestra. 
È la terza notte che stenta ad addormentarsi, l’ennesima che vorrebbe fuggire. 
Per un istante si chiede cosa avverrebbe se alzasse le tapparelle, indossasse una felpa e si calasse in giardino. 
Chissà, forse, allora, la smetterebbero di portarla da un’abitazione all’altra, da delle persone alle altre, da un luogo all’altro, pretendendo che le definisse case, famiglie, amore.
Chissà, forse, allora, potrebbe incontrare le persone giuste.
Poi lo sguardo si posa su un vecchio libro, la copertina impolverata e le pagine spiegazzate; lo riconosce: la donna della scorsa volta gliel’ha letto.
Sono favole: le storie che parlano di principesse imprigionate e regni lontani. Ragazze con dei sogni, ecco come le ha definite Jennifer, la mamma dallo sguardo dolce ed il volto solcato da qualche ruga.
Pensandoci, le piaceva. Ma forse lei non piaceva a Jennifer, per questo era venuta la signora in grigio, a prenderla.
“Tutti hanno dei sogni, anche tu, scommetto”. Affonda il viso nel cuscino, le piaceva anche la sua voce: era amorevole, calorosa, non come quella della signora Hill, la padrona di quest’edificio.  
Sogni, sogni, sogni. Socchiude le palpebre, ripetendosi quella parola.
Sì, Jen aveva ragione. Anche lei ne ha.
Alza appena il capo, guardando di nuovo il volume.
Li ha, ma sa che non si realizzeranno. Sa che non potrà mai cavalcare un drago, imparare ad usare la magia, maneggiare una spada, stringersi al petto di qualcuno e chiamarlo papà.
Sa che è completamente inutile.

Emma ha sette anni, tre case alle spalle, un numero che non riuscirà a memorizzare di fronte, e sa, sa perfettamente che sognare è inutile.
Perché il sogno è illusione e l’illusione equivale all’astratto, mentre la realtà è concretezza e lei non vuole una casa d’aria, una casa che in un battito di ciglia si sgretolerà. Lei vuole i mattoni, quelli solidi, quelli che non cadono, quelli che metterà lei, uno sopra l’altro.
Emma ha solo sette anni ed ha smesso di credere.  

***


«Emma». 
Socchiude gli occhi, cercando di proteggersi dai granelli di sabbia portati dal vento.
«Cosa c’è, David?» sbuffa, continuando a camminare, l’odore della salsedine nei polmoni; le iridi fisse dinanzi a sé, che tentano di cogliere qualunque profilo, qualunque presenza che non sia solo una delle tante ombre che l’affiancano. 
«Non sono suo padre, miss Swan». Sussulta impercettibilmente nell’udire la solita punta d’ironia farsi strada nella voce dell’uomo; non è acuminata, pungente,  non riesce a trapelare d’ilarità a ferire, dilaniare la carne come una volta. Ma c’è, è presente, per quanto fioca.
Esattamente come quella persona che l’ha raggiunta, che le cammina accanto, nonostante l’andatura stanca e gli occhi spenti.
Quand’è stata l’ultima volta che un barlume li ha attraversati? Due, quattro, sei mesi fa?
«Questo lo sapevo» risponde, leggermente stizzita, mentre lascia vagare il proprio sguardo sugli alberi che li sovrastano, che si stagliano imponenti contro il cielo dell’Isola che non c’è, proseguendo la loro disperata ricerca.
Oh, al diavolo, cosa pensa di vedere? Henry che le corre incontro libero e sano?
«Sa, alcune volte mi domando perché lo chiami per nome». Volge appena il capo, i globi assottigliati che incontrano quelli di Gold.
«Suo padre, intendo».
«Non sono… affari suoi» mormora, interrompendo il contatto per poi osservare la sabbia dove sono ancora visibili le loro impronte; mentre tenta di concentrarsi solo su Henry, sul suo volto, su di lui, come se ciò potesse riportarlo indietro, fra le proprie braccia.
«Certo, mi perdoni. Lo trovo semplicemente strano, dato che ha sempre sognato di averne uno». Torna ad osservare l’uomo, mordendosi il labbro inferiore. 
Colpo basso, signor Gold.
«E lei che ne sa?», incrocia le braccia al petto; le voci di Regina e Hook che pervadono l’aria, appena udibili a causa del vento e delle parole pronunciate dall’uomo, le quali infuriano nella sua mente, simili ad una tormenta. 
«Sapevo molte cose di lei ancor prima che nascesse», sorride, e la donna non riesce a comprendere cosa significhi quell’espressione.
Non è beffarda e nemmeno commiserevole, eppure la lama è tornata a pungere, le parole a far male. 
«Penso che dovrebbe astenersi dal discutere su argomenti che non può comprendere» dice in fine, affondando il piede nella sabbia, come se ciò potesse infonderle la forza di scacciare quei ricordi composti da lacrime e notti, dolori e solitudini.

 ***


«Com’è andata la giornata, Rumpel?», la donna dinanzi a lui sorride pacatamente, lo sguardo fisso sulla ciotola di legno. 
Ha poco più che trent’anni, eppure è come se ormai avesse vissuto un’eternità. 
Il ragazzo non cerca il suo sguardo, sa che non appena sarà sul punto di allacciarlo al proprio, lei gli sfuggirà, come avviene sempre in quei momenti in cui sembra che i suoi lineamenti possano ferirla, mutilare quel corpo minuto e stanco; come se non appartenessero più a lui.
Non lo odia, sa anche questo, benché desidererebbe che ci fosse sempre la sua persona dinanzi a lei, non suo padre; quella fantomatica presenza che hanno molti suoi coetanei del villaggio, quella che gli piacerebbe provare ad avere accanto, almeno per un attimo, magari al posto dei momenti in cui, a Tessa, fa troppo male guardarlo; di quelli in cui l’unica parola che gli è permesso udire è “codardo”
Rumpel ha tredici anni, e si domanda cosa ci fosse di sbagliato in lui anche a quel tempo, in quell’istante che non può rammentare.  

***


Riprende a camminare, il passo spedito, come a mettere maggiore distanza fra lei ed il suo interlocutore.
Intanto i rami hanno iniziato a frusciare con ancor più violenza, ed Emma rallenta appena per avvertire i suoi passi dietro di lei.
Pare quasi che Peter Pan possa controllare gli eventi climatici dell’isola, e stia tentando di fermarli.
In fondo niente è impossibile, non è forse ciò che ha appreso durante la sua permanenza a Storybrooke? 
Si ripara nuovamente gli occhi con le mani; la conversazione fra Regina e Hook, ormai, è inudibile.
«Comprendo più cose di quel che pensa».
Incespica. Non è frutto della sua immaginazione, o uno dei ricordi che quel maledetto di Gold le ha fatto tornare in mente, e nemmeno una sequenza di sillabe sconnesse; sembra quasi che il vento abbia portato quelle parole fino alla sua persona di proposito e – per l’ennesima volta – capisce di essere sempre stata lei, Emma, quella a non aver mai compreso, a non aver mai colto alcun dettaglio, a essersi lasciata cullare da quell’ignoranza che aveva sempre definito fastidiosa.
E, per una volta, si ferma, restando immobile per farsi raggiungere.



Note: ammetto che scrivere di un young!Gold è stata una specie d’impresa, spero solo che sia abbastanza credibile, ma nel complesso credo che questa sia stata una delle storie che ho prediletto scrivere, per quel che riguarda questa raccolta. Spero solo che la lettura sia risultata piacevole. 
Ammetto anche che i flashback non erano previsti nella versione iniziale, ma durante la stesura mi sembrava una buona idea aggiungerli, spero che sia stato così. xD
Ormai non manca molto alla conclusione della raccolta, dipende da ciò che riuscirò a scrivere questa settimana. Comunque, la prossima sarà collocata durante la season 1, una breve OS senza pretese. Sempre che – in una crisi di “Mio Dio, cos’ho scritto?” – non la cancelli . 
Detto questo la smetto di sproloquiare e vi invito a recensire senza alcuna pietà, grazie di essere giunti fino a qui. (:

   
 
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