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Autore: zippo    15/03/2008    4 recensioni
Rebecca era solo una ragazza del liceo quando, ricevendo la visita di un bellissimo ragazzo, scopre di essere un angelo. Le sue radici, la sua storia e la sua stessa anima appartengono ad un altro mondo, ben diverso dal nostro, dove magia e creature mitologiche vivono indisturbate in armonia con i loro abitanti. Rebecca, sotto la protezione del suo maestro, dovrà essere iniziata all’arte della guerra e alla pratica della magia dato che in quello stesso pianeta così perfetto e tranquillo un altro angelo minaccia la sua distruzione. Una storia interessante basata sull’amore, sul coraggio e sul Bene.
Il primo capito della saga: IL BENE
"L'eroe non è colui che non cade mai ma colui che una volta caduto trova il coraggio di rialzarsi" Jim Morrison
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cap. 6 - UN POSTO CHIAMATO CASA -

Superato lo stupore iniziale Rebecca ebbe il coraggio di avvicinarsi alla casa. Sulla soglia, Rosalie, l’attendeva stranamente allegra e gioiosa, indossava un completo assai curioso, doveva aver buttato i suoi bei jeans e averli sostituiti con una specie di tutina aderente alla mo di Lara Croft. Sembrava una guerriera coinvolta in un possibile attacco.

Bec la squadrò da capo a piedi e non solo perché quella tutina le metteva in risalto le forme perfette ma perché le rendeva più chiaro il motivo per cui era lì, quel vestito poteva benissimo essere usato per un carnevale a Phoenix ma in quel contesto non era un costume di scena, bensì di vita reale. Ora come ora la presenza della guerra si sentiva nell’aria e nelle persone, presente e instancabile.

Avrebbe dovuto indossare anche lei una cosa del genere? Come si sarebbe sentita? Consapevole che andava a combattere?

“Vieni” disse cordiale Rosalie, facendo entrare in casa la ragazza e schiacciandosi sullo stipite della porta per farla passare.

Mentre entrava Rosalie diede un’occhiata fugace al fratello che da quando era arrivato non aveva neppure per un secondo staccato gli occhi dalla figura della sorella.

“Entra, dai” lo intimò Rosalie, con meno vigore.

Quando Gabriel entrò non si aspettava che la casa fosse così luminosa, era rimasto nelle tenebre della notte allungo e ora la luce gli faceva male agli occhi, le pupille si restrinsero per permettere l’adattamento al nuovo ambiente.

Appena Gabriel posò lo sguardo impassibile su Rebecca, la trovò di schiena ferma in cucina. Da quella posizione poteva vedere le labbra della ragazza dischiuse per lo stupore.

“Chiudi la bocca” le disse, sgridandola.

Con un gesto non del tutto consapevole, chiuse la bocca.

Non si aspettava niente di tutto ciò, la casa non era grandissima, una cucina, un salottino, un bagno e una camera da letto dovevano essere le uniche stanze. Naturalmente nel piano terra c’erano solo la cucina e la sala con il bagno. Ovunque, mobili, muri, finestre, porte erano in legno scuro e i colori della tovaglia e dei divani erano chiari e coordinati all’arredamento. Lì c’era corrente elettrica e acqua calda, probabilmente avevano fatto di tutto pur rendere l’abitazione adatta a lei.

“Di solito le case a Chenzo non possiedono dei salotti ma per te abbiamo voluto qualcosa di speciale, così ti saresti sentita più a tuo agio in una casa che assomigliasse a quella che avevi prima” disse Rosalie, non capendo lo stato brado in cui Rebecca si era ridotta a forza di scrutare la stanza.

“Posso andare di sopra?” domandò la ragazza, curiosa di sapere come Rosalie avesse arredato le camere da letto.

“Fai pure, è casa tua” disse Gabriel, passandole davanti, prendendo posto in una sedia sulla tavola e addentando un pezzo di pane con un po’ troppa confidenza dell’ambiente.

La ragazza lasciò i due e con una curiosità allucinante percorse le scale scricchiolanti. Il piano superiore era grande come quello inferiore ma quando, nel corridoio, notò due porte a destra e due porte a sinistra le sorse un dubbio.

Come mai tutte quelle stanze per una persona sola?

Pian piano, aprì la prima porta e man mano che andava avanti a scoprire le stanze impallidì.



***



Rebecca percorse le scale correndo e il legno sfogava la sua furia facendo scricchiolare i gradini così forte che si sarebbero potuti rompere come carta.

Non fece in tempo a trovarsi a metà scala che sentì la voce nitida di Rosalie urlare qualcosa verso Gabriel.

Nel sentire la voce della ragazza alzarsi di tono, rallentò, bloccandosi, in attesa di capire il motivo di quella lite così accesa. La scena che le si presentò davanti era quella di una Rosalie furiosa, in piedi, che aggrediva un Gabriel seduto sul divano del tutto indifferente e annoiato.

“…e ora è tutta colpa tua! Te ne rendi conto?! Sei arrivato troppo tardi, accidenti!”

La cosa stava degenerando, decisamente. Appena un movimento falso provocò un altro scricchiolio nei gradini la scena s’interruppe e i volti dei due fratelli si posarono velocissimi sulla figura immobile sulle scale.

“Che succede?” chiese la ragazza, intimidita dai toni aggressivi che Rosalie aveva usato.

Gabriel ovviamente se ne stava zitto e fermo, fissandola in silenzio.

“Niente. Niente” disse Rosalie, gesticolando con le mani come se stesse scacciando una mosca invisibile. “Hai bisogno di aiuto?” le chiese, con un sorriso teso, ignorando lo sbuffo di Gabriel.

“Sì, ecco, io volevo sapere come mai ci sono due camere da letto. Non hai detto che la casa è mia?”

“E quando mai! Certo che è tua, è anche tua”

Anche? Chi è l’anche?”

Rosalie ammutolì e il suo sguardo indugiò un po’ troppo allungo su Gabriel, che teneva gli occhi bassi e sembrava molto concentrato su un’unghia delle mani.

“Cosa?! Rosalie, mi stai per caso dicendo che…?!”

“Sorpresa!” cantilenò Gabriel, fingendosi entusiasta e roteando gli occhi.

“No. No. Non può essere, non lui. No” mormorò Rebecca, e picchiettò il palmo sulla fronte.

Quello sicuramente era un incubo.



***



L’idea della convivenza era un peso schiacciante e opprimente. Dopo aver reagito negativamente alla notizia, Rebecca, si accasciò sul divano arrendevole.

Tutto era lontanamente diverso da come lei se l’era immaginato. Non voleva condividere la casa con Gabriel, lui era una sorta di protettore, di maestro, una guida da seguire. Di certo non pensava che avrebbe dovuto convivere con lui sotto lo stesso tetto. Dopotutto, sebbene fosse così austero, era pur sempre un ragazzo di diciannove anni con tanto di ormoni adolescenziali. Lui una volta le aveva parlato di immortalità, del fatto che da quando si diventa angeli si acquisisce automaticamente l’eterna giovinezza ma l’idea di diventare immortale non l’attirava granchè ora come ora.

Una vita eterna con Gabriel.

Rebecca rabbrividì al solo pensiero.

Lei non era di certo una ragazza che puntava sulla bellezza o che ogni mattina si guardava allo specchio per scoprire se le erano spuntate delle rughe! Lei voleva crescere, invecchiare ma soprattutto voleva sposarsi e avere dei figli…tutto questo finchè era sulla Terra. Chissà se anche a Chenzo il matrimonio veniva concepito come un sacramento di unione religiosa. Senza contare il fatto che se fosse diventata immortale automaticamente non avrebbe potuto diventare madre, in quanto non si può far nascere un bambino di per sé immortale.

Un pensiero però, più di tutti, le metteva paura: Gabriel era pur sempre un ragazzo.

E che schianto di ragazzo, porca miseria.

La probabilità di un amore non doveva esserci, anche perché Rebecca contava che prima finiva quella cavolo di guerra, prima se ne poteva tornare a casa.

Solo restando a Chenzo avrebbe imparato l’uso della magia e una volta tornata sulla Terra avrebbe saputo come trovare i suoi genitori, ridarli la loro memoria e infine costruirsi un futuro.

Bec spostò lo sguardo verso Gabriel che, anche lui seduto sul divano, continuava a guardarsi le mani. Questo la mandò in bestia. Lo irritava, non sopportava il suo modo da “chi-se-ne-frega-del-mondo-intorno-a-me” che aveva, la sua arroganza e le sue frasi fatte. Il menefreghismo che aveva quando si parlava di qualcosa d’importante e la sua impassibilità ai sentimenti umani. Il suo estraniarsi da tutto e da tutti facendoti sentire sempre inadeguata a lui, come se solamente i più forti potessero entrare nel suo mondo immaginario e capirlo mentre i comuni mortali restavano a guardarlo così: assorto nei suoi pensieri.

Si mise seduta con la schiena dritta e lo fulminò con gli occhi.

“Tu non dici niente a riguardo o sei troppo impegnato a mangiarti le unghie?”

Il ragazzo alzò lentamente, molto lentamente, gli occhi e la guardò scoccandole uno sguardo irritato.

“Che c’è da dire? Mi sembra che non ci sia niente da capire sul fatto che abiteremo insieme” disse, altezzoso.

Rebecca ringhiò e Rosalie, che fino ad allora era rimasta in piedi, riuscì ad attirare l’attenzione dei ragazzi.

“Io vado. È notte fonda e sinceramente ho sonno. Buona notte, ci vediamo domani mattina per il tuo allenamento, Rebecca”
 
“Subito inizio? Così, di pacca?”

“Oh si, prima finiamo meglio è”

Rosalie scomparve dalla porta con un sorriso amaro e il silenzio calò nella casa. Bec si rigirava nervosa le mani in grembo, lanciando occhiate nervose alla stanza.

La ragazza non si aspettava certo che la convivenza forzata andasse bene, ma lei avrebbe cercato in tutti le maniere di comportarsi nel miglior modo possibile.

Se si fosse arrabbiata avrebbe cercato di tenere a bada il suo pessimo sarcasmo, le frecciatine e la sua impulsività.
La ragazza era sempre stata irascibile, e con la scusa che era figlia unica e i suoi genitori lavoravano praticamente tutto il giorno, aveva imparato ad essere indipendente e aveva creato una sorta di impulsività dovuta all’enorme rancore che provava e alla mancanza d’affetto.

Lei era fatta così, quando succedeva qualcosa di poca rilevanza se ne stava zitta e tutta la rabbia l’accumulava dentro di sé, n’anche avesse un serbatoio di aggressività, ma quando il serbatoio era pieno e una sola goccia entrava nel vaso…lei poteva esplodere, ma non con scenate da ragazzina capricciosa bensì con insulti e attacchi piuttosto mirati e controllati.

Pochi anni prima aveva praticato difesa personale e molti movimenti le erano pure tornati utili quando doveva sfogarsi sul suo sacco da boxe. Aveva poi preso parte a delle lezioni di karate e quando tutto diventata astioso e difficile lei si sentiva ugualmente forte. Forse era vero che avrebbe imparato in fretta a combattere, si sentiva carica e potente come se nelle sue vene scorresse un’elettricità esplosiva.

Prese un respiro e si alzò.

“Posso andare in giro come se fosse casa mia, no?”

“Certo. È casa tua”

Anche Gabriel si era alzato e stava andando di sopra con il suo solito passo silenzioso.

Certo che il ragazzo poteva dimostrarsi anche un pochino più presente! La trattava come un’estranea, lo stesso comportamento che un insegnante assume con un suo allievo: diplomatico e carente di parole carine.

Rebecca andò in cucina tenendo le orecchie ben aperte cercando di capire dove potesse essere Gabriel.

Iniziò ad aprire ante e scaffali a caso finchè non trovò una dispensa che conteneva qualcosa che assomigliava lontanamente a del cibo. Più che altro sembrava a del cibo in scatola, solamente che la scatola era di legno ed era morbida. Sulla Terra non esisteva del legno morbido.

Rebecca scrollo un paio di volte le spalle e decise di andare al piano superiore, la curiosità la stava uccidendo. Aveva sempre vissuto con i suoi genitori e trovarsi a condividere la casa con un ragazzo estraneo la faceva sentire irrequieta, necessitava di sapere ogni suo spostamento.

Stava diventando una specie di comportamento ossessivo compulsivo?

Sì, può essere.

Il corridoio era sempre buio e una luce illuminava la sua fine. La porta era spalancata e Gabriel era seduto dando le spalle alla porta. Era un piccolo studio con una scrivania e delle librerie, molto simile a quello di Bastian. Bec entrò tranquillamente e si andò a sedere su una poltrona rossa di fianco alla scrivania.

Più che sedersi la ragazza si accasciò in una maniera assai poco carina, il termine corretto sarebbe: “si lanciò sul divano come un paracadutista si butta nel vuoto”: schiena supina e gambe in aria appoggiate allo schienale, tipica posizione pre-dormita.

Gabriel alzò lo sguardo da un libro enorme e la guardò con aria di dissenso.

“Non si bussa prima di entrare?” chiese, stizzito, non approvando quella posizione così scomposta e inadatta ad una ragazza.

“La porta era aperta” disse distrattamente Rebecca, osservando il soffitto.

“Almeno avverti”

“Non hai detto che è anche casa mia? Io a casa mia mica busso quando devo spostarmi…beh, apparte quando vado in bagno” disse, e subito rimase con il fiato sospeso.

Non ci aveva pensato al fatto che avrebbero dovuto anche avere un unico bagno in comune.

L’immagine di lei che apriva la porta senza bussare e di Gabriel mezzo nudo in bagno le arrivò chiara e nitida nel cervello e avvampò del tutto.

“Che c’hai?” chiese Gabriel, che aveva notato il cambiamento di colore sulle sue gote pallide.

“Niente” rispose lei, presa dal panico.

Sarebbe molto più facile se la smettessi di guardarmi così, pensò Bec irritata.  

Gabriel provò a leggerle nel pensiero e sentì che la rabbia stava aumentando inspiegabilmente quando non ci riuscì.

Odiava, odiava, odiava non riuscire a leggerle i pensieri.

Anche in quel momento, che stava provando? Perché arrossiva? Aveva detto qualcosa che l’aveva messa a disagio?

Stanco e annoiato chiuse il grosso tomo e annunciò che lui se ne andava a letto.



***



Silenziosamente, camminando in punta di piedi, Rebecca uscì dallo studio e si diresse verso la camera da letto. Durante il giro di ispezione appena arrivata aveva notato due camere da letto, una aveva i muri con le pareti in legno azzurro (esisteva il legno azzurro?) mentre l’altra era sui colori tenui del bianco. Bec optò la seconda stanza, trovando la prima troppo…maschile, ecco. I muri azzurri, il letto squadrato e l’arredamento spoglio si addiceva di più ad un ragazzo che non ad una giovane signorina.

Entrò nella stanza sempre senza fare rumore e decidendo che non occorreva accendere la luce dato che uno spiraglio illuminava comunque si diresse dritta a letto. Proprio mentre si trovava nelle sponde del grande letto a baldacchino si rese conto che era ancora vestita in jeans e maglietta.

Cavolo, il pigiama.

E ora che m’invento?


Nella fretta funesta aveva ovviamente dimenticato cose tipiche come il pigiama, necessario se devi fare un viaggio, se poi bisogna anche trasferirsi peggio che peggio.
Ora che ci pensava non aveva portato niente con sé e l’idea di dover stare per tutta la vita con i soliti jeans e t-shirt addosso le mise agitazione. Lei, abituata al lusso e ai vestiti costosi, allo shopping settimanale con la madre, come poteva concepire un solo capo d’abbigliamento forever? Senza contare alla biancheria, le scarpe, i calzini…

Oddio…

Il panico totale s’impadronì di lei. Ma non aveva voglia di star lì a rimuginarci sopra alla questione, l’indomani avrebbe chiesto aiuto a Rosalie, bella com’era avrebbe certamente avuto un decente corredo di vestiti. Però una cosa non avrebbe mai indossato, nemmeno una volta, quegli orridi vestiti lunghi stile ottocento. Di questo ne era certa.

Si allontanò dal letto per vedere se per caso, dentro all’enorme armadio beige, ci fossero indumenti che assomigliassero ad un pigiama, si sarebbe sennò accontentata di una tuta…ma purtroppo il mobile era vuoto. Non stette a pensare a nient’altro e in meno di dieci secondi si spogliò dei jeans e della maglietta, rimanendo in slip e canottiera. Cercò di lisciarsi i capelli e si coricò a letto.

Non era abituata ad avere un letto così grande, cioè, lei dormiva nei letti a due piazze ma quello sembrava ne avesse quattro! Sentendosi persa in quella stanza si tirò le coperte fin sotto al mento e si accucciò nella sponda, che per poco non rischiò di cadere fuori. Il buio era innaturale, ci vedeva e non ci vedeva. Aveva visto l’armadio e la sponda del letto ma non era riuscita ad inquadrare bene tutta la stanza.

Con le palpebre che ormai erano diventate pesanti come due mattoni decise di abbandonarsi ad un sonno che fosse il più lungo possibile.



***



La serie di rumori che si susseguirono avvennero sempre durante quella notte. Rebecca non era ancora certa di essere del tutto sveglia ma giurava, nella dormiveglia, di sentire qualcosa muoversi nel letto. Era troppo stanca e forse stava sognando. Non erano poi dei rumori che lei avrebbe definito pericolosi, sembrava piuttosto che qualcosa o qualcuno stesse strisciando sulle coperte, nella sponda opposta a dove lei stava rannicchiata.

Nonostante lei cercasse di rilassarsi, giustificando i fruscii con il vento o con qualche animaletto, non riuscì a riprendere sonno, anzi, stava iniziando ad agitarsi. Si stava autoconvincendo che tutto andava bene finchè non sentì qualcosa sfiorarle la gamba nuda.

La cosa era dentro al letto ed era pericolosamente vicina a lei. Era paralizzata, non osava muoversi per la paura che le mordesse un piede.
Per illuminare la stanza avrebbe dovuto accendere l’interruttore ma era troppo distante e rischioso. Bisognava che facesse qualcosa di scattoso, veloce ma che al tempo stesso ci vedesse e non corresse il rischio di trovarsi sbattuta contro un tavolino o un comodino che ignorava l’esistenza.
Le coperte si alzarono improvvisamente, animate, come se stessero fluttuando. Entrò nel letto un’ondata di gelo e poi le coperte si riabbassarono. La cosa si mosse ancora e il letto cigolò.

Ok, non era il momento di fare la fifona. Dopotutto avrebbe dovuto affrontare il Male fatto in persona, non doveva intimidirsi di fronte a qualche piccola bestiolina.

Con un’attenzione fenomenale scese dal letto senza fare nessun tipo di rumore che facesse capire la sua presenza in quella stanza. Con le mani che le tremavano tastò se per caso c’era un comodino accanto.

Le sue mani toccarono un tavolo molto piccolo che doveva avere la forma circolare.

Eccoti!

Una volta trovato cercò qualcosa di abbastanza duro per buttarlo addosso alla cosa, possibilmente facendole del male, molto male.

N'anche dormire posso.

Le sue dita si trovarono a sorreggere un palo con in cima due biforcazioni.

Un candelabro.

Sempre meglio.

Ora, oltre ad aver trovato qualcosa di appuntito, aveva trovato la luce. Avrebbe acceso, velocissima, l’interruttore, giusto il tempo di vedere cosa c’era nel letto e poi, senza il minimo dubbio a riguardo, gli avrebbe scaraventato addosso il candelabro. Sicuramente l’avrebbe tramortito.

Te le faccio vedere io le stelle…

Appena Rebecca prese saldamente il candelabro, appoggiò le dita sull’interruttore.

Beh, premesso che il piano era ottimo…dalla fretta e dalla paura folle la ragazza non fece n’anche in tempo ad accendere la luce che non ebbe il coraggio di guardare cos’era la cosa schifosa sul suo letto e si era messa a lanciare, con tutta la sua forza, la candela contro la parte in fondo del letto.

Seppe di aver centrato il suo bersaglio dall’urlo disumano che sentì. Con la luce che aleggiava nella camera vide una figura che scattò in piedi e che iniziò a massaggiarsi la testa, ma non riusciva bene a capire chi fosse. Riusciva solo a intravedere immagini nell’effetto di luce-ombra.

Capì che qualcosa non andava quando le parve di riconoscere la voce.

La luce saltò e la camera piombò nel buio più totale. Tirò fuori dalla tasca dei suoi jeans a terra un accendino e con uno strano nodo in gola puntò la luce verso il letto. La scena che vide la impietrì, lasciandola a bocca aperta. Gabriel era schizzato in piedi e una smorfia di puro dolore gli trapassava il bellissimo viso. Con una mano si massaggiava un punto indefinito della testa, dove probabilmente era stato colpito dal candelabro.

Rebecca era in piedi dall’altra parte del letto e con l’accendino ancora in mano. Uno sguardo da ebete stampato in faccia.

“Ma che diavolo credevi di fare? Sei pazza?!” urlò, fuori di sé il ragazzo.


“Oddio…”

L’enorme groppo che aveva in gola, e che lei credeva fosse un pianto nervoso, uscì come una fragorosa risata.

Rebecca cominciò a ridere, piegata in due e non riusciva più a fermarsi davanti alla faccia stupita e furiosa di Gabriel. Si portò una mano allo stomaco e i dolori alla pancia cominciarono ad essere insopportabili.

“Che cavolo ridi?!” il volto contratto dalla rabbia.

“Scusa…è solo che…ti avevo scambiato per un bruco gigante!”

Bec gli puntò un dito contro e ormai aveva le lacrime agli occhi.

Il ragazzo la prese come un’offesa personale, rimase serio e aspettò che lei si calmasse. Ci volle un bel po’ prima che Rebecca riprendesse il controllo. Non aveva mai riso tanto e ora che l’aveva fatto provava una sensazione di liberazione e di spensieratezza che la fecero sentire bene.

Quando si calmò aveva comunque ancora degli scossoni post-risata.

“Hai finito?” domandò Gabriel, in una maschera di odio.

“S-Sì” balbettò, non del tutto sicura che la sua calma apparente potesse durare ancora per molto.

“Perché eri nel mio letto? Dico, non hai visto che c’ero io?”

“Sinceramente non sapevo che era la tua camera e poi con questo buio non ho visto proprio niente. È solo che…”

“Solo che…?”

“È solo che mi ricordavo che l’altra stanza era azzurra e quindi avevo dedotto che ci fossi tu, visto che ai ragazzi piace…quel…colore…”

Ecco, stava per arrivare un altro attacco.

“Smettila!” sbraitò, incavolato.

“Che vuoi?!” chiese Rebecca fingendo di non capire, anche se si vedeva benissimo il suo sforzo nel cercare di non riderli un’altra volta in faccia.

“Continui a ridere come una bambina!” disse lui, scuro in volto.

“Non…ci posso…fare niente…”

E ancora che riparte, ma questa volta la risata fu molto più breve dato che lo sguardo omicida del ragazzo le spense il sorriso.

“Vedi di darti una calmata”

Ovvio, si era offeso.

“Scusa” e questa volta era sincera.

Gabriel si rilassò.

“Allora, ti decidi ad andare via?” chiese il ragazzo, spazientito dall’aspettare in piedi (che, tra parentesi, era con solo i boxer addosso).

La ragazza spalancò gli occhi.

“Non ci penso nemmeno, sei tu l’uomo e a te tocca la camera azzurra!”

“Cos…? Ok, allora me ne vado”

Stava già percorrendo il letto aggirandolo quando lei lo bloccò con le parole.

“N’anche per sogno, me ne vado io!”

I due si guardarono malissimo, nessuno dei due voleva darla vinta all’altro.

“Allora io resto” afferma Gabriel.

“Non è giusto! Questa camera mi spetta di diritto!”

Gabriel e Rebecca si guardarono allibiti.

Alla fine dormirono nella stessa camera con le adeguate distante di sicurezza.



***



Il giorno seguente fu parecchio difficile per Rebecca, la sveglia era prestissimo e la colazione che aveva preparato Gabriel era orrenda.

“La tua cucina è pessima!” lo aveva sgridato.

Gabriel si era subito infervorato, sentendosi punzecchiare nel profondo.

Dopo aver mangiato i due erano usciti e alla luce del sole il villaggio era ancora più bello, immerso nella natura e nel verde dei boschi, l’unica pecca era che tutti i passanti appena la vedevano passare per le strade smettevano di fare quello che stavano facendo e si mettevano a guardarla insistentemente.

“Ehm, dove stiamo andando?” domandò la ragazza, dando continue occhiate alla gente.

“Da Rosalie” rispose, secco.

Forse ce l’aveva ancora con lei per l’offesa recatagli durante la colazione, o per via dell’incidente del letto.

A quel ricordo rise di nuovo. Era una cosa troppo ridicola e stupida per non ridere. Dovette mettersi una mano sulla bocca per tappare il sorriso smagliante che aveva stampato in faccia, altrimenti se il ragazzo se ne fosse accorto l’avrebbe ammazzata facendolo passare per un incidente.

Infatti se ne accorse.

“Quando fai così mi irriti” disse, continuando a camminarle accanto, senza degnarla di uno sguardo, se non di occhiate veloci e intimidatorie.

“Mi scusi, maestro”

Ovviamente Bec scherzava. Da quando aveva perso i genitori, lasciato la Terra e dimenticato parte della sua vita aveva sviluppato un senso dell’umorismo formidabile. Dopo tanto dispiacere e tante lacrime, lei stessa sentiva la necessità di sentirsi felice in modo da renderle ancora piacevole la vita.

“E non chiamarmi maestro, non sono il tuo maestro e nemmeno voglio esserlo”

Oh, ma non gli va bene niente!

“Allora come vuoi che ti chiami? Gabri?”

Capì di aver detto la cosa sbagliata quando gli occhi glaciali di Gabriel la scrutarono con fastidio.

“Tu come chiami gli amici?” disse, e un lieve sorriso si distese sulle sue labbra.

“Con i loro nomi…” non era sicura di dove il ragazzo volesse andare a parare ma tutto un tratto si sentiva più allegra.

“Allora chiamami con il mio nome”

Beh, almeno era stato tenero.

Finchè erano sulla Terra le veniva spontaneo chiamarlo con il suo nome ma da quando aveva scoperto che sarebbe stato il suo maestro e aveva capito che lui, del ragazzo normale non aveva niente, aveva iniziato a vederlo come un vero e proprio insegnate, dimenticandosi che, nonostante la sua saggezza rimaneva comunque un giovane. Ma in fondo era anche dolce.

Spiazzata dalla sua risposta e dall’intimità che si stava creando Rebecca rispose esitante e imbarazzata.

“Ok, Gabri…”

“Gabriel! No Gabri!” sbraitò.

Ok, io lo ammazzo.



***



La casa di Rosalie era…beh, era come la padrona: semplice, decorata con eleganza e incredibilmente bella. La sua era però più piccola, solo più tardi Rebecca scoprì che la ragazza condivideva la casa con un’altra donna, che poteva avere sulla quarantina.

“Come mai Rosalie vive con una donna che non è di famiglia?” bisbigliò Rebecca, all’orecchio teso di Gabriel.

“È la donna che ha cresciuto me e Rosalie quando i nostri genitori sono morti” le spiegò il ragazzo.

Da quello che aveva capito Gabriel e Rosalie, fratelli di sangue, erano rimasti orfani dalla nascita e solamente questa signora: Adele, aveva avuto il fegato di portarli a casa sua e di crescerli come figli suoi, dato che lei di figli non ne aveva. E non era n’anche sposata, sempre che il matrimonio esistesse.

Allora la casa non era di Rosalie ma di quella signora. Bec non vide quel giorno Adele perché entrambi i fratelli dissero che era via ma qualcosa di incredibilmente losco stuzzicava la sua curiosità su quella donna. L’istinto le diceva che avrebbe dovuto fare la sua conoscenza non appena questa fosse tornata.

“Quando torna?” chiese, Rebecca.

“Non lo sappiamo. Ogni tanto parte, non dice niente a nessuno e poi torno stanca e più vecchia di prima” disse Gabriel, in pensiero.

Ormai i tre erano già in casa e comodamente seduti in cucina. Il sole, fuori, batteva e scottata.

“Andiamo” annunciò Rosalie. “Che devi iniziare l’allenamento, no Gabriel?”

Rosalie chiese la conferma al fratello che, prontamente, le fece segno di sì con la testa.

“Ah! Prima che mi dimentichi…Rosalie, per caso non hai un vestito per me? Non posso starmene con i jeans e maglietta”
Sapeva quanto Rosalie la capisse in fatto di moda. La ragazza si sbattè una mano in fronte e sorridendo ripetè continuamente:

“Me ne stavo dimenticando…me ne stavo dimenticando…”

Rosalie scattò dalla sua sedia e per due buoni minuti sparì dalla stanza. Quando tornò, per l’orrore di Rebecca, teneva in mano una tuta simile alla sua. Faceva tanto eroina, paladina…o semplicemente faceva Carnevale.



***

  
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