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Autore: Hoel    10/09/2013    1 recensioni
E adesso [...] posso sentire i sussurri del tabarro, le sue maliziose confessioni e le immagini nitide di un passato inalterato dalla convenienza, dalle amarezze, dalle nostalgie e dai reciprochi rancori. [...] Perché il tabarro, nella sua dualità quasi femminile, avvolge e protegge chi vi si rifugia, ma allo stesso tempo nasconde e svela in un teatrale svolazzo le nefandezze che ipocritamente non si vogliono vedere, che non devono essere viste. [...]
***
Un viaggio a ritroso nel passato, per non dimenticare, per non tacere e, ovviamente, per potervi un poco spettegolare.
[MadaHashiMada; altre coppie seguiranno ...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Hashirama Senju, Izuna Uchiha , Madara Uchiha, Tobirama Senju, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
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B'jour!

Rieccoci qui col nuovo capitolo, questa volta in tempo record!

Mi sono particolarmente divertita a scriverlo, forse perché mi ricorda un certo periodo dell'anno in cui si è tutti più buoni e felici! XD

Per il resto, non credo che ci siano degli avvertimenti da fare, in ogni modo l'universo qui narrato, per quanto "realistico", è pur sempre di fantasia e quindi qualche licenza poetica ce la prendiamo! XP

Quanto alla filastrocca che comparirà  nel corso del capitolo, non mi ricordo il nome dell'autore, comunque non  è mia, precisiamo!

Un sentito ringraziamento ai miei lettori e ad Ame Tsuki in particolare, che è stata così gentile da recensire.

Vi auguro buona lettura,

 

 

H.

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Capitolo Terzo: Adeste Fideles, cinque minuti prima.

 

 

 

Le origini degli Uchiha, la mia famiglia, sono tuttora avvolte nel mistero, una nebbia genealogica che neppure l’onnisciente mostro dell’anagrafe poté mai rischiarare. Nessuno sa da dove siamo venuti. Taluni sostengono da Kirigakure, attraversando il mare e risalendo per il fiume Naka. Altri da Kumogakure, oltrepassando la foresta e altri ancora da Iwagakure, scendendo per gli angusti passi di montagna.

Personalmente, sono propenso a credere che in un passato ben remoto gli Uchiha avessero fatto parte della popolazione autoctona di Hi e che, chissà, magari erano stati perfino i padroni di quelle terre che, ai tempi della nascita di mio nonno, generazioni dei loro esponenti s’erano spaccati la schiena a lavorare. Secoli di continue invasioni dai quattro punti cardinali del paese li avevano relegati dallo status di uomini liberi a quelli di servi della gleba, poi mezzadri e infine riscattati dalla forza pecuniaria dell’irrequieta e ambiziosa borghesia.

 Ma le mie sono solo supposizioni.

Le ricerche da me condotte e delle quali mio cugino rideva bonariamente – “Vuoi appurare se discendi davvero dalle scimmie?”; “Taci, patacca! Tu hai già il tuo bell’albero genealogico con tanto di stemma! Voglio scoprire le mie origini!”; “E’ facile, mio caro: sei uscito da …”; “Troppe informazioni!” – insomma, da esse sono giunto ad un’unica certa conclusione, ovvero che a Mokuton v’erano degli Uchiha perlomeno sin dal Seicento, secolo in cui s’introdusse il registro parrocchiale per tener conto dei matrimoni, battesimi e funerali.

Ed eccola qui, la prima testimonianza della nostra esistenza, scritta in un commuovente quanto impacciato latinorum: Matrimonium Bakin Uchiwa cum  Tara uxor suas, Anno Domini MDCXIX, Dies Domini XXVII Augustus, Sancta Monicae Mater Sancti Agostini, Doctor Ecclesiae.  Sotto questa pomposa dicitura, due timide X, tratteggiate col medesimo insicuro e infantile tratto di chi non aveva mai tenuto un pennino tra le dita. Quasi un anno dopo, segue il nome di un tale Dayu Uchiwa, probabilmente il figlio della coppia.

Dunque, in passato ci chiamavano Uchiwa e continuammo a farlo fino all’inizio del Settecento, quando un parroco o molto svogliato o molto orbo o entrambi scambiò la “w” per una “h”, rinominando le generazioni future, le quali non s’accorsero mai di tale storpiatura, neppure mio nonno, il primo  della sua stirpe in duecento anni ad aver imparato a leggere e a scrivere, neppure lui venne a conoscenza del suo vero cognome, firmandosi invece Madara Uchiha, così come gli aveva riferito l’allora parroco di Mokuton, consultando i registri.

Ma il suo cognome sarebbe stato il più risibile dei problemi che il nonno ebbe con l’anagrafe. Ve ne fu uno ancora più ostico e al contempo assurdo: stabilire il giorno della sua nascita.

 

 

***

 

 

In un goffo tentativo di modernizzare il disomogeneo Regno di Hi  – progresso feroce nelle città, arretratezza sconcertante nelle campagne -  il Parlamento decretò e il Re Sorato XXI firmò che tutti i suoi sudditi avessero un documento di identificazione, un confusionario precursore del passaporto. E fin qui – ovvero: fino alla classe media – nessun problema, alcuni, per motivi di viaggi d’affari, già ne possedevano uno. Le incomprensioni sorsero nel momento in cui si scese nei quartieri più bassi, nel labirinto sociale del proletariato, degli immigrati, dei senzatetto e di altre categorie inclassificabili. Immaginatevi poi, quando i funzionari degli uffici dell’anagrafe uscirono dalle confortevoli e organizzate mura di Konohagakure e delle altre città di Hi, per disperdersi e dare un’identità cartacea agli abitanti delle campagne.  Nelle campagne dell’Ottocento! Potete figurarvi il bedlam che si scatenò? Quei signorini impomatati, cresciuti e già avvizziti in un sicuro ufficio, coi loro completi troppo sporchevoli per il fango, troppo caldi per l’umidità e troppo raffinati per lo stile sobrio e pratico adottato dai padroni stessi delle terre, si scontrarono con una realtà completamente differente, che avevano solo supposto esistere ai tempi delle jacquerie: gente cotta dal sole, dalle mani ruvidi e forti che avrebbero potuto strangolarli come niente; tanti visi giovani, poiché per la legge dell’assurdo i poveri hanno sempre figliato più dei ricchi e la vita media nelle campagne era tra i cinquanta e sessant’anni e di fatti, aggrappati alle sottane delle madri o portati nelle ceste sulle spalle, orde di bambini moccolosi affollavano in nuclei famigliari simili a tribù casolari sparsi per tutta l'estensione dei possedimenti, dove il concetto di privacy neppure esisteva nel loro vocabolario, dove si dormiva tutti nello stesso letto e dove vigeva il postulato, per quel che riguardava i vincoli famigliari, del "mater semper certam, pater numquam", in un concetto più spiccio: "Boh, potrebbe anche essere figlio mio, visto che è uscito da mia moglie!"

Eppoi, vabbè, puzzavano. Un odore misto di sudore, letame, paglia, fango, erba, latte, fumo, sangue nei giorni della mattanza delle bestie, tant'è vero che, durante la compilazione delle carte, più d'un funzionario avvolgeva col fazzoletto un sacchetto di lavanda essiccata, portandosela alle nari offese.

Tutti i proprietari terrieri erano stati previamente avvisati - e i Senju con loro - acciocché si mettessero a disposizione di questi temerari per aiutarli, come se loro fossero informati su tutte le tresche famigliari dei loro fittavoli. Certo, forse alcuni potevano dare delle dritte circa la paternità dei bambini, visto che andare a contadine era più sicuro che a prostitute ... In ogni modo, i funzionari vennero accolti generalmente bene, anzi, quando uno di questi raggiunse Mokuton, l'anziano Duca, mentre il figlio leggeva la sua lettera di presentazione più il fac simile del decreto, gli offrì cordialmente un bicchiere di vino, battendogli poi una gioviale pacca sulla spalla:

"Bonne chance, mon  vieux", disse sornione. "Bonne chance!"

Il Viro Morino non si lasciò certo intimidire: assieme ai suoi sottoposti occupò l'ufficio dell'amministratore e fece mettere in fila indiana i servitori del Castello di Mori, più i loro famigliari per farsi "esaminare", un affare mica semplice, poiché alcuni domestici non sapevano con certezza la data di nascita loro e dei figli e nipoti; altri, le donne in particolare, ovviamente non gliela volevano rivelare; ci fu chi si finse sordo per non scucire quelli che definiva "i miei affaracci" e qualcuno manco si presentò, tentando di disertare, sennonché venne prontamente riacciuffato e, pena il licenziamento, costretto a parlare. La notizia si sparse a Mokuton tra i mezzadri, riempiendosi di tinte fosche: vengono a schedarci come criminali, e quanto sei alto? e quanto pesi? chi era tuo padre? e chi era tua madre? sei sposato? hai figli? che fai per vivere? poi ti lordano le mani d'inchiostro e te le premono su di un sudicio pezzo di carta che non so manco leggere; e sì, ci schedano, amico mio!, così poi, al minimo sgarro, il padrone chiama la sbirraglia e sanno dove trovarci!; a che pro? il padrone sa a priori dove scovarci, perché catalogarci come anticaglie?; sentite,  è vero che ti chiedono l'età?; certo che credi?; ma io non gliela voglio mica dire! altrimenti penseranno che sono vecchia!; piuttosto, suo figlio, in che anno è nato?; l'anno della grandine per una settimana intera!; grazie, e in cifre?

Madara, che all'epoca aveva quattro anni e mezzo, fu scortato a viva forza nell'ufficio dell'amministratore: siccome sua madre lavorava nelle cucine del Castello e lui da lei si staccava solo per trovare sua "nonna" Najtine, il piccolo si trovava nel gruppo delle prime cavie e, siccome la sua mamma lo aveva sempre ammonito sulla preziosità della vita privata, lui aveva deciso di onorare questa massima materna e di non presentarsi dal funzionario. Perciò, bisognò rincorrerlo per tutto il Castello, fin sopra al cedro del Libano su i cui rami possenti il bambino s'era arrampicato con agilità scimmiesca. Staccatolo unghia per unghia, lo blandirono, gli diedero una stecca di zucchero alla fragola, ma no, non ti farà niente! solo un paio di domandine, che vuoi che sia? Guarda, se vieni, col funzionario ci sono anche i tuoi genitori, li abbiamo chiamati, ti stanno aspettando! Effettivamente, quando lo gettarono quasi nell'ufficio dell'amministratore Madara ritrovò la sua Ponja e il suo Paĉjo più i fratelli, provati da un estenuante interrogatorio, specialmente i genitori visto che il documento di identificazione serviva più a loro che ai piccini, ancora minorenni e sotto la patria potestà. Scorta la madre, il bambino le si aggrappò subito alla gonna, mentre lei gli accarezzava la zazzera corvina.

"Dunque, stavamo dicendo ... di quante persone è composta la sua famiglia? Sette?"

"Otto, Viro Morino."

"Ecco, Virina Uchiha, noi non consideriamo i nascituri", disse, alludendo al pancione di Kiyora. "Solo una volta nati, i bambini sono, come dire, fisici agli occhi della legge", in realtà il termine era un altro – soggetto di diritto - ma il funzionario sapeva ch'era meglio non confondere ulteriormente la psiche già di suo sconvolta di quella gente tagliata fuori dal mondo e in gran parte ignorante della legge. Anche perché, spassionatamente parlando, pur riconosciuti de iure come sudditi esercenti di diritti e doveri, de facto i mezzadri (e pure gli operai) vivevano come veri e propri schiavi, almeno all’epoca in cui mio nonno nacque e crebbe fino alla maggiore età.

"Neanche a qualche mese dalla nascita?"

"No, virina, poiché tutto potrebbe succedere nel frattempo ...", alluse cupamente l'uomo, provocando uno sbiancamento sul volto sia di Kiyora che di Tajima.

"Tié!", fu la svelta replica della giovane donna, un bel paio di corna a mo' di scongiuro. Senza darsi pena per quel gesto, il funzionario seguitò:

"Majstro Uchiha, potrebbe per cortesia dettarmi le date di nascita dei suoi figli? Partendo da quelli di primo letto, se non le dispiace ..."

"Uhm, vediamo ... c'è Setsuna, nato il 29 giugno 18 - ... , poi c'è Saya, nata il ... il ... che giorno è San Francesco d'Assisi? Ah, il 4 ottobre ... del 18 - ... Poi c'è Haruka" e lì sospiro, dacché se la ricordava molto, troppo, bene quella data funesta "che è nata 12 maggio 18 - ..."

"Perfetto, perfetto ... Ora, prosegua con quelli di seconde nozze ..."

Tajima Uchiha sospirò di nuovo, lanciando un'occhiata obliqua a Madara, il quale, ignaro delle sue origini, ricambiò arcuando il sopracciglio, passandosi la lingua là dove lo zucchero gli aveva reso appiccicaticcia la pelle.

"Ebbene, mio figlio ..."

Nonostante il tono melodrammatico usato dall'uomo, non sussisteva alcun dubbio sull’appartenenza di Madara alla famiglia Uchiha, neppure quando il funzionario dell’anagrafe, il Viro Morino, venne a Mokuton a spargere un po’ di vitalità urbanistica in quelle lande secolari. Tajima Uchiha, che pur non avendo mai frequentato la scuola (e chi lo aveva mai fatto, del resto, lì?), sapeva tuttavia fare i suoi conti e anche in maniera eccellente: il giorno in cui Kiyora si sgravò, contando a ritroso i mesi, ecco che giunse a quella piovosa notte di marzo in cui spulzellò la ragazza e lì, signori, v’erano più che valide prove sull’onestà di Kiyora, giunta invero illibata nel suo letto. Ma questo calcolo servì solo a confermare ciò che l’uomo sapeva ormai da tempo, visto che i suoi bravi dubbi li ebbe assai prima, diciamo quando Kiyora era al quarto mese, controversie risolte a suon di ceffoni da parte di una gestante non arrabbiata, no, furiosa. Infatti, ancora scottato dal tradimento di sua moglie, Tajima aveva osato avanzare qualche riserva sulla paternità del bambino, rese giustificabili dal ritardo col quale gli era stata riferita la notizia: insomma, se lei non aveva nulla di losco da nascondere, perché non comunicarglielo prima? A meno che …  Kiyora, già di suo stressata per l’impegnativo tentativo di tenere nascosta la gravidanza alla Sinjorina,  aveva ascoltato tutto in doveroso silenzio, chiazzandosi di macchie man mano che l’uomo giungeva alla fine del suo discorso. Dopodiché, sorridendogli a denti stretti, partì all’attacco.

“Buon pro le faccia, Majstro!” e via con uno Sciaff!, che avrebbe torto il collo ad un montone, ma non di certo la dura cervice di Tajima Uchiha, che, reggendosi la guancia offesa, esclamò incredulo:

“Che schiaffo!”

“Che schiaffo?! E allora, se le piace, si pigli pure questo! …”

Sciaff!

“ … e questo! …”

Sciaff!

“ … e ancora questo! …”

Sciaff!

“… e quest’altro! …”

Sciaff!

“Ma stai ferma, femmina isterica … ahia!”

Sciaff! Tonff! Sciaff!

Kiyora s’era denudata delle sue babbucce e, scambiando Tajima per un tamburo di latta, lo stava per l’appunto tambureggiando con queste bacchette improvvisate. “Femmina isterica a chi, razza di furbastro? Tu stai zitto e pigliatele in silenzio come un vero uomo!”

Sciaff! Tonff! Tonff! Sciaff! Tonf!

“E se non ne hai abbastanza, te ne do ancora!” e concluse con un virtuoso arpeggio di Sciaff! Tonff! Tonff! Sciaff! Sciaff! Tonff-sciaff! “Oh, Sua Eccellenza re dei babbei, ma per chi mi ha preso? Per una di quelle gran puttane che aprono le gambe a tutti? È questo quello che credi, Uchiha? Eh? Eh?”, sbraitò, contorcendo il viso in una sinistra smorfia, per poi scoppiare a piangere, sopraffatta dagli sbalzi d’umore. Sempre il solito refrain: la ragazza eruttava in crisi di rabbia a dir poco spaventevoli, per poi scemare in un letargo urside. Calmati, filina mia, calmati! O l'infano prederà il tuo caratteraccio lunatico!, le ripeteva saggiamente Najtine.  

“Via, via quelle lacrime!”, volle consolarla Tajima, cercando di abbracciarla, sennonché lei lo spinse via malamente, berciando:

“Ma lasciami stare, stultaj!”

“E smettila d’insultarmi, perdio!”

“Non ne avrei forse motivo? E’ quel che ti meriti, mizero!”, borbottò Kiyora, calmandosi un poco e lasciandosi massaggiare la schiena prima, abbracciare poi dall’uomo. “Cane! Assassino! Tu non vuoi riconoscere il mio bebo, altroché!”

“Non ho mai detto questo!”

“E allora, cosa sono tutte ‘ste coglionate su di chi è figlio, deliktulo?”

Tajima si morse il labbro inferiore: su questo punto, la ragazza non aveva tutti i torti. Nondimeno, pur essendosi scusato e riscusato e coperto il capo di ceneri, Kiyora non gliela perdonò tanto facilmente e di fatti, invece di vivere “nel peccato di concubinato”, gli riferì spietata che sarebbe rimasta con Najtine la Fata fino alla nascita della creatura – che è un Uchiha, non startelo neppure a domandare! – e fino al sedicesimo compleanno di lei, l’età consentita dalla legge per sposarsi, benché nelle campagne, e nei quartieri meno ambienti delle sempre più sovraffollate città, s’incominciasse a convivere ben prima, figli illegittimi inclusi.

"Ebbene, mio figlio Madara è nato  il 25 dicembre del 18 - ..., mentre Yakumi il ..."

"Eh no, qui ti sbagli!", lo interruppe sua moglie appena in tempo, cosicché il segretario non sbenedettò per la macchia apportata da un'eventuale correzione. "Madara non è nato il 25, bensì il 24 dicembre, Vigilia di Natale e San Delfino Vescovo, ultimo quarto di luna calante, 52esima settimana dell'anno, segno zodiacale Capricorno."

"Ma no, che dici?", ribatté l'altro, scuotendo il capo. "Se vi ho trovati durante la Messa di mezzanotte!"

Su quel punto, Kiyora gli concesse ragione, ma non per questo vacillò nella sua convinzione. "Esatto, ci hai reperiti, ad opera compiuta! Non mentre mi trattenevo dall'imprecare per essermi ritrovata a partorire su di un gelido pavimento di marmo, dietro una colonna, colla gente che mi fissava stralunata! Tu non c'eri, vigliacco, quando ho lasciato mezze budella davanti al Giudizio Universale!", e via che si ricominciava cogli sbalzi d'umore. Non che Kiyora possedesse la cattiva abitudine di tiranneggiare il marito, come forse si sarà pensato: semplicemente, quand'era incinta la sua natura sanguigna diveniva collerica ed ecco che diveniva insofferente ad ogni cosa, tranne dei suoi pargoli, Madara  e Yakumi.

Schiarendosi a disagio la gola, il funzionario Morino propose una soluzione alternativa, prima che la giovane donna, visibilmente contrariata, non prendesse la nefasta iniziativa di brandire una sedia e spaccarla in testa al consorte. Era preoccupato perché, nella concitazione della loro discussione, i due avevano incominciato a parlare in dialetto stretto e l’uomo, che sbiascicava affettato il nordico konohagakuriano perfetto, non stava capendo un emerito tubo. "Forse, Virina Uchiha, suo figlio Madara potrebbe risolvere questo piccolo mistero ...", affermò conciliante, allungandosi verso il bambino. "Vero, junulo? Ci aiuterai?", gli sorrise incoraggiante. Il moro, per quel che gliene concerneva, era assai più interessato alla suzione del suo zucchero. "Allora, Madara, quando sei nato? Il 24 o il 25 dicembre?"

Stettero tutti in un religioso silenzio, neanche attendessero il responso della Pizia di Delfi. E similmente alla profetessa, il bambino smise di succhiare, tolse la stecca dalla bocca, si leccò le labbra, prese un profondo respiro, chiuse gli occhi e pronunciò con ieratica solennità la sua risposta:

"Boh."

Fu il turno del funzionario Morino di arrabbiarsi e tanto, anche. "Mi volete fare impazzire, voialtri?", ululò così forte, che quelli in fila fuori dalla porta presero a pigiare sull'uscio per cogliere un frammento di quello che si preannunciava essere un gustoso alterco burocratico. "Soprattutto, tu, piccola canaglia! Che razza di risposta è Boh?! Sei così ignorante, disgraziato, da non sapere neppure quando sei nato?"

"Oh, ma neanche lei lo sa!", replicò imporporandosi Madara, piccato per quell'epiteto alle sue orecchie infame.  "E comunque, che vuole che ne sappia, io, della mia data di nascita?", strillò stizzito la sua protesta, con un'eloquenza invero straordinaria per la sua giovanissima età. "Mica sono come l'uomo di Platone, che nasce con le idee già in testa! Mi rende forse più saggio o intelligente essere nato il 25 anziché il 24? Ma mi faccia il piacere, lei è un bab- ..." e fu grazie alla pronta mano di Kiyora sulla sua bocca, che al moro venne impedito di offendere un funzionario pubblico, pregiudicandosi prima ancora di esercitare i suoi diritti. Per sua fortuna, il Viro Morino non aveva udito nulla, ancora sconcertato per aver sentito un moccoloso figlio di mezzadri che parlava dell’innatismo di Platone con la medesima chiarezza di un adulto.  A onor del vero, Madara stesso ignorava chi fossero Platone e la sua teoria sull’innatismo, avendo infatti assimilato e riutilizzato a suo piacimento queste informazioni estrapolate da una conversazione origliata per caso tra la Duchessa Anise  e un suo amico, conosciuto in villeggiatura, il giovane dottore Sasuke Sarutobi. A Madara quest’uomo piaceva, perché lo trattava d’adulto pur dandogli del tu e soprattutto perché, oltre a non avere mai argomenti banali da discutere con la Duchessa ergo era un piacere ascoltare i due conversare, il giovane medico gli regalava ad ogni visita libricini narranti di storielle certamente semplici, ma che il bambino divorava, interrogandolo poi su cosa aveva appreso e invitandolo ad esprimere la sua opinione. “Bene, il tema di oggi è questo”, invitava lui e Hashirama a sederglisi accanto. “Hashirama supporterà questo argomento, mentre Madara lo osteggerà. Vediamo, chi dei due riesce a persuadermi, vincendo.” I due marmocchi non se lo facevano di certo ripetere due volte, arrivando a sparare certe fantasiose teorie pur di convincere Sarutobi della bontà delle loro idee. La Duchessa, seduta a ricamare in un angolo, riprendeva giocosamente i tre, il giovanotto in particolare. “Ma Sasu-ehm, Monsieur le docteur! Che giochi sono mai questi? Lei ha a che fare con dei pupetti, che opinione vuole che abbiano?” Ma il kuracisto replicava testardo: “No, no, Madame! Non sottovaluti questi due monellacci: per la loro età possiedono una maturità di pensiero non comune, lo leggo dai loro occhi!” e alla fine dava il premio ad entrambi e la Duchessa sorrideva di nuovo, facendo sorridere per effetto domino anche il figlio. Inutile dire che anche ad Hashirama piaceva il dottor Sasuke Sarutobi, l’unico assieme al nonno che riuscisse a far ridere la sua Maman, la quale, dopo aver perso al sesto mese una bambina, per un periodo era divenuta più apatica di una statua di marmo. Adesso, incinta della terza creatura, era un sollievo rivederla così rilassata e gioviale con tutti.

Ma ritornando all’esterrefatto funzionario dell’anagrafe.

Balbettando, l'uomo proferì debolmente, asciugandosi la fronte col fazzoletto: "Insomma ... non ... non c'è nessuno che ... che sappia dirmi ... quando è nato questo demon-ehm, bambino?"

Kiyora, sistematasi meglio Yakumi sul fianco, gli disse paziente: "E' come le ho detto io: Madara è nato il 24 dicembre, cinque minuti prima dell'Adeste fideles ..."

E ora, se il tabarro la smettesse di ingarbugliarmi la vita con questi saliscendi temporali, vorrei cogliere l'occasione offertami dal sopracitato dilemma anagrafico per descrivere le circostanze della nascita del nonno.

 

E l’inverno vien tremando,

vien tremando alla tua porta.

Sai tu dirmi che ti porta?

“Un fastel d’aridi ciocchi,

un fringuello irrigidito;

e poi neve, neve a fiocchi,

e ghiaccioli grossi un dito.”

 

 

Due mesi e un giorno dopo la nascita di Hashirama Senju, giunse infine il turno di Madara Uchiha.  

Un inverno come quello in cui il nonno venne al mondo difficilmente sarebbe stato dimenticato: incominciò, infatti, a nevicare già alla prima domenica d’Avvento e non dopo Santa Lucia, com’erano abituati, ritrovandosi così in anticipo ricoperti di neve fino alle finestre del pianoterra, dannandosi l’anima a spazzarla via per poter almeno uscire di casa e non rimanervi seppelliti fino allo sgelo. Le strade, rese inagibili dalla neve, tagliarono fuori Mokuton dal resto della società civilizzata. Non si vedeva, poi, al di là del proprio naso tanto fitta cadeva la neve. Ad inverno terminato, i bollettini delle vecchie edizioni del Vespero sarebbero stati pieni zeppi di drammatiche cifre e melense descrizioni di tragiche morti per ipotermia, un patetico tentativo di commuovere coloro che invece se n’erano stati ben al calduccio, fregandosene degli altrui destini. In quel frangente, devo spezzare una lancia in favore del Duca Butsuma Senju il quale, non essendogli ancora passata la sbornia della recente paternità, in barba ai costi decise di donare legna e carbone gratuitamente a tutti i suoi mezzadri, un atto di generosità che impedì alle pompe funebri di far guadagni anche a Mokuton, distretto di Konohagakure, e al padrone di scoglionarsi per trovare nuovi lavoratori: causa l’inarrestabile industrializzazione di Hi, le campagne si stavano gradualmente spopolando e i contadini con meno prospettive preferivano cavarsela in qualche modo in città, piuttosto di lavorare come bestie da soma e aver lo stesso fame in campagna.

La mia bisnonna sopravvisse a quell’annus gelus  standosene rintanata in casa come un’orsa, tutta rannicchiata sotto il tabarro di Najtine, la quale la incoconava di zuppe di miso, di cavoli, barbabietole e rassolnik, di medhu (latte di mandorle caldo con miele e cannella), di spesse palachinke alla ricotta acidula e di qualsiasi cibo sostanzioso riuscisse a reperire, giacché Kiyora, dovendo nutrirsi per due, aveva costantemente fame e freddo. I regolari calci da parte di Madara la rassicuravano che il piccino non s’era nel frattempo assiderato, visto che lei più volte aveva perso la sensibilità delle mani e dei piedi pur standosene a momenti dentro il caminetto stesso. Per distrarla, allora, Najtine la spronava a parlare del più e del meno, evitando però la parola tabù, Tajima Uchiha.

“Ma sentilo come scalcia! Manco fossi un tamburo!”, rideva la gestante, tra un morso e l'altro di pane imburrato e salame.“Eh, la knabina è piuttosto irrequieta, sì sì …”

“Knabina? Pensi sia femmina?”

“Certo, così potrebbe farne la sua apprendista: vorrei tanto che da grande divenisse come lei …”

“Mi lusinghi. Piuttosto, come la chiameresti?”

“Ho pensato a Madaleine.”

“Come la prostituta pentita che divenne santa?”

“Jes … Neniu! … No, lei non commetterà gli stessi errori di sua madre, sarà una fanciulla onorata e si sposerà bene, ecco!”, sentenziò solenne, accollandosi ulteriormente dentro il tabarro.

Najtine annuì, seppur poco convinta.

La Vigilia di Natale colse tutti alla sprovvista: il paesaggio circostante bianco e ovattato, letteralmente congelato in un grigio limbo, aveva tolto alla popolazione di Mokuton la cognizione del tempo, limitandosi a trascinare le giornate nell’ozio e nel gelo, scrollandosi talvolta la noia con una sporadica visita ai vicini, giusto per scroccar loro qualche salsiccia affumicata e un bicchiere di enzian o di altri liquori casalinghi, nulla a che vedere con le fetenzie vendute in città, poiché a Mokuton non si rifiutava mai il cibo ad un ospite, anche a costo di privarsene. Ovviamente, si ricambiava, poi,  la visita!  Per questo si evitava di andare troppo spesso dai vicini più benestanti, coloro che potevano permettersi di offrirti del pane abbondantemente imburrato cosparso di zucchero e liquore all'anice per meglio gustarlo: il bon ton esigeva che dopo bisognava contraccambiare in egual misura, ergo ognuno faceva i suoi calcoli in base alla disponibilità della propria dispensa. Altrimenti, se proprio quella visita era irrinunciabile, si fingevano crampi atrocisissimi  allo stomaco e scagotti apocalittici, pur di non sembrare scortesi e rifiutare il cibo offerto.

Furono le campane vespertine delle sei che annunciarono l’inizio della veglia natalizia, culminante col rombo carillonesco di mezzanotte e da un’abbuffata di dolci accompagnata da cioccolata calda e vin brulé offerta dal padrone, ragion per cui i fedeli, richiamati da quel metallico gargarismo, si limitarono ad ingerire qualche panino di lardo addolcito dallo sciroppo, buttato giù con un po’ caffè corretto con grappa e via, imbacuccati come cosacchi, si accinsero a percorrere il faticosissimo tragitto da casa loro alla chiesa. L’aria, infatti, si presentava irrespirabile da quanto era pesante nel suo gelo, lasciando nelle gole un retrogusto ferroso, neanche si avesse ingoiato del freddo metallo. Il cielo plumbeo e vitreo che feriva gli occhi con la sua luce livida per fortuna era stato sostituito da un buio pesto, reso meno inchiostro dalle lanterne che i mezzadri si portavano seco,  costringendoli però ad ancorarsi sul più neutro e scricchiolante terreno, tamburellandovi i piedi infreddoliti e battendo in seguito le mani secondo il rito di auto-riscaldamento più antico del mondo. Siccome in chiesa faceva leggermente più caldo che fuori, i mantelli e scialli e tabarri rimasero ben ancorati sulle loro spalle e mai come a Natale le persone sopportano la reciproca vicinanza, pur di scaldarsi.

Kiyora giunse leggermente in ritardo, verso le sei e mezza, trascinandosi sfinita ed ansante lungo i muri alla volta di un angolino seminascosto: sebbene una ragazza incinta fuori dal matrimonio non fosse per i mezzadri una novità, nondimeno in chiesa loro riassumevano quella moralità che perdevano nei campi e gente scostumata come la mora non era, ai loro occhi, degna di comparire al cospetto di Nostro Signore. Kiyora arrivò in ritardo un po’ per questo motivo, non voleva imbattersi in Tajima, un po’ perché Najtine aveva cercato di trattenerla, non garbandole il colore grigiastro e sudaticcio del volto. “Non uscire”, le aveva detto. “Anche se non vuoi parlarmi, so che non stai bene. Resta a casa, è meglio!”

Ma la sua protetta fu irremovibile. “Sto bene, maljunula, ho voglia di camminare un poco. Eppoi, ho perso un mese di Messa, quella di Natale non la perdo manco a morire!”, s’era intestardita, afferrando il pesante scialle di lana e la lanterna, dirigendosi verso la chiesa. Camminando a passo spedito, si sentì d’un colpo meglio, come se ricominciasse a respirare, ignorando di conseguenza i segnali di un parto pressoché imminente. Il travaglio varia da donna a donna, c’è chi impiega meno tempo per sfornare il pargolo, chi di più; c’è chi prova dolore e chi meno; chi s’accorge d’essere nella fase clou e chi, come Kiyora, che non se ne accorge finché il pupo incomincia a scalpitare per uscire.

Complice anche un'infanzia trascorsa tra stenti e miserie, Kiyora aveva sviluppato crescendo un'alta sopportazione del dolore fisico, affrontando i dolori generati dalle contrazioni con stoica indifferenza. Notando che camminando scemavano, aveva trascorso la notte precedente e tutta la Vigilia di Natale a gironzolare per casa, inquieta e sofferente e ciononostante, per Dio solo sapeva quale arcano motivo, non volle mai confidarsi a Najtine, che certamente le avrebbe rivelato in quale fase si trovava. Sebbene stimasse molto la sua madre adottiva, la ragazza difficilmente s'affidava a lei o seguiva i suoi consigli, così come funziona appunto l'autentico rapporto madre-figlia. Najtine, non desiderando che Kiyora s'agitasse arrabbiandosi, decise di lasciarla fare: avrebbe raggiunto quella testona al momento opportuno.

Trovata infine una sua mea nascosta tra l'ultima colonna della navata centrale e il confessionale, la giovane vi si rintanò, respirando forte, domandandosi se non avesse camminato troppo di fretta. Aveva una tremenda sete, poi. E crampi non dissimili a quelli che vengono quando la natura chiama e il pitale risponde. Mezzora dopo, la ragazza avvertì il pressante impulso di accucciarsi. Una quindicina di minuti più tardi, di spingere.

Kiyora impallidì. "Mizera! Proprio adesso vuoi nascere?"

Sì, Madara voleva nascere proprio in quell'istante, per dimostrarle che tanto femmina non era e solo perché a Natale si è tutti più buoni, collaborò senza tante storie.

Sollevatasi le gonne e morsicando il velo da chiesa per non dare spettacolo, la partoriente allora si mise all'opera, invocando a mente la protezione della Madonna, di Santa Margherita d'Antiochia protettrice dei parti e ovviamente di Domine Iddio, sperando di non finire come Natsumi, morta in un lago di sangue e muchi azzurrini. E a proposito della morta, che ci faceva lì davanti a lei? Dapprincipio, la litania parve aiutarla poiché la distraeva tramite la sua ossessiva ripetitività; man mano che s'avvicinava al momento dell'espulsione, Kiyora s'imporporava fino a sbiancare dallo sforzo, sbuffando come un bue, ringhiando ingolata come un mastino e aggrappandosi a qualsiasi cosa, in particolare alla tenda viola del confessionale, che resisteva ai suoi strattoni per puro miracolo.  Non s'accorse neppure delle occhiatacce indiscrete lanciatele dai fedeli dell'ultima fila i quali, pur non avendo una buona visuale della scena, si permisero lo stesso di giudicare.

"Ma che sta facendo quella lì?"

"Crede di essere su di un'ottomana?"

"O peggio, su di un pitale?"

"Cosa? Non ditemi che sta cagando in chiesa!"

"Barbara! Blasfema!"

"Gente come lei una volta la mettevano al rogo!"

Ed ecco che tra questo gracidare di rospi, s'elevò la voce della verità, incarnata in una bimbetta di pressappoco sei-sette anni: "Sta avendo un infano!", esclamazione ben presto seguita da un coro di increduli: "Eh?", terminato da sconcertati: "Oddio!" quando, facendo uno strappo al suo codice morale, Najtine entrò nel sacro edificio e, scivolando nell'ombra col suo tabarro, raggiunse una pallidissima Kiyora, afferrandola per le ascelle per rimetterla nella posizione più consona. "Non potevi avvertirmi prima, disgraziata?", borbottò la fata rancorosa a Natsumi, che scrollò con indifferenza le spalle, posizionandosi sull'acquasantiera di marmo. Poco dopo una contadina, molto probabilmente la madre della savia bambina, si risolse ad abbandonare il banco assieme alla figlia, raggiungendo le due donne.

"Santa vergine martire d'Antiochia!", mormorò ella, segnandosi velocemente. "Questo ci sta per nascere in chiesa!", boccheggiò, legandosi lo scialle ai fianchi e arrotolandosi le maniche. Sperò di non venir tacciata di blasfemia quando, per amor dell'igiene, si ripulì le mani nell'acqua benedetta, passando attraverso il grembo di Natsumi, che aprì la bocca in un muto gridolino, indignata.

"Knabina!", si rivolse Najtine alla piccina, che si mise quasi sull'attenti, eccitatissima da quello spettacolo ai suoi occhi divertentissimo. "Vieni qui. Premi su questo punto. Brava. Premi finché non te lo dico io!"

In sincronia perfetta, le tre gentlewomen of fortune si adoperarono per far nascere il bambino, mentre dalle ultime file la gente aveva finito da un pezzo di borbottare preghiere, girandosi invece verso quel curioso quartetto femminile, commentando tra di loro la peculiarità di quell'evento; di donne partorienti nei luoghi più disparati ne avevano viste a bizzeffe, ma mai, mai nella casa del Signore ... Che fosse un cattivo presagio? Che preannunciasse l'Apocalisse? La venuta dell'anticristo? E via discorrendo, avanzando verso la penultima fila e la terzultima, chetando il brusio di litanie e invocazioni per un più mondano cicaleggio e un poco decoroso voltare le spalle dall'abside centrale.

Né anticristo, né tantomeno messaggero dell'Apocalisse, Madara era solamente uno di quei pochi che non mentiva quando affermava di aver visto satana coi propri occhi. Lo vide affrescato sulla parete della chiesa di Santa Lucia, a testa ingiù, tutto sporco di sangue e muchi azzurrini e tenuto per ambedue le caviglie dalla brava donna che lo aveva aiutato a venire al mondo. Vuoi per l'impellente necessità di respirare, vuoi per il dolore alle chiappe provocato dal sonoro ceffone elargitogli dalle ruvide mani della contadina, vuoi per il terrore provocatogli da quel panzone d'un limbidinoso sileno, ecco che il neonato strillò peggio d'un invasato tutta la sua perplessità di critico d'arte su quel modo assolutamente grandguignolesco di rappresentare l'inferno e il suo padrone. E da quel momento in poi, a livello d'inconscio, Madara avrebbe sempre avuto una paura matta di quella bolgia metafisica, trasmettendola ai suoi discendenti, tra cui il sottoscritto.

"Oh, ma che bel maschietto!", cinguettò la bambina, mentre Najtine, estratto un coltellino dal tabarro, lo separava definitivamente dalla madre. La sua Ponja, invece, lo ripuliva alla bell'e meglio dall'unguento azzurrino che lo ricopriva.

"Che?!", esclamò debolmente Kiyora il suo disappunto, per poi abbandonarsi sul petto della fata, svenendo per la fatica sopportata. Natsumi, ancora seduta sull'acquasantiera, si mordicchiava divertita il pollice. 

Cinque minuti dopo, senza che nessuno si fosse minimamente turbato di verificare di persona come stesse la puerpera, le campane di mezzanotte scossero la terra, l'organo rombò e il coro partì in quarta con un sconquassante:

 

Adeste fideles laeti triumphantes

venite, venite in Bethlehem.

Natum videte Regem angelorum.

Venite adoremus, venite adoremus, venite adoremus,

Dominum.

 

... interrotto di tanto in tanto dai Mué! Mué! dei neonati lì presenti che nel frattanto stavano schiacciando un pisolino. Il resto della funzione Madara lo trascorse in canonica, portato in braccio dalla stessa bambina che aveva premuto sulla parte superiore del ventre materno per aiutarlo ad evacuare la zona. Suo padre Tajima, invece, trasportava una semicosciente Kiyora in sacrestia: li aveva trovati grazie ai continui bisbigli dei banchi dietro di lui. A concludere l'allegro corteo, seguivano Najtine e la contadina.

"Che ha? S'è sentita male?", aveva sgranato gli occhi la perpetua vedendoseli comparire davanti e accarezzando di riflesso il capo sudaticcio della ragazza.

"Peggio: ha partorito!", replicò spassionatamente Najtine. "E mi sa che lei dovrà gettare un po' di segatura tra l'ultima colonna e il confessionale ..."

Trattenendosi dal sacramentare come il peggiore dei miscredenti, la perpetua li condusse in canonica, dove si premurò che madre e figlio fossero ben lavati. Fu la prima ad accorgersi che il neonato ancora non possedeva un nome e quando lo comunicò alla puerpera, che nel frattempo aveva ripreso il pieno possesso delle sue facoltà cognitive, ecco imporsi un imbarazzante silenzio. "A dire il vero", ammise Kiyora, torcendosi le dita, "non ho un nome maschile per il pupo, in quanto ero così sicura che nascesse femmina ..."

"Puoi sempre chiamarlo Madara, che un po' assomiglia a Madaleine", le suggerì Najtine.

"Che nome strano!"

"Mai sentito!"

"Non sarà leggermente ambiguo?"

Kiyora ignorò bellamente questi commenti, allungando invece le braccia per ricevere dalla perpetua il suo bambino, che già s'agitava inquieto, non essendo le fasce che lo ricoprivano sufficientemente calde. Gorgogliò di puro piacere al tocco materno, in particolare quando Kiyora lo strinse al petto, riscaldandolo e offrendogli una vista molto, molto allettante per i suoi occhi di poppante. Come sempre, però, bisognava attendere che gli adulti terminassero i loro insulsi discorsi. Quanta pazienza!, aveva dovuto pensare Madara in quell'istante, cacciandosi tre dita nella bocca sdentata. E che fregatura: prima vedo il diavolo, poi mi sculacciano a testa ingiù e adesso mi fanno venire i geloni al deretano. Forse, avrei fatto meglio a ritardare ancora di qualche giorno ...

 "E chi se ne cale, se il suo è un nome strano, inusuale o ambiguo. Meglio! Così non passerà inosservato e coloro che incontrerà si ricorderanno di lui. Vero, malgrando trezoro?", esclamò entusiasta la ragazza per quella soluzione. Se lo dici tu, Ponja, significò quell'infilarsi un quarto dito in bocca da parte del bébé.

"Secondo me, un giorno ti maledirà per questo nome bislacco!"

"Che ci provi, lo ammazzo di botte!"

"Kiyora!"

"Scherzavo, dai! Non alzerei mai un solo dito contro di lui!"

Silenzio.

"Allora, che dire? Benvenuto a questo mondo, Madara Uchiha!"

"Eh no, signor scaltro!", interruppe la puerpera l'amante. "Madara e basta, finché tu non mi sposi!"

Senza scomporsi, Tajima replicò: "Quando compi sedici anni?"

"Ad aprile."

"Bene, ci sposeremo ad aprile" e solo Domine Iddio sapeva quanto mai vicino alla morte fosse stato l'uomo come in quel momento e la sua fortuna consistette nel fatto che, oltre ad avere il neonato tra le braccia, la presenza di troppi testimoni aveva inibito ogni istinto omicida di Kiyora, che si limitò a ribattere:

"Perfekto: dunque, rivedrai tuo figlio ad aprile!"

"Cosa?! Ma sei pazza o che?!"

Mi fischiano le orecchie, ho come l'impressione che stiano parlando di me ... Oh! E tu che vuoi, mocciosa? Mettimi giù, non sono una bambola, aiuto!

Ma né suo padre né sua madre si resero conto di come la bambina avesse sfilato Madara dall'abbraccio di Kiyora, per poterselo portare fino alla sedia accanto alla stufa, cullandolo con eccessivo vigore, sguarattandogli di conseguenza le budella. "Quanto sei bello, che occhi vispi che hai!", lo vezzeggiava.

Accortasi dell'innocuo furto, Najtine le requisì la refurtiva, coprendola con un lembo del tabarro. "Sh, calmati!", sussurrò all'infante, che scalciava esagitato da sotto la copertina, mulinando perfino le braccia in una strana danza. "Raffredda quel tuo cuore di fuoco, o ti uscirà dalla gola!" Solo allora il bébé osò rilassarsi un poco, appisolandosi, fedele al detto: "Chi dorme, mangia."

E ben fece, giacché non vide il volto cinereo di Natsumi Uchiha pendere sopra di lui come un avvoltoio, pigliandosi conseguentemente l'ennesimo spavento. Un seicentesco demonio affrescato gli bastava, grazie tante.

Riassumendo - i fatti da narrare sono molti, ergo non ci possiamo troppo soffermare - due verità Madara apprese il giorno in cui il funzionario Morino, venuto dalla capitale con le sue scartoffie e cinque impiegati, s'incaricò di scrivere nero su bianco una biografia essenziale sulla sua famiglia: la prima, che lui era effettivamente nato il 24 dicembre 18 -  a cinque minuti dall'Adeste fideles, dunque nel giorno della Vigilia di Natale e San Delfino vescovo, ultimo quarto di luna calante, 52esima settimana dell'anno, segno zodiacale Capricorno. La seconda, che non era affatto fotogenico: la foto scattatagli dall'impiegato del Viro Morino lo avrebbe perseguitato fino alla vecchiaia..

Ah, il tabarro preme per una postilla e, ascoltandola, la giudico importante, perciò ve la riporto: la mattina del 1 gennaio dell'anno successivo, una volta ritornata la calma in seguito ai festeggiamenti della notte di San Silvestro, Hashirama Senju si ritrovò senza balia. A quanto pareva, il compagno/marito/amante/quel-che-era di lei s'era divertito ad ammazzarla e a gettarla in un ramo del fiume Naka, il quale, non volendosi rendere complice di tale misfatto, pensò bene di gelarsi, preservando il corpo per i gendarmi. Il movente? Lei s'era stufata di lui, della sua natura grezza e manesca e del suo vizio dell'alcol. Inoltre, la nutrice non aveva neppure ventun anni, lasciava al mondo un bambino, il cui nome adesso non rivelo, ma che avrebbe determinato in maniera pressoché mortifera la sorte del suo fratello di latte. Io lo so per certo: ho conosciuto quest'uomo. In ogni modo, le indagini si conclusero rapidamente, tanto a Mokuton avevano sempre sospettato che si trattasse del compagno e di chi altro, sennò? Una giovane donna così perbene, a modo ... chi poteva ammazzarla se non quello scellerato? Eppoi, era uno straniero, di Takigakure, ragion per cui lui si presentava doppiamente sospetto, noi di Hi non commettiamo queste porcherie, ma uno straniero sì, specie uno straniero proveniente da quella spelonca di ladri e strozzini com'è Takigakure! Arrestarono il Fremda - un nome bisogna pur darglielo - una settimana dopo la scoperta del cadavere. Due settimane dopo, pendeva dalla forca eretta apposta sulla piazza del mercato di Mokuton, mai così gremita di gente come in quell'occasione: simili a scarafaggi sbucati dal nulla, non solo i fittavoli, ma anche i vicini dei paesi e città confinanti presenziarono all'evento; l'ultima impiccagione aveva avuto luogo quando il figlio di Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro, Butsuma Senju, non dimostrava neppure quindici anni. All'esecuzione assistettero tutti, tranne Najtine e Kiyora e la Duchessa Anise per ovvie ragioni le ultime due (i pargoli) e la prima perché giudicava barbarica l'intera messinscena, coi contadini che ridevano, gridavano, sputavano e ingiuriavano il già malmenato condannato, prendendolo a sassate mentre rimaneva sospeso nel vuoto, arrivando perfino a percuoterlo col bastone e a tirargli le gambe da sotto la forca, acciocché il collo si spezzasse, come facevano loro con le proprie galline, oche, anatre e un qualsiasi volatile da cortile. Alla fine dell'esecuzione, si discusse se lasciare o meno il morto a dondolare sulla piazza, mentre i corvi banchettavano ingordi sui suoi occhi e viscere. Il Duca fu irremovibile: "Non siamo più nel Medioevo", affermò vivacemente, accondiscendendo però, dietro lauto compenso, a cedere il cadavere alle aule universitarie di medicina a Konohagakure per le dissezioni accademiche.

"Che triste, che triste!", aveva sospirato Najtine il giorno dell'impiccagione del Fremda. "Suggere il latte di un'assassinata. Povero bimbo; che triste presagio!"

Sbuffando scettica, Kiyora obiettò: "Ma che presagio e presagio! Hanno fatto fuori la sua balia e allora? Mica volevano accoppare lui! Non conferirgli tutta questa importanza!"

La fata non s'alterò davanti a questo scetticismo, anzi, seguitò a fissare stancamente la neve che aveva iniziato ad ammantare il paesaggio fuori dalla finestra, ovattandolo in un gelido limbo. "Tu ridi di questo presagio. Tuo figlio piangerà a causa sua!" e non terminò neanche la frase, che Kiyora aveva stretto protettivamente Madara al seno, aggrottando bellicosa la fronte.

 "Balle! Tutte balle senili! Non giochi alla savia sibilla, alla lunga è stupido e snervante!", berciò ella, terrorizzata all'idea che qualcosa di orribile potesse accadere al suo prezioso frugoletto.

"Dici?", ribatté serafica la madre adottiva.

"Dico!", sibilò velenosa la figlia. "Eppoi, non vedo come accidenti s'incastri il figlio del padrone col mio ..."

Oh, quanto si sbagliava! Le loro vite si sarebbero incastrate, oh sì, se si sarebbero incastrate: in un puzzle perfetto, talora sublime e puro, talvolta perverso e diabolico, sì, si dovevano incastrare l'un l'altra per formare un unico destino, la storia che vi racconto.

Destino che non tardò a bussare alla porta di Najtine la Fata, tre giorni dopo questa conversazione. Si preannunciò tramite lo scampanellio di una slitta, rompendo il silenzio domestico caratterizzato dallo scoppiettio della legna bruciante, dalla rauca risata dell'arcolaio e da ruttini soddisfatti.

Andò la fata ad aprire la porta. "Oh, è lei!", esclamò imperturbabile.

"Mi aspettava, Najtine?"

Riconoscendo quella voce, la giovane madre si voltò di scatto, sbattendo incredula le palpebre.

"Tutti in questa casa la stavano attendendo. Prego, entri, Maljunulo Sinjoro!", fece accomodare Najtine l'ospite, il quale portò con sé parte della neve sulla piccola entrata, che cadde già bagnata sul pavimento, creando una piccola pozza melmosa.

"Spero di non disturbare."

"Lei non disturba mai, Sinjoro, forse nelle case dei suoi mezzadri, ma non in questa."

L'anziano Senju annuì, sorridendo a fior di labbra, enigmatico, lo sguardo indagatore già puntato con la precisione di un segugio su Kiyora. Ti ricordi, vero, delle mie parole?, le dissero quelle iridi cioccolata. Quasi cinque mesi fa: “Tornerai in questa casa e sarà per mia nuora.”

Sì, la mora se ne sovveniva fin troppo bene. E anche mettendo caso che se ne fosse scordata, il triangolo visivo del vecchio Duca - la figura nell'insieme della giovane, il suo seno e Madara che dormicchiava ignaro e beato nella sua culla improvvisata - spiegarono assai chiaramente lo scopo di quell'inaspettata visita. Senza voltarsi, inconsciamente, portò la copertina al mento del bambino, quasi volesse nasconderlo da quell'intenso studio.

"Bambina mia", le parlò infine l'uomo a quattr'occhi una volta onorati i convenevoli dell'ospitalità. La fata, dal canto suo, osservava la scena in disparte, riprendendo il suo lavoro all'arcolaio. "Sii sincera: nutri abbastanza il tuo piccino?"

"Jes, Maljunulo Sinjoro. Il mio bebo gode di un eccellente appetito, eppure non mi ..." e si vergognò un poco di dire "svuota" al padrone, ritenendolo leggermente volgare per le sue raffinate orecchie.

"Capisco", convenne meditabondo l'anziano Senju, battendo la punta del bastone sul pavimento. "E dimmi, te la sentiresti di allattarne un altro? Sarai ben remunerata, ovviamente."

Un tuffo al cuore. "Un altro?"

"Sì, bambina mia. Un altro ..."

Silenzio. Torcersi incerto di dita. Masticazione nervosa del labbro inferiore.

"... Mio nipote Hashirama."

Madara che si svegliava, si stiracchiava, sbadigliava e riprendeva a dormire, il pollice umido rificcato in bocca.

"Allora, mia cara, accetti?"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

To  be continued ...



  
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