“Knock-out”
di
Lilly81
Era
difficile capire se fossero gli effetti collaterali del pugilato o se fosse
nato proprio così.
Aveva
un’andatura caracollante e scuoteva le spalle anche quando, sceso dal ring,
calpestava l’asfalto sudicio dei sobborghi di Philadelphia e vivacchiava
riscuotendo denaro per conto di Mr. Gasco, senza mai
trovare il coraggio di spezzare i pollici ai debitori insolventi, perché, pur
non essendo di spiccata intelligenza, arrivava a capire da solo che un dito
rotto non avrebbe permesso ad uno scaricatore di porto
di restituire il debito in tempo.
Che
percorresse i ciottoli rossi di N. Garney Street o la
strada che dalla palestra del vecchio Mickey conduceva a casa sua, era solito tirare dalla tasca una pallina di gomma e farla
rimbalzare a terra, tra le pozze impantanate e i rifiuti a margine di strada.
Sembrava
che non fosse in grado di starsene con le mani nelle tasche e che questo fosse
un modo come un altro per scaricare la tensione inesauribile dei muscoli.
Un
combattimento ogni due settimane al “Cambria Fight Club” aveva trasformato il contorno
degli occhi in un perenne alone nerastro e generato un bozzolo pulsante al di
sopra della tempia che neppure il ghiaccio riusciva più a sfiammare.
Quaranta
dollari e cinquantacinque centesimi per ritrovarsi il corpo massacrato di
botte, sempre ammesso che il gong ne decretasse la vittoria: tanto valeva lo Stallone Italiano, al peso di centonovanta
libbre, all’epoca dei fatti, nel novembre del 1975.
Più
dei bicipiti, se c’era una parte di quel corpo di cui andava fiero, pur non
avendo fatto nulla per potenziarlo, era il suo naso: dopo sessantaquattro
incontri se ne stava lì diritto, affetto da raffreddore cronico, ma pur sempre
diritto.
Una
vera rarità per un pugile.
Nessun
gancio era riuscito a romperglielo e neppure le umiliazioni, la solitudine, il
disadattamento contro cui andava a sbattere ogni
giorno glielo avevano storto.
Tirava
su col naso e andava avanti, e se qualche volta indugiava, lo faceva soltanto
davanti alle vetrine di “J & M Tropical Fish”.
Fischiettava
agli animaletti in gabbia e poi entrava con quella sua aria fintamente
spavalda, col cappello nero calcato sulla fronte e il bozzolo pulsante nascosto
dalla falda.
“Freddo boia, eh? Una notte da polmonite, eh?”, si strofinò le
mani pure quella sera.
Dietro
la gabbia degli uccelli, la giovane commessa non gli rispose.
Pure
lei sembrava prigioniera di qualcosa.
Silenziosa,
pallida, timidissima: solo quell’uomo pareva averci trovato qualcosa di interessante.
Forse,
era proprio quella semplicità e quel riserbo, il disagio con cui le sue mani
piccole e sottili armeggiavano intorno alla gabbiola degli uccellini a
lasciarlo disarmato ogni volta che la vedeva.
C’era
qualcosa di struggente, di delicato e tenero che si
animava dentro di lui, sotto il giaccone di pelle nera, e andava a realizzare
un insolito chiaroscuro contro il suo corpo energico e vigoroso.
Due
tartarughe ed un pesce rosso da sfamare erano
diventate, da un po’ di tempo, la scusa per passare al negozio ogni mattina ed
ogni sera.
“Hai
bisogno di essere accompagnata a casa? No, eh? Fa freddo…”, tirò
su col naso. “Se fossi in te prenderei un taxi.
Dammi retta, c’è un sacco di brutta gente in giro…”.
Lei
non rispose, continuando con le sue mani sottili e intimidite a pulire la
gabbia dei pennuti.
Da
dietro le severe lenti a forma di farfalla non provò
neppure ad alzare gli occhi; non fece un movimento del capo, né compose un
monosillabo nel momento in cui ricevette l’invito ad assistere quella sera
stessa ad una partita di basket presso lo Spectrum Stadium.
Prima
di battere in ritirata, come tutte le altre volte, l’uomo ebbe bisogno di
scrollarsi da dosso la pesante sensazione che ella
parlasse un’altra lingua e lo fece attingendo alla sua verve più simpatica e
buffona, giusto per rimediare la parvenza di un sorriso.
La
verità era che non gli riusciva neppure di farla ridere, non certo con quelle
pessime battute risalenti alle scuole elementari che solo lui capiva.
“Allora,
io adesso vado a casa, mi invento una barzelletta. Domani
ti racconto una barzelletta nuova nuova…
fresca, ok? Buonanotte, Adriana”.
“Buonanotte,
Rocky”. Persino il pigolio di un canarino sarebbe stato più convincente.
***
Paulie
era il migliore, se non unico, amico di Rocky ed era stato assai sincero quando
nel cesso maleodorante del “Lucky Seven Tavern”, quella sera stessa, tra un’imprecazione e l’altra contro chi
avesse rotto lo specchio sul lavabo, gli aveva detto:
“Puoi
avere di meglio. Adriana è un’imbecille, Adriana è un relitto, c’ha quasi trent’anni suonati e se fa così finisce che si
ritrova sola come un cane!”.
“No,
io non lascio perdere un bel niente!”.
Rocky
davvero non riusciva a capire perché lei non gli rivolgesse parola e si
limitasse a guardarlo e basta. Era vero che l’ultima volta si era presentato al
negozio con un sopracciglio suturato, ma riteneva, tutto
sommato, di avere una faccia più che decente.
“Lo
ammazzo se trovo chi ha rotto questo specchio!”.
Paulie,
che aveva un pessimo carattere e beveva un tantino troppo, non si era ancora
scolato la razione della sera quando aveva proposto all’altro di passare la
cena del Ringraziamento a casa sua l’indomani, in modo da poter parlare con sua
sorella Adriana.
Rocky
non se lo era fatto ripetere due volte, non fosse altro che non mangiava un
tacchino da almeno due anni, da quando lo aveva trovato in promozione a due
dollari da Horn & Hardart’s.
Si
era sentito più sicuro di sé quando Mr. Gasco, il
giorno dopo, gli aveva messo in mano cinquanta dollari per uscire con Adriana.
Non sapeva come, ma la voce di un presunto appuntamento con la sorella di Paulie si era già diffusa nel quartiere.
Persino
l’autista di Mr. Gasco, seduto al volante, a debita
distanza, non aveva perso l’occasione di deriderlo:
“Dicono
che sia ritardata”.
Buddy
era un pallone gonfiato che si faceva forte della presenza del boss, ma un
giorno o l’altro, pensò Rocky, non ci avrebbe messo molto a spaccargli quel
grugno.
“Non
è ritardata, è timidezza”. E la timidezza per lui non pareva essere una
malattia, né un problema. Anzi, forse gli piaceva proprio per questo e lo
eccitava di più il pensiero di scoprire tutto di lei poco alla volta.
Non
c’è sfizio a ricevere un regalo se non c’è l’involucro da scartocciare.
Ma
di Paulie non c’era da fidarsi e quando la sera insieme
a lui varcò la soglia di casa, Rocky non ebbe nemmeno
il tempo di togliersi il cappello per accorgersi che solo la diretta
interessata era rimasta all’oscuro di tutto.
Adriana
comparve dalla cucina con addosso un grembiule blu e
la frangetta raccolta da una forcina, e senza neppure rispondere al suo saluto
si dileguò da dove era venuta.
“Perché
non me lo hai detto che lo portavi qui? Guarda che faccia, non ero preparata!”.
“E
che cambiava se lo eri?”, li sentì confabulare in cucina. “E’ un mio amico e
vuole uscire con te”.
“No!
Non ci esco!”.
Adriana
pensò che entrambi si stessero prendendo gioco di lei. Era già da un po’ di
tempo che quel tizio si presentava mattina e sera al negozio e la fissava come
mai nessun altro aveva fatto.
Rocky
Balboa, che era ritornato a rimettersi il cappello e si era seduto sul divano,
non senza un certo imbarazzo, la vide scappare verso la sua stanza, intanto che
la televisione borbottava qualcosa circa la decisione di Apollo Creed, imbattuto campione mondiale dei pesi massimi, di
dare la possibilità ad un pugile sconosciuto di
vincere il titolo il primo gennaio venturo.
“Oh,
tu stasera esci e pure al galoppo! Va bene? Mi sono stufato di vederti tappata
qui dentro come una talpa! Esci, vivi, goditi la vita!”, se l’andò
a riprendere Paulie. “Non fare la stupida! Mi stai
diventando una mummia!”.
“Ma è il giorno del Ringraziamento, c’è il tacchino nel
forno”.
Aveva
trascorso un intero pomeriggio a bagnarlo con il succo di limone, a salarlo, a
peparlo, ad imbottirlo con i rametti di rosmarino, e
fu assai mortificante vederlo letteralmente volare fuori dalla finestra della
cucina.
“Vuoi
il tacchino? Esci e vattelo a mangiare!”.
Alla
povera Adriana non restò altro che andare a nascondere le lacrime dietro la
porta della sua stanza per la seconda volta, chiedendosi se non fosse tutto un
incubo o… un sogno, tutto sommato, nel quale valeva la
pena trattenersi.
Prima
di allora mai nessuno le aveva chiesto di uscire. In verità, neppure Rocky lo
aveva fatto esplicitamente, ma pareva che ci fosse una sorta di tacito accordo
con suo fratello.
Eppure,
non aveva fatto nulla per attirare l’attenzione di quel giovane: gli aveva
soltanto venduto due tartarughe ed un pesce rosso.
Tutto qui. Aveva sempre pensato di essere insignificante, di avere la stessa
consistenza di un fantasma, la parvenza di una nullità, come le rinfacciava suo
fratello, ed invece arrivava lui, alto, aitante,
affascinante, l’esatto contrario di lei, e la guardava come se fosse stata la
donna più bella che avesse mai visto in vita sua. Era chiaro che avesse preso
troppi pugni in testa e che il pugilato avesse incominciato, piano piano, ad arrecare dei seri disturbi al cervello.
Più
di una volta aveva sentito dire che fosse uno sport pericoloso ed estremo.
Teneva
ancora la testa poggiata contro l’uscio chiuso, quando avvertì
un esitante toc toc proprio dietro le sue spalle
singhiozzanti:
“Oh,
Adriana, sono io… Rocky. Hai presente? Non so che dire perché
non ho mai parlato con una porta…”.
Sentiva
le sue dita accarezzare il legno, i suoi passi muoversi avanti ed indietro con indecisione, suo fratello che lo
incoraggiava a proseguire mangiando la coscia di tacchino che gli era rimasta
tra le mani, e alla fine, quasi fosse stato un atto dovuto, l’accettazione di
un sacrificio, slacciò il grembiule, afferrò il cappotto che aveva lasciato sul
letto e indossò il berretto di lana senza neppure guardarsi allo specchio.
Non
avrebbe mai saputo dire quale forza misteriosa le avesse fatto aprire quella
porta, ma lo fece, e quando si apre una porta c’è
sempre la possibilità che la propria vita dopo non sia più la stessa.
“Allora
è deciso?”, esclamò Rocky, risollevato.
Lei
avanzò senza dire nulla, col passo evanescente di una sonnambula; apparentemente
fredda e distaccata, andò incontro alla sorte con la schiena diritta e il
grembiule ancora tra le mani e, se indugiò un istante davanti allo specchio, fu
solo per sistemarsi le terribili lenti.
Adriana
Pennino era una di quelle ragazze a cui non piaceva
guardarsi allo specchio.
“Guarda
che io il tacchino mica lo volevo!”, gli disse Rocky
sull’uscio.
“Ma è il giorno del Ringraziamento”.
“Che
è?”, tirò su col naso.
“Il
giorno del Ringraziamento”.
“Per
te, forse, per me è soltanto giovedì…”.
***
Non
era certo che sarebbero stati sufficienti i cinquanta dollari ricevuti da Mr. Gasco quel mattino, perché il tizio intento a pulire la
pista di pattinaggio desolata aveva preteso dieci dollari per lasciarli
pattinare liberi, ma soltanto per dieci minuti perché la struttura era chiusa
al pubblico quella sera.
Tuttavia,
Rocky sarebbe stato disposto a cacciare pure un capitale per l’occasione e,
stando a quanto gli aveva suggerito Paulie sulla
soglia di casa, ad Adriana piaceva pattinare.
In
verità, la ragazza arrancava sul ghiaccio e strisciava le lame peggio di una
principiante, ma a Rocky pareva stesse volteggiando come una libellula e si
permise persino di esclamare:
“Come
pattini bene!”.
Lui
cercava di stare al suo passo senza pattini, poiché, come aveva incominciato a
raccontarle, non pattinava da quando aveva quindici anni ed
aveva incominciato a dedicarsi al pugilato.
Rocky
era assai logorroico, di una gestualità eccitata, ma i
suoi ragionamenti ruotavano tutti intorno ai combattimenti, ai muscoli e ai
cazzotti. Non avrebbe saputo parlarle di altro, ma lo faceva con passione.
Adriana
apprese che era un mancino, più precisamente un sud-ovest, come si diceva in gergo, e che con un mancino quasi
nessuno voleva combattere perché si sarebbe trovato fuori misura.
“Nove
minuti!”, scandiva il tempo l’addetto alle pulizie con
precisione cronometrica.
Accadde
che uno strano brivido si infilasse sotto il maglione
di lana e gli attraversasse la schiena nel momento in cui la ragazza si
aggrappò alla sua spalla per non cadere.
Fu
il primo contatto e quella sensazione lo lasciò spiazzato più di qualsiasi
altro gancio destro.
“Sette
minuti!”.
Quando
le raccontò che era stato suo padre ad indirizzarlo al
pugilato perché non era particolarmente intelligente, la sentì ridere per la
prima volta e gli piacque quel sorriso:
“Mia
madre diceva sempre il contrario: tu non hai un gran corpo, cerca di fare un
mestiere dove puoi usare il cervello!”.
“Cinque
minuti!”.
Era
irritante sentire scandire il tempo neanche fosse stato su di un ring. I
secondi passavano velocemente e lui aveva la sensazione che non sarebbe bastata
una vita intera per conoscerla bene.
Quasi
temeva che ella potesse dissolversi da un momento
all’altro, come un fiocco di neve, allo scadere dei minuti.
“Ehi, voi!
Tempo!”, urlò infine l’inserviente.
“Posso
farti una domanda?”, gli chiese Adriana avviandosi all’uscita.
Rocky
avrebbe risposto a qualsiasi cosa pur di vederla interessata.
“Perché
hai deciso di fare il pugile?”.
“Perché
non ballo e non canto”.
L’aria
che tornò ad investirli era fredda e l’umidità sapeva
di tacchino e di castagne.
Già
percorrevano Tusculum Street
quando Rocky disse:
“Certe
persone sono molto timide per natura. Ed io dico che tu sei
molto timida per natura”.
“Può
essere”, ammise lei.
“Lo
sai?”, continuò a tenere la sigaretta incollata alla bocca. “Certe persone pensano
che essere timidi è una malattia, ma a me non mi dà
nessun fastidio”.
“Neanche
a me”, rispose Adriana, senza essere certa che fosse davvero così. Tuttavia,
apprezzava che lui lo avesse detto.
C’era
qualcosa di estremamente gentile in lui e camminando al
suo fianco, lungo il marciapiede desolato, provò una sensazione di sicurezza
che mai le era appartenuta.
Pure
l’ombra sbucata d’improvviso dal buio non le fece paura.
Rocky
abitava in un piccolo appartamento al numero 1818 di Tusculum
Street e lì, sulle scale che conducevano all’ingresso
dello stabile a due piani, fermò il suo passo, mentre proseguiva a raccontarle
la sua vita da pugile e il dolore che il suo corpo sperimentava al mattino dopo
ogni combattimento.
Quando
lei pensò che la serata fosse prossima a concludersi,
la domanda che non avrebbe mai voluto sentire piombò in mezzo a loro, gelida
come il vento che attraversava la stoffa del cappotto, spezzando l’incantesimo
e riportandola al punto di partenza.
“Senti,
vuoi venire dentro?”.
“No,
devo andare”, abbassò il capo.
“Ehi,
andiamo, dai! C’ho le bestioline, degli animali rari
dentro, sai? Coraggio! E dai!”
“No,
devo andare”.
“E devo andare pure io! Devo andare al gabinetto!”, fece rozzamente,
un po’ spazientito.
Lei
non sapeva più come farglielo capire.
“Senti,
guarda che faccia… è una faccia che ci si può fidare,
no? Si o no? Questa potrebbero
metterla anche su un francobollo! Andiamo, vieni dentro!”.
E
alla fine lei salì quei gradini con le mani incrociate dietro la schiena, quasi
fosse stata messa in catene e procedesse verso il patibolo. Ancora una volta,
una forza misteriosa spinse il suo corpo contro ogni volontà.
Il
calore della stanza ebbe lo stesso impatto corroborante di una minestra calda,
ma era piccola, in disordine, con i mobili vecchi e il frigorifero pieno di
ruggine.
Un
vecchio materasso, appeso al centro e arrotolato artigianalmente con delle
corde, fungeva da sacco per gli allenamenti.
Rocky
non aveva messo in conto di portarla a casa sua: era convinto che dopo aver
mangiato il tacchino in compagnia di Paulie,
sarebbero usciti insieme e basta.
Ora
si ritrovavano persino digiuni:
“Oh,
Adriana, hai fame?”.
“No”.
“Devo
averci qualcosa… se ti va della coca, dei biscotti o qualcos’altro, no?”.
L’uomo
andò ad appendere il cappotto ad un gancio e con un
gesto naturale si sfilò il maglione di
lana e l’altra maglia che teneva sotto, svelando una comunissima canottiera
bianca:
“Fa
un caldo qui dentro!”.
L’indumento
aveva un piccolo foro sul fianco destro, ma l’aveva indossato pulito prima di
uscire, ritirandolo caldo dal termosifone, dopo una notte intera che era stato
a mollo insieme alle mutande e ai calzini.
Quelle
spalle nude e scolpite crearono un’intimità alla quale lei non era pronta, e
così Adriana continuò a restarsene in piedi imbarazzata, col cappello color
cobalto che male si abbinava al resto dei vestiti, saldamente chiusa nel suo
cappotto modesto, quasi fosse stato uno scudo.
“Adesso
metto un po’ di musica”, tirò su col naso ancora gocciolante.
“Queste
sono le tartarughe di cui ti parlavo prima”, si avvicinò ad
un tavolino. “Le mie amiche Tarta e Ruga”.
“Te
le ho vendute io”.
Lui
ricordava benissimo la prima volta in cui si era presentato al negozio e le
aveva acquistate insieme alla vasca, al mangime, ai sassolini.
“Ti
ricordi la montagna? Quella l’ho dovuta levare perché si
rovesciava sempre…”.
E
mentre Shirley Bassey, alla radio, incominciava a
cantare “You
take my heart away”, Rocky spostò alcuni fogli di giornale, fece un
po’ di spazio e si sedette sul divano.
Anche
quella mossa la mise in stato di all’erta.
Come
un pesce fuori dall’acqua, avrebbe volentieri trovato rifugio nella vasca di
Moby Dick, il pesce rosso che sempre lei gli aveva venduto.
“Perché
non vieni qui e ti metti seduta, uhm? Non è male come
divano…”, e vedendo la sua indecisione, “…c’è il lupo mannaro lì dietro. Stai più sicura qui.”
Lei
si sforzò di sorridere e avanzò come sospesa su una corda.
Alcune
fotografie vicino ad uno specchio furono l’occasione
per allentare la tensione:
“Sei
tu?”, prese in mano la foto in banco e nero di un bambino.
“Sì,
avevo otto anni. Quello è lo Stallone Italiano quando era un bebè. Ma perché non
viene qui e ti metti comoda? Ti
rilassi un po’…”.
Ora,
è tipico delle ragazze che non sono mai uscite di casa
voler telefonare ad un proprio familiare per tranquillizzarlo: è un po’ come
ritrovare il cordone ombelicale smarrito e risalire dal fondo del proprio
disagio.
“Ce l’hai il telefono?”.
Le
rispose di no. “Chi volevi chiamare?”.
“Volevo
dire a mio fratello dove sono”.
Rocky
non ne capiva la necessità: “Perché?”.
“Credo
stia in pensiero”.
A
quel punto, lui decise di risolvere la questione a modo suo: si alzò, andò ad
aprire la finestra e gettò un urlo che rimbombò in tutto il vicinato.
“Ehi,
Paulie! Tua sorella sta con me! Ti richiamo più tardi, ciao!”.
Uno
spiffero gelido restò intrappolato nella stanza non appena ebbe chiuso la
finestra e Rocky allora comprese che lei non si sarebbe mai seduta su quel
divano.
“Che
c’è? Non ti piace la stanza?”.
“No,
è bella…”, fu il commento più sciocco che potesse dire.
Lui
spiegò che era una cosa temporanea.
“Non
è questo…”, cercò di fargli capire.
Rocky
avanzò nella sua direzione, sensuale e bello, con le mani nelle tasche. Era
disposto ad essere paziente.
“E
allora che c’è?”, alzò le braccia e si agganciò alla sbarra di ferro che stava
in alto, proprio sopra di lei. “Non ti piaccio io, oppure le tartarughe… qual è
il tuo problema?”.
“E
che non mi sento a mio agio”.
“Ma no… va bene”.
La
ragazza gli diede le spalle e preferì mantenere una certa distanza.
“Non
dovrei stare qui”.
“Ma no… va bene. Tu sei mia ospite…”, lasciò la sbarra e ritornò ad avvicinarsi.
A
quel punto, nella speranza che lui capisse, non le restò che ammettere
candidamente:
“Io
non ti conosco abbastanza. Non sono mai stata in casa di un
uomo… da sola”.
Rocky
non seppe che dire, un po’ spiazzato da quella dichiarazione esplicita di innocenza, che pure gli era piaciuta:
“Ehm…
le case sono tutte uguali”, e intanto la distanza tra loro riprese ad
accorciarsi.
“E’
che non ti conosco abbastanza”, tornò ad
indietreggiare e a ribadire. “Non mi sento a mio agio”.
“Beh…
se è per questo, io non è che mi sento a mio agio”.
Le
lenti a forma di farfalla incominciarono ad apparirgli troppo severe. Mai nessuno avversario lo aveva intimorito e intontito come
stava facendo lei.
In
fondo, non sapeva neppure quali vestiti avesse sotto
quel cappotto e come fosse la sua pelle più in giù del collo.
“Io
devo andare”, si mosse con risoluzione in direzione della porta.
Proprio
lì, senza metafora, stavano appesi ad un chiodo due
guantoni.
“…Let me love you for a million years or more. I never felt this way
before. Before your kiss. You take my heart away, away…”, cantava la
radio.
“No, ti prego. Non andare!”.
Con il braccio bloccò l’uscio, mentre con l’altro le sbarrò il
passo.
Adriana fu chiusa all’angolo, come un avversario sul ring.
In assoluto, era uno dei combattimenti più difficili che avesse
mai disputato. Le avrebbe potuto spezzare le ossa se avesse esercitato un po’
di pressione, ma quel ring era diverso da tutti gli altri che avesse finora calcato.
Le gambe gli tremavano, come non avrebbero dovuto fare.
“Mi fai un favore?”, le domandò gentile.
“Cosa?”.
“Togliti questi”, le sfilò piano gli occhiali.
Lei abbassò il capo, provando la sconosciuta sensazione di
essere nuda senza di essi.
“Hai occhi belli, lo sai?”, le sollevò il mento per costringerla
a guardarlo. “Fammi un altro favore, togliti quel cappello…”.
Non capiva dove egli volesse arrivare, ma gli permise di sfilare
anche quello.
“Oh… io ti ho sempre
trovato bella”, commentò in un sussurro.
Con la frangetta scompigliata sembrava già un’altra ragazza.
“Non sfottermi”. Non era mai esistito alcuno che l’avesse
trovata bella.
Eppure la sua voce era calda e sincera: “E chi ti sfotte?”.
“Touch
me, take me in your arms, shelter me from harm, let me love you for a million
years or more..”, il sottofondo di Shirley Bassey era ormai lontano anni
luce da loro.
“Io
ti voglio baciare. Tu puoi anche non restituire il bacio se
vuoi, ma io ti voglio baciare”.
Adriana,
suo malgrado, attese e sussultò quando sentì la
mascella ruvida poggiarsi delicatamente contro la guancia.
Ebbe
il coraggio persino di guardarlo negli occhi mentre la sua bocca ritornava ad
avvicinarsi in cerca delle sue labbra. Non era mai stata baciata e sentì il
bisogno di staccarsi da quel primo, debole, contatto ad
occhi aperti.
Incassato
pure quel colpo, Rocky trovò lo slancio per affrontarla ancora una volta con
impeto maggiore.
A
lei, allora, non restò altro che piegare il collo e assecondarlo, mescolandosi
al suo odore di tabacco, senza immaginare che un giorno non lontano avrebbe
baciato quel volto anche tra lividi e
rivoli di sangue, battaglia dopo battaglia, vittoria dopo vittoria.
Eppure
Rocky non era persuaso di aver vinto.
Provò
una strana debolezza alle gambe e, mentre la stringeva tra le sue braccia,
dovette quasi sorreggersi a lei, perché era come se quel ring stesse
sprofondando e qualcosa lo spingesse a cadere verso il basso.
Scivolarono
insieme lungo il muro, fino a che non si adagiarono sul pavimento, l’uno sull’altra, col
respiro sempre più ansimante e le braccia di lei già strette intorno al suo
collo.
Al
tappeto… dopo un unico round.
FINE
Chiedo scusa se i dialoghi sono parsi sgrammaticati, ma chi conosce il film sa che Rocky Balboa parlava esattamente in questa maniera.