Ehilà, lettori e lettrici!
Sono reduce da una settimana sfiancante, ma è
quasi finita. *_*
Ho anche trovato il tempo di finire di scrivere
il quindicesimo capitolo (oh, se solo sapeste...) e mi sono resa conto che
questo racconto sarà un po’ più lungo di Betulla.
Forse arriverò ad una ventina di capitoli...
credo. :P
Intanto vi lascio all’ottavo! Finalmente si
giunge a Minas Tirith... altri ed interessanti incontri sulla via! :)
Grazie mille a tutti coloro che leggono e
seguono questa cosa - e siete tanti!
Vi adoro.
Marta.
Pietra
- sequel di Betulla -
08.
14 Settembre 3019 T. E.
Richiuse la porta alle sue spalle con un tonfo, così forte
che fece tremare i cardini e la sua dama di compagnia Rainiel, che l’attendeva
in camera. Era l’unica ragazza che le era stata accanto, da quando era giunta a
Minas Tirith, tanti mesi addietro. Ricordava ancora il suo viso chino mentre la
petulante Ioreth le blaterava ordini per darle una sistemata e farla sentire a
suo agio.
«Mia signora Brethil, sei di cattivo umore. Anche oggi.» constatò
la giovanetta, che prese la spada che la donna le porgeva e la riponeva con
cura sulla cassapanca. Non aveva ancora perso l’abitudine di aggiungere quella
scomoda formalità davanti al suo nome.
La Prima Guardia del Re si massaggiò le tempie con i
polpastrelli, stanca. Si lasciò cadere sulla poltrona e piegò il capo
all’indietro, osservando la volta a crociera in pietra. «No, sono di pessimo umore.»
«Me ne vuoi parlare mentre mi preoccupo di farti rilassare?»
L’altra scosse il capo. «Non sarà un bagno a farmi calmare,
amica mia. Ma ti ringrazio.»
«Vuoi che me ne vada?»
«No!»
Rainiel sobbalzò per quella risposta improvvisa e più alta
di un’ottava.
Brethil si passò una mano sulla fronte, abbassando il tono
di voce. «No, ti prego, rimani. Sei l’unica persona che mi tenga realmente
compagnia, da quando tutti sono partiti.»
La domestica si sedette sul bordo del letto, intrecciando le
mani sul grembo. «Anche a me mancano i Mezzuomini. Sai, uno di loro veniva
spesso a trovarmi. Meriadoc, si chiama. Mi raccontava tante di quelle storie
sulla sua bella Conta!»
Si ritrovò ad annuire, senza però condividere appieno i suoi pensieri. Non erano solo gli Hobbit ad aver lasciato un vuoto nel suo cuore; certo, Pipino era diventato un grande amico e le mancava ascoltarlo ridere e scherzare, nonostante la Guerra fosse alle porte. Ma quel buco nero lo avevano lasciato anche i gemelli di Elrond, che avevano l’incredibile capacità di rischiararle la giornata peggiore, come quella; le avevano promesso di tornare, ma l’ora della loro decisione stava giungendo e avrebbero capito presto se avrebbero seguito la loro stirpe fino alle Terre Immortali, o se rimanere lì, con gli Uomini.
Le mancavano i Raminghi, la loro vita avventurosa, il
profumo della foresta, i suoi suoni.
E lui.
Le mancava Halbarad.
Non si sarebbe mai abituata all’idea che se ne fosse andato
per sempre; così come non si sarebbe mai perdonata il fatto di non aver capito
che l’uomo del suo ultimo, terribile sogno premonitore fosse lui.
Avrebbe potuto salvarlo.
Avrebbe potuto tirargli un calcio per scostarlo da
quell’ascia mortale.
Avrebbe preferito ritrovarsela lei conficcata sul petto,
almeno non avrebbe dovuto patire tutte quelle pene per la sua perdita; almeno
lui sarebbe stato al suo posto, il giusto posto per la sua amicizia e la sua
devozione nei confronti di Aragorn.
Lui avrebbe dovuto
indossare la divisa della Prima Guardia del Re, non lei.
E poi c’era quella opprimente sensazione che la stava
torturando, che continuava a stringere la presa impedendole di respirare
liberamente. Ma era una sensazione che doveva scacciare al più presto, per
prendere coscienza di ciò che era diventata. Perché se avesse dato libero sfogo
alle sue paure, a ciò che desiderava realmente, allora avrebbe ferito il cuore
di molti – il suo in primo luogo.
«Il Sovrintendente non passerà per una visita, quando i Nani
verranno qui, oggi?»
Brethil si risvegliò dai suoi pensieri al solo suono di
quell’appellativo, e sentì chiaramente le guance diventare rosse, nonostante se
lo fosse impedita. «No, i suoi impegni gli impongono di tornare ad Osgiliath.
Non tornerà tanto presto.»
«Vorresti raggiungerlo, ma non puoi.»
Scosse la testa, sospirando. «No, non posso. E devo farmene
una ragione. Mi annoierei comunque, lì; non ci sarebbe niente da fare se non
guardare un gruppo di Nani che ricostruisce una città.»
«Sembra entusiasmante, invece!»
Brethil rise. «Credo che ne avrai abbastanza di Nani per i
prossimi mesi, amica mia.»
Le campane di mezzodì rintoccarono in quel momento,
interrompendo la pausa delle due donne e riportandole alla vita reale. Rainiel
avrebbe dovuto raggiungere le cucine per l’imminente pranzo, mentre l’altra
avrebbe dovuto dare il benvenuto ai nuovi arrivati. Si preparò velocemente,
assicurandosi la cintura con la spada sulla vita, stringendo la spilla al
mantello e prendendo un bel respiro prima di raggiungere il Palazzo Reale.
Lanciò un’occhiata dal parapetto del Sesto Cerchio e riuscì a scorgere il
gruppo di ospiti giungere dal Cancello Sud, ormai a metà strada dalla città.
Se Boromir avesse potuto vedere Minas Tirith quel giorno ne
sarebbe andato orgoglioso: bandiere a festa, fiori profumati e musica si
spandevano per tutti i livelli, e l’aria di rilassatezza e gaiezza per l’arrivo
dei Nani era palpabile anche chiudendo gli occhi. Del resto, quella comitiva
giunta dal lontano Nord aveva il compito di riportare le loro case agli
splendori iniziali; per non parlare del loro lavoro più grande che avrebbero
dovuto compiere e che consisteva nel nuovo cancello d’ingresso alla città,
abbattuto dall’enorme ariete degli Orchi e ora sostituito da uno momentaneo in
legno.
«E dobbiamo accogliere non uno, bensì due Re.» stava dicendo
Aragorn, una volta che lo raggiunse nella Sala del Trono, dove attendeva la
moglie.
«Tre galli in un pollaio, dunque.»
Il Dúnadan rise di cuore. «Fintanto che ognuno governa il
proprio regno, non vi è nulla da temere.»
«Temo per il collo di Legolas, invece. Sempre che abbia
superato questi giorni.» fece Brethil. «Fortuna che Elladan ed Elrohir non
saranno presenti, altrimenti la carneficina sarebbe stata assicurata.»
«E per quanto concerne il mio collo?» domandò la Regina,
apparendo silenziosamente, con un bellissimo sorriso divertito sulle labbra.
Indossava un abito verde, tempestato di piccole gemme bianche e brillanti come
i suoi occhi, così come di gemme erano intrecciati i lunghi capelli neri. Prese
sotto braccio il marito e si sorrisero.
Brethil si chinò. «Mia signora. Il mio lavoro è quello di proteggerti;
puoi star certa che stanotte e quelle successive dormirai con il capo ancora
attaccato al corpo, mia Regina.»
Le due donne si scambiarono un sorriso, sebbene la figlia di
Aeglos fosse ancora riluttante a parlare confidenzialmente con Arwen, che era
così bella e così eterea da darle l’impressione di non avere il diritto neppure
di guardarla in viso. Aragorn si era innamorato, ed aveva spostato, certamente
la creatura più bella che la Terra di Mezzo avesse mai partorito.
Le trombe di benvenuto suonarono e Brethil si mosse verso
l’ingresso, seguita a poca distanza dai regnanti e da una piccola scorta di
soldati. Aggirarono un grande tavolo rotondo, su cui Rainiel e altre domestiche
erano intente a curare gli ultimi dettagli, e si diressero verso l’ingresso
della Sala del Trono.
Thorin, Dáin e i loro compagni più stretti erano senza
parole, nel camminare per le vie di Minas Tirith. Quando si erano trovati
all’ingresso della città si erano dovuti fermare qualche minuto, il naso
rivolto all’insù per capacitarsi della magnificenza e della grandezza di quella
capitale – e la vertiginosa Torre di Ecthelion, che si stagliava contro il
cielo limpido.
E ora Gimli e Legolas li stavano conducendo su, sempre più
su, attraverso quelle strade lastricate e ripide. Uomini e donne si fermavano
sull’uscio di casa, interrompendo i loro compiti per salutare i nuovi arrivati
con fiori e lodi. Per i Nani quella città era uno spettacolo di bellezza; sebbene
non fosse una miniera e la luce del sole la facesse risplendere di bianco,
quella era un’opera in pietra mastodontica – e ciò li sorprese molto, poiché
mani di Uomini, e non di Nani, l’avevano costruita. Gli edifici abilmente
progettati e realizzati si arrampicavano lungo il fianco del Mindolluin con
grazia, in uno stile elegante e tipicamente Umano, ma che suggeriva la forza
che quella stessa città aveva dovuto mostrare per sopravvivere alle guerre più sanguinose.
Durante il viaggio di ritorno dagli Emyn Arnen, Boromir
aveva raccontato loro parte della storia della Città di Pietra, e loro lo
avevano ascoltato affascinati – non solo per il racconto in sé, ma anche per le
sue parole intrise di amore e fierezza.
«In principio fu Minas Anor, Torre del Sole Calante,» aveva detto, ricordando ciò che aveva
imparato sui libri e i racconti del defunto padre, durante la sua gioventù.
«... e venne edificata dai Númenóreani esiliati nella Seconda Era, nell’anno
3320 per proteggere la Capitale di allora, Osgiliath. Era bella e potente,
sfacciatamente rivolta verso il male di Mordor, che tanto ha tentato di
debilitarla. Il Nimloth, l’Albero
Bianco giunto dal Reame di Númenor, crebbe qui, simbolo della Stirpe dei Re; appassì
quando questa si estinse; eppure un figlio germogliò dopo il ritorno del Re, e
ora cresce rigoglioso nella corte della Cittadella. Minas Anor divenne Minas Tirith,
Torre di Guardia, e venne trasformata
nella Capitale di Gondor solo quando il sovrano Tarondor, nel 1690, spostò la
residenza dei Re da Osgiliath, che scarnita di molte difese fu soggetta a
numerosi attacchi – e da allora, purtroppo, cadde in rovina, come avete avuto
la possibilità di vedere.»
E aveva continuato con epici racconti di battaglie che
l’avevano insanguinata, ma mai fatta cadere in ginocchio. Thorin riconobbe se
stesso in quell’Uomo orgoglioso del suo popolo e del suo operato, e non poté
evitarsi di sorridere e chiudere gli occhi, immaginando la grandezza della
città nei suoi periodi di gloria e di dolore, proprio come la sua tanto amata
Erebor.
Fecero una breve tappa al Sesto Cerchio, dove i nobili tra i
Nani avrebbero alloggiato, e raggiunsero finalmente la Cittadella; alcuni di
loro fischiarono nel trovarsi ai piedi della Torre Bianca.
«Ho l’orribile sensazione di essere basso.» fece Kili.
«Fratello, tu sei
basso. Sei un Nano, lo hai dimenticato o sei in crisi d’identità?»
«È troppo alta anche per un Elfo, giovani Nani.» fu il
commento di Legolas. I due, nonostante tutto, si sentirono sollevati. «E quello
che vedete è l’Albero Bianco, di cui Boromir vi ha raccontato, e che Re Elessar
trovò qualche tempo fa in germoglio.»
I Nani si avvicinarono alla pianta, profumata e rigogliosa. Non
avevano mai visto un albero come quello, bianco come le pietre della città, da
cui sembrava nascere, apparentemente esile ma emanante una forza incredibile.
La forza del Re.
La loro attenzione fu catturata poco dopo dal cigolio di un
pesante portone che si apriva.
Quando la porta della Sala del Trono si spalancò e comparve
la Prima Guardia del Re, seguita da un gruppo di soldati che si schierò a
formare un corridoio umano, i Nani rimasero immobili e interdetti per una bella
manciata di secondi. Non solo il cavaliere che si fece avanti non era un uomo, nonostante
avesse corti capelli neri e delle orribili cicatrici sul viso; era vestita con la
ricca divisa blu e argentata di Gondor, la stella dei Raminghi del Nord in
bella vista sulla spalla sinistra, eppure possedeva una spada di evidenti
fatture elfiche sul fianco. Ciò che quella donna rappresentava era un miscuglio
di storie e popoli che li lasciò sinceramente stupiti.
«Benvenuti a Minas Tirith. Il mio nome è Brethil, figlia di
Aeglos, Dúnadan del Nord, e sono la Prima Guardia del Re. Egli vi attende con
la Regina.»
Dwalin fu il primo ad esprimere il pensiero di tutti ad alta
voce. «Una femmina? Il Capitano della Guardia Reale è una femmina? È per caso uno scherzo?»
«Mai stata più seria di così, mastro Nano. E posso
assicurarti che questa è vera quanto le vostre.» disse Brethil, indicando con
gli occhi grigi prima la sua spada e poi le loro armi. «Di cui, a proposito,
farete a meno per oggi.»
Thorin lanciò un’occhiata alle spalle di Legolas e notò i
due lunghi pugnali e l’arco con la faretra piena. «Perché io dovrei privarmi
della mia ascia e della mia spada, quando lui è armato? Il Re si fida più degli
Elfi piuttosto che dei suoi ospiti?»
Brethil, che aveva già rivolto le spalle ai Nani, tornò sui
suoi passi, fermandosi di fronte a colui che aveva parlato. Nonostante la donna
fosse più esile anche se più alta del Nano, parve crescere in fierezza e
regalità. «A meno che tu non voglia usare la tua ascia come forchetta, ti
consiglio di lasciare l’armamentario sull’ingresso; così come farà anche
l’Elfo.» Il suo volto poi si distese. «Non è per sicurezza, né per una
questione di fiducia. Sia io che lui sappiamo bene che nessuno di voi
tenterebbe di fare qualcosa di azzardato. Semplicemente, il pranzo è pronto.»
Thorin girò lo sguardo su Kili, che gli aveva tirato una manica
per attirare l’attenzione. «Sai, zio? Sto seriamente iniziando ad amare gli
Uomini e i loro banchetti.»
«E anche le Prime Guardie del Re, se sono tutte così.»
replicò Fili, ridacchiando.
Legolas gli si affiancò, ignorando il grugnito contrariato
di Thorin. «Misura le tue parole con lei, mastro Nano; ho visto Uomini umiliati
per molto meno.»
L’altro non sembrò preoccuparsi. «Ah, mi piacciono
battagliere!»
«Ti piace perdere, dunque?» domandò Brethil. Nonostante il
tono serio, le sue labbra si piegarono in un sorriso.
Quello non si scoraggiò, alzando il mento. «Affatto, poiché
sono un buon guerriero e gentiluomo, e difficilmente vengo sconfitto. Ma se
giovasse al tuo umore, allora sarei pronto a cederti la vittoria.»
«Non essere così generoso, perché io non lo sarò.» replicò
lei. «Uno di questi giorni ci incontreremo nell’arena di allenamento, e allora
vedremo se le battagliere ti
piaceranno ancora.»
«Sembri molto sicura di te, mia signora.» commentò Thorin. «Ho
allenato personalmente mio nipote, ma se la tua spada affonda e taglia come la
tua lingua, allora rischia seriamente l’umiliazione.» Era profondamente colpito
dal temperamento della donna. Non aveva mai sentito, nella sua lunga vita, di
una femmina che facesse parte dell’esercito – e addirittura fosse la Guardia
del Re in persona! – tranne l’Elfo Tauriel, di cui ricordava bene il suono dei
pugnali e il sibilo delle frecce. Ma le voci sull’Elessar parlavano di un Uomo
giusto e ponderato, il ché gli faceva pensare che la sua bizzarra scelta fosse
più che imparziale.
«Sembra interessante... qualcuno vuole scommettere sul
Capitano?» chiese Kili, che si beccò un amorevole scappellotto dal fratello.
Brethil interruppe i loro discorsi poco dopo, quando si
ritrovarono nell’imponente Sala del Trono, in cui i sovrani sedevano in loro
attesa. «Signori, il Re Elessar e la Regina Arwen Undómiel.» disse,
inchinandosi su un ginocchio al loro cospetto e imitata dagli altri.
Nessuno di loro, neppure i più giovani, osarono parlare di
fronte alla bellezza dei due – e della Regina in particolare. Poiché, sebbene
la Stella del Vespro appartenesse a quella razza che tanto odiavano, non
potevano negare la sua grazia e il suo splendore.
Nonostante Aragorn non indossasse il completo migliore e
avesse preferito lasciare la corona nei suoi alloggi, Thorin riconobbe in lui i
Re di un tempo, altero e regale nella sua grande saggezza. Anche lui, come
quell’Uomo, aveva preferito evitare di indossare l’ornamento che lo indicava
come regnante; e capì che entrambi non ne avessero bisogno. Erano stati Re
prima ancora dell’ufficializzazione, guidando il loro popolo da parecchi anni
prima. Lo guardò mentre gli veniva incontro, sereno e sorridente.
«Benvenuti nella mia casa, amici miei, che ora è anche la
vostra. Possano i vostri giorni qui essere ricordati lietamente.»
Thorin annuì, rialzandosi. «E lo saranno, mio signore, perché
quel poco che ho avuto la possibilità di vedere, mi fa anche ben sperare.»
Aragorn sorrise e chinò il capo ogni qualvolta uno di loro
si presentava. Quando anche l’ultimo dei Nani terminò con il consueto “al tuo servizio” , indicò loro il
pranzo. «Prego, accomodatevi a tavola e discorriamo un po’ del vostro lungo
viaggio e della Montagna Solitaria, se vi aggrada. Sono curioso di sentire la
vostra storia, piuttosto che leggerla tra le pagine di un libro.»
La scelta del tavolo rotondo non passò inosservata ai due
sovrani Nanici: non vi era un seggio più grande dell’altro, né la possibilità
di sentirsi più o meno importanti a seconda del posto che si sceglieva.
Chiunque, al cospetto del Re di Gondor, era considerato un suo pari; lui stesso
chiese loro di chiamarlo semplicemente Aragorn, poiché quello era il nome che
gli avevano dato alla nascita e le formalità non erano ben accette tra i suoi
amici.
Thorin prese posto accanto a Dáin e Dwalin, stando ben
lontano dall’Elfo, che invece si sedette al fianco di Gimli e della donna con
le cicatrici in viso. Osservò i commensali e quasi si stupì nel rendersi conto
che la mezza Nana e i suoi fratelli, che avevano gironzolato tra i suoi piedi
per così tanto tempo nelle ultime settimane, non fossero presenti.
Il pranzo fu ovviamente ricco di prelibatezze, e per
parecchi minuti nessuno parlò, troppo occupati a masticare e ingoiare carni
arrosto e patate.
«Non mangiavo un maiale così saporito da quando il mio cuoco
morì, dieci anni fa.» commentò Dáin, dopo aver svuotato la coppa di vino in
pochi sorsi.
«Neppure Bombur saprebbe fare di meglio.» continuò Fili,
annuendo.
Kili rise. «Beh, saprebbe come finirlo.»
«Non sfidarmi, ci riesco benissimo anche io!»
Brethil osservò i due e le parve di vedere Merry e Pipino
che cianciavano allegramente di cibo e birra. Si ritrovò a sorridere senza quasi
rendersene conto, mentre il senso di nostalgia sembrava alleviarsi lievemente.
«Il Sovrintendente ci ha informati che ci sono ancora
problemi con gli Esterling. Noi stessi abbiamo subito un paio di attacchi,
durante il viaggio.» disse Thorin, riportando l’attenzione su lidi ben più seri.
«Credevo che si fossero arresi e dichiarati neutrali.»
«Purtroppo non tutti hanno deciso di sottostare al mio volere.
Alcuni di loro stanno insorgendo, e sebbene la guerra abbia indebolito anche
loro, temo che possano ricreare un esercito velocemente e attaccarci nel
prossimo futuro. Presto giungeranno Imrahil di Dol Amroth, Dervorin della Valle
del Ringló e Duinhir di Morthond, per discutere di un possibile viaggio verso
la terra di Rhûn. E anche Re Éomer di Rohan si unirà nuovamente a noi, appena
potrà permettersi di allontanarsi dal suo regno.»
Brethil, nell’udire quei nomi e le riunioni che ne sarebbero
conseguite, sentì lo stomaco stringersi, ma evitò accuratamente di farne parola
con Aragorn.
«Beh.» fece Gimli, rilassandosi sulla sua sedia. «Se sono
Uomini saggi, decideranno di stare entro i loro confini. Altrimenti, se hanno
dimenticato quando tagliente sia la mia ascia, sono pronto a rinfrescargli la
memoria.»
«E se dovessero portare con sé un olifante, sarò felice di
lasciarlo a te per pareggiare i conti.» aggiunse Legolas.
«Ah! Poco ma sicuro, Elfo. Riuscirei ad abbatterlo da solo
con la forza delle mie sole mani, non come facesti tu, che ti prendesti i meriti
sulle fatiche degli altri!»
Il resto dei Nani apparve stupito dall’amichevole scambio di
battute tra i due, anche se Thorin, più che sorpreso, sembrava inorridito.
Eppure Gimli e Legolas parevano legati da una sincera amicizia, e non riuscì a
capacitarsi di come potesse essere accaduto. Il figlio di Glóin, che si agitava
accanto a lui con disappunto, sapeva bene cosa la sua gente avesse dovuto
vivere negli anni passati, senza l’aiuto che gli Elfi gli avevano negato; così
come sapeva che suo padre era stato catturato e reso prigioniero proprio
dall’Elfo che aveva accanto; tuttavia eccolo lì, a scherzare e a discorrere
come è abitudine fare con un vecchio amico. Avrebbe dovuto parlare con il Nano
a quattrocchi, per comprendere appieno le sue motivazioni; ma non era tanto
sicuro di volerlo fare, né di capirlo.
Prima dell’ennesima portata di carne, che stava rallegrando
gli stomaci di tutti, la conversazione volse velocemente sul lavoro che i Nani
avrebbero dovuto compiere nelle settimane seguenti. Aragorn aveva messo a loro
disposizione numerosi edifici da utilizzare come officine, fucine e botteghe,
oltre un considerevole numero di alloggi, sparsi sui i vari cerchi, per il
resto dei lavoratori – che tuttavia erano di gran lunga inferiori di numero
rispetto a coloro che stavano già lavorando ad Osgiliath. Thorin si appuntò
mentalmente che, dopo aver dato le direttive, si sarebbe recato subito alla
forgia, la sua seconda casa.
«Sentitevi liberi di usare qualsiasi cosa come più vi
aggrada, per lavorare meglio e sentirvi a vostro agio. Siete miei ospiti, ora,
e come tali vi considero anche miei cittadini.» stava dicendo Aragorn.
«Pessima mossa, mio signore.» commentò Dwalin, con un lieve
accenno di sorriso. «Mai dire ad un Nano di fare come se fosse a casa sua; siamo
fin troppo in grado di prendere le tue parole alla lettera.»
L’Uomo rise. «Ebbene, fintanto che lavorerete per me, fate
pure!»
Il pranzo si concluse qualche tempo dopo, con le chiacchiere
che scemavano e la voglia di iniziare a lavorare che li pervase. Con un
inchino, i Nani si congedarono. Dáin e Glóin si diressero insieme verso le
stalle, per sellare i loro pony e tornare ad Osgiliath, dove avrebbero
principalmente prestato il loro aiuto e la loro guida, e Gimli si offrì di
accompagnarli; Thorin, Dwalin e Balin, seguiti dai fratelli Fili e Kili,
andarono con loro, poiché avevano intenzione di dare un’occhiata al maestoso
ingresso della città, per capire cosa e come avrebbero dovuto progettare.
Brethil fu congedata per il pomeriggio, e si ritrovò in compagnia di Legolas;
rimasero seduti all’ombra di un albero, in uno dei tanti giardini curati e
profumati della città, al Quinto Cerchio.
Guardò l’Elfo con la coda dell’occhio, che osservava
impensierito ed immobile il cielo tra le fronde dell’albero. Si chiese se
stesse dormendo, poiché sapeva che coloro della sua razza non abbassavano le
palpebre durante il sonno. E si domandò quanto ancora lui e il Nano si
sarebbero fermati a Gondor.
Ma il Principe di Bosco Atro era decisamente sveglio e si voltò.
«Il Male ha lasciato queste terre. Boromir è vivo, seppur lontano da casa. Aragorn
ti ha onorato di un posto al suo fianco. Eppure il tuo animo è ancora colmo di
cattivi pensieri. Dimmi, Brethil, se c’è qualcosa che posso fare per alleviare
il peso che porti sulle spalle.»
Lei scosse il capo. «Ti ringrazio, amico mio, ma non c’è
modo di aiutarmi, perché ciò che voglio non potrà tornare; e, in realtà, non so
esattamente cosa voglio.»
Legolas la osservò profondamente e le parve che i suoi occhi
azzurri divenissero più luminosi mentre le scrutava lo spirito. L’Elfo capì
dove fosse il suo problema, ma non glielo disse; lei avrebbe dovuto fare
chiarezza con se stessa e con le persone che amava. «Vorrei presentarti
un’amica.» le disse, invece. Notò il guizzo di curiosità attraversarle gli
occhi grigi, ma anche la perplessità incresparle la fronte e le cicatrici.
Brethil accettò una mano che lui le porse, per alzarsi e
seguirlo. Non parlarono per il resto della passeggiata, mentre attraversavano
con calma i vari livelli della città. Minas Tirith non ricordava l’ultima volta
in cui i Nani l’avevano presa d’assalto, ed era quasi comico vederli girare e
scansare gli alti Uomini di Gondor tra una strada e l’altra, imprecando in
Khuzdul contro le loro gambe lunghe. Giunsero al Secondo Cerchio e si diressero
alla bottega del fabbro. Brethil notò subito testa rossa sbucare dall’edificio,
e Legolas la richiamò.
Un Nano, eppure tremendamente alto per i loro standard, si
voltò al nome di Káel e rimase sorpreso nel vedere l’Elfo accompagnato da una
donna in divisa. «Legolas, buon pomeriggio! Qual buon vento ti porta qui?»
«Sto cercando tua sorella. Sapresti dirmi dove posso
trovarla?»
L’altro annuì, distogliendo lo sguardo dalle cicatrici della
donna non appena si accorse di un paio di occhi grigi che lo stavano
incenerendo. «Ma certo; è con Trión, terza porta a destra come entri.»
Legolas le fece strada e lei lo seguì, senza una parola.
L’aria dentro quell’edificio si era fatta improvvisamente afosa. Dal corridoio
che scendeva vertiginosamente proveniva un calore infernale, segno che le
fucine fossero già al lavoro. Fortunatamente la stanza dove trovarono la
sorella di Káel era provvista di un oculo sul soffitto, che faceva scorrere una
piacevole corrente d’aria, e Brethil tornò a respirare. Seduta ad un grande
tavolo, colmo di attrezzi per lavorare il ferro, stava una Nana – o quello che
Brethil credette fosse – intenta ad intagliare dei minuscoli dettagli
decorativi sulla superficie di un pugnale. Un’incudine e un martello, con un
secchio colmo d’acqua, erano posizionati accanto al suo tavolo, e Brethil si
stupì all’idea che quell’arma potesse essere stata forgiata da lei. Un Nano più
piccolo, ma con la statura di un giovane Hobbit, sedeva in silenzio dall’altra
parte del tavolo, intento ad osservare il minuzioso lavoro della sorella.
«Trán, perdona il disturbo.» fece Legolas, catturando
l’attenzione della Nana.
«Nessun problema, entra e accomodati.» rispose lei,
lanciando una veloce occhiata all’estranea. «Come posso aiutarti?»
L’Elfo sorrise e le indicò la donna. «Permettimi di
presentarti il Capitano della Guardia Reale.»
La Dúnadan si fece avanti, non capendo ancora il motivo di
quella visita. «Brethil figlia di Aeglos, al tuo servizio.»
«Trán figlia di Rulin al tuo, mia signora.» replicò la Nana,
alzandosi e chinandosi.
Quando Brethil si voltò per chiedere spiegazioni a Legolas,
l’Elfo era già sparito. Sospirò profondamente, tornando ad osservare la Nana,
in piedi e in attesa che lei parlasse. Come se sapesse cosa dire, poi. Posò gli
occhi sulla lama, momentaneamente dimenticata, e decise salvare quel silenzio
imbarazzante con un banale “È opera tua?”.
«Sì, ho terminato di forgiarlo prima di pranzo.»
Brethil credette che continuasse a parlare, conoscendo la
fierezza dei Nani riguardo le loro opere; ma la giovanetta non sembrava molto
loquace. «Posso vederlo?»
«Ti fanno male? Come le hai fatte?» domandò il più piccolo,
prima che la sorella rispondesse; nel frattempo si era avvicinato alla donna e,
tirandole la manica della divisa, l’aveva costretta ad abbassarsi, per
sfiorarle una cicatrice.
«Trión!» esclamò la sorella, portandolo via. «Non si
chiedono queste cose.»
Brethil scosse il capo. «No, non mi fanno male. Almeno, non
fisicamente.» disse, sorridendo al bambino. «Mi portano solo brutti ricordi.»
«Anche io ho una cicatrice!» esclamò lui, pieno di orgoglio
nel mostrarle un lungo taglio sulla gamba sinistra. «Sono caduto tra gli
attrezzi di lavoro di mio padre, ma sono sopravvissuto!»
«Oh, allora sei un ometto forte.»
Trán si rilassò, vedendo la gentilezza comparire in quel viso duro e deturpato.
Il fratello, d’altro canto, già l’adorava, e sorrise
allegramente quando la donna gli scompigliò i capelli già lunghi. «Hai ucciso
molti Orchi cattivi?» le domandò.
«Non ci sono Orchi buoni.
Ma sì, la mia spada ne ha incontrati parecchi. Più di quanti ne volessi.»
«Un giorno anche io combatterò, come te e i miei fratelli!»
Brethil sorrise, scuotendo la testa. «Mi auguro per te che
nel futuro non ci sia bisogno di soldati a difendere le città dagli Orchi. Ma
sei coraggioso, questo è onorevole.» Alzò lo sguardo sull’altra ragazza, che
era ancora in piedi intenta a guardarli. «Erebor o Colli Ferrosi?»
«La seconda.»
La Dúnadan strinse le labbra, sinceramente impacciata. Non
riusciva a comprendere il motivo di quella visita inaspettata, e stava per
togliere il disturbo. Ma fu fermata dalla Nana chiamata Trán.
«Puoi rimanere, se vuoi. Trión sembra gradire la tua
compagnia.» le disse, le dita intrecciate nervosamente tra loro. «E una
presenza femminile, qui, farebbe piacere anche a me, in realtà.»
Brethil ci pensò un poco, ma capitolò subito. Anche lei
aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, qualcuno che le facesse dimenticare
per qualche istante i brutti pensieri e i doveri che aveva. Così si avvicinò al
tavolo di lavoro, osservando da vicino l’operato della ragazza.
«È... è un regalo.» mormorò la Nana. «Per un paio di amici
che ho incontrato lungo la strada. Probabilmente li hai conosciuti. Sono i
nipoti del Re di Erebor.»
«Certo, li ho incontrati.» Brethil sorrise, prendendo posto
sull’unica sedia libera da attrezzi. «Ho promesso a messer Fili che gli avrei
mostrato quanto affilata sia la mia spada. Quindi, per favore, fai un buon
lavoro con la sua. Ne avrà bisogno.»
Le due si scambiarono un’occhiata divertita e, prima che
potesse rendersene conto, Trán era scoppiata a ridere. Non le riusciva
difficile immaginare la sfacciataggine del maggiore dei fratelli, né
l’eventuale umiliazione che avrebbe potuto subire da quella determinata e
altera combattente.
Trán esaminò incuriosita la spada della donna. «Ho due
pugnali di simile fattura. Me li inviò una mia lontana ava, da Rivendell. Ma
non ho mai imparato ad usarli nella maniera corretta. Se vuoi... se vuoi, dopo,
posso mostrarteli.»
«Ne sarei felice. E potresti chiedere a Legolas di
allenarti. Gli Elfi Silvani non combattono solo con l’arco, ma i pugnali sono
proseguimento naturale delle loro mani. Sarebbe un ottimo insegnante.»
L’idea che Legolas potesse spendere il suo tempo
insegnandole a combattere la fece fremere di entusiasmo. Crescendo in un
ambiente prettamente maschile aveva imparato a difendersi e ad attaccare con
l’ascia e la spada, ma né l’uno e né l’altra arma erano di suo gradimento – e
il suo orgoglio attribuiva le sue scarse doti proprio a questo motivo. Ma quei
pugnali che la lontana parente le aveva regalato, tanti anni addietro, le erano
sempre piaciuti.
«Lo farò, ti ringrazio. Tu come sei riuscita a diventare...
beh, a diventare quello che sei? La Guardia del Re, per Mahal!»
Brethil non rispose subito, tornando indietro nel tempo di
parecchi anni, quando ancora era una ragazzetta e il padre l’aveva portata al
cospetto di Aragorn, per farle pronunciare il giuramento e ricevere la tanto
amata spilla argentata a forma di stella.
“Se con la vita o con la morte
posso servire te e la Stella di Arnor, allora io,
Brethil figlia di Aeglos, Dúnadan del Nord, lo farò.
Offro la mia spada, il mio arco e la mia vita
al servizio del perduto Númenor,
per difendere le terre che ci appartengono
e gli amici che richiedono il mio sostegno;
e giuro su ciò che di più caro ho al mondo
di servire i miei compagni con lealtà, devozione e fiducia,
da questo momento fino al giorno della mia morte.”
Con lealtà e fiducia,
ripeté mentalmente.
Quasi le scappò da ridere, beffeggiandosi per ciò che aveva
commesso liberando Gollum, calpestando i suoi doveri e la stima dei suoi
compagni, mentendo, scappando come una codarda e nascondendosi sotto un
cappuccio grigio. Quando aveva pronunciato quelle frasi era più che convinta
che mai, e poi mai, in nome del suo onore sarebbe venuta a meno della sua
parola, perché credeva ciecamente in ciò che stava diventando.
Invece, era riuscita a sorprendere anche se stessa.
«Mia signora Brethil?»
Sbatté le palpebre velocemente, riprendendosi dai suoi
pensieri e tornando alla realtà. «Servo il mio Re da quando ho memoria.
Facevo... e faccio ancora parte dei Raminghi del Nord.»
Trán strabuzzò gli occhi. «Sei una discendente di Númenor?»
L’altra annuì, e improvvisamente la Nana capì da dove
provenisse l’aura di alterigia e regalità che aveva subito notato. Era più che
sicura che persino con degli stracci vecchi non avrebbe perso la fierezza del
suo sguardo. Poi si ricordò della tomba che avevano incontrato nel cammino per
gli Emyn Arnen e delle parole di Legolas. «Conoscevi un certo Halbarad?» Si
pentì immediatamente di aver posto quella domanda, perché gli occhi della donna
saettarono su di lei con un dolore talmente intenso che la lasciò senza fiato.
«Scusa, sono stata una sciocca.»
Brethil si alzò, muovendo distrattamente qualche passo e
osservandosi intorno, senza realmente vedere. «Fu il mio mentore e un secondo
padre. Non sarei qui se non fosse stato per lui.»
Trán non capì se si riferisse al suo posto accanto al Re, o
se invece volesse intendere qualcos’altro di più concreto. Il Ramingo Elegost
aveva detto che Halbarad fosse caduto per salvare
la vita di una cara persona; che si trattasse di lei? Non ebbe il cuore di
chiederglielo.
Fu quando il Capitano si voltò per rassicurarla con un lieve
sorriso, che capì quanto stesse ancora soffrendo, nonostante riuscisse a
nascondere il dolore con maestria. E la voglia, la tremenda voglia di darle
sostegno si impossessò di lei, come mai le era accaduto, poiché meglio di
chiunque altro conosceva e capiva quella sensazione asfissiante che stringeva
il cuore. Il lutto era il nemico peggiore da sconfiggere, e non era neanche
sicura che esistesse un metodo per farlo. Non aveva mai stretto amicizia con
una femmina, poiché le poche che aveva incontrato ai Colli Ferrosi vedevano
bene di girare il più possibile lontano da lei e dalla sua famiglia. Ma quella
donna... Brethil poteva meritarsi la sua fiducia e la sua amicizia, lo sentiva.
Così si alzò, senza pensarci troppo, e fece la prima cosa
che le venne in mente.
L’abbracciò.
*
Ebbene,
finalmente gli incontri che più attendevo: Brethil e i Nani, e Brethil e La
Nana; entrambi avvenimenti parecchio importanti, soprattutto per le due
donzelle.
Ho
voluto dedicare un capitolo intero alla memoria di Halbarad, che come sapete (e
in caso contrario, ora vi sarà chiaro) amo profondamente.
Nel
prossimo capitolo ci sarà un punto di svolta nel rapporto tra Trán e Thorin,
che in questo non hanno interagito.
E
tenetevi forte, perché le cose, per Gondor, precipiteranno presto. Oh, yeah. ;)
Alla
settimana prossima!
E
un grazie in anticipo a chiunque leggerà, commenterà – insomma, a voi. :)
Marta.