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Autore: Ser Balzo    17/09/2013    3 recensioni
STORIA IN REVISIONE (tanto per cambiare)
Nel cuore della Polonia c'è una vecchia e grande foresta. Da tempo immemore domina le terre e le genti circostanti, venendo adorata e temuta come un'antichissima divinità. Nessuno ha mai contestato il suo immenso potere.
Nessuno, fino ad oggi.
È il 1807: Napoleone domina l'Europa. Tra nemici implacabili, commilitoni esuberanti e una infida e onnipresente neve, il giovane Dastan si ritrova improvvisato protettore di una strana ragazza con un elegante vestito rosso.
La fanciulla non ha casa, ne' famiglia, ne' amici. Ma una cosa è certa: qualcuno la rivuole indietro.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1.

Il Principe e il Cacciatore

 

 



Neve, neve, nient’altro che neve. Odio la neve.

Dastan si dondolò sulla sella, inquieto. Si sforzò di penetrare con lo sguardo la tormenta rabbiosa che lo circondava da ogni lato, ma senza alcun risultato.

La bufera nascondeva completamente il campo di battaglia. Il villaggio di Eylau, che avrebbe dovuto essere alla sua sinistra, era completamente invisibile. Ogni tanto si scorgeva il lampo di qualche cannone russo, ma a parte quello, solo il rombo dell’artiglieria e il crepitio dei moschetti portato dal vento sembrava indicare che si stesse svolgendo una cruenta battaglia.

Principe, il suo agile cavallo, scosse la testa sbuffando indispettito.

Hai dannatamente ragione, vecchio mio.

Accarezzò il collo dell’animale intirizzito, liberandogli la criniera dalla neve e dal ghiaccio. Era dall’alba che il tredicesimo reggimento di Cacciatori a Cavallo di Sua Maestà Imperiale attendeva impassibile su quel crinale, in silenzio e perfettamente schierato.

Nessuno parlava. Quella mattina il cielo era terso e il bagliore del sole nascente si adagiava sulla neve candida come un leggero velo aranciato. Sembrava l'inizio di una splendida e gloriosa giornata, almeno fino a poco tempo prima: un banco serrato di nubi era comparso dal nulla e in men che non si dica la cavalleria dell'Imperatore si era ritrovata nel bel mezzo di una tormenta di neve. 

Il vento fischiava rabbioso e sputava la neve in faccia agli uomini, rattrappiti dal gelo sopra le selle. Il ghiaccio si accumulava sulle visiere degli sciaccò, bagnava le eleganti divise, intorpidiva le membra. La visuale era ridotta a qualche metro di distanza, dopo di che, tutto spariva in un indistinta nebbia informe, che vorticava e dava vita ad un esercito di ombre. Ad un certo punto, a Dastan era sembrato di vedere qualcosa muoversi nella tormenta. Inconsapevolmente, la mano gli si era stretta intorno all’impugnatura della sciabola.

Alla fine, dopo un tempo che parve quasi infinito di silenzi e cupi borbottii, il Cacciatore Charles Montgros, un tipaccio grande e grosso con una sconfinata passione per le donne facili e le risse, decise di interrompere tutto quel mutismo con una parola che sarebbe diventata celebre solo qualche anno dopo, e su un campo di battaglia ben più famoso.

«Merda! Ho il culo congelato, tra poco mi cadrà come un grosso pezzo di ghiaccio. Ma quando ci muoviamo?»

Il sergente LaBeouf, alla sua destra, sogghignò sotto i folti baffi biondo rossicci incrostati di ghiaccio. Era accanto al grosso Cacciatore, ma dovette comunque urlare per sovrastare l’ululato del vento. «Siamo la cavalleria di riserva, Montgros. Probabilmente non ci manderanno a inseguire i fuggitivi, alla fine della giornata.»

«Non so» rispose Charles «ho un brutto presentimento.»

«E’ questa neve» chiosò con l’aria di chi se ne intende Bernard Martin, un tipo alto e allampanato dallo sguardo torvo e dalle poche ma efficaci parole. «Sono gli spiriti della foresta. Sono inquieti.»

«Vaffanculo a te e ai tuoi folletti» rispose elegantemente Charles. «Io dico che ci dobbiamo muovere.»

Il sergente LaBeouf si rizzò sulla sella e fissò il grosso Cacciatore con aria eccessivamente seria. 

«Diamine, soldato Montgros, credo proprio che tu abbia ragione. La tua idea è senza dubbio un colpo di genio. Dovresti correre dal generale a riferirgliela. Anzi, dritto dall’imperatore! Riesco quasi a sentirlo: “Per tutti i tamburi, Charles, mio caro ragazzo, come ho fatto a non capirlo prima? Sono proprio l’ultimo dei deficienti!”»

«Magari ti farà maresciallo» interloquì Victor Beaumonde, un ex tagliaborse agile come una lepre e furbo come una volpe.

«Ha ha. Cristo santo, Victor, mi fai spisciare. Perchè non  te ne vai un po’ a fanculo?» 

«Ci siamo già, direi» rispose Dastan, lo sguardo fisso davanti a se’.

Quella frase spense di colpo qualunque tipo di ilarità. Il vento si fece di nuovo sovrano.

«Sei il solito piantagrane, Dastàn» sogghignò Victor.

«E tu sei un maledetto francese, Victor. È Dàstan, non Dastàn

«Pure noioso. Noioso e piantagrane. Non potevi avere un nome normale? A tua madre non piacciono i francesi?»

«Se ti avesse conosciuto non avrebbe avuto altra scelta. Credo sia orientale... egiziano, siriano, o giù di lì...»

«Dastàn il Saraceno...»

«Vuoi che dica a Charles di fracassarti di botte?»

«Chi, il gigante? Quello è così lento che nel tempo in cui alza le mani io gli ho già abbassato i pantaloni.»

«Non sapevo ti piacessero gli uomini» si intromise Charles con un ghigno.

«Solo quelli ricchi e affascinanti» rispose Victor, restituendogli un sorrisetto.

«Silenzio! Arriva qualcuno!» gridò il sergente LaBeouf.

Tutti si voltarono verso sinistra, da dove si udiva chiaramente uno scalpiccio di zoccoli. Dastan rimase a guardare oltre il muro di cavalli ed eleganti sciaccò, finché la fonte di quel rumore sbucò dalla foschia al gran galoppo, noncurante della pericolosità di tale andatura sulla neve, seguito dal suo Stato Maggiore che cercava disperatamente di stargli alle calcagna.

Era un uomo solo, eppure ne valeva un centinaio. Montava un focoso cavallo arabo e indossava una sgargiante uniforme azzurra bordata d’oro, ripiena di cordoni, nastri e nappine svolazzanti. In mezzo a tutto quell’azzurro, sbucava un volto fiero incorniciato da dei poderosi mustacchi e da una cascata di ricci ribelli.

Tutti conoscevano il leggendario coraggio di quello spavaldo guascone. Era il maresciallo Murat.

«Guardate, è Murat. Murat!» Il nome dell’impetuoso comandante passò di bocca in bocca, propagandosi come una virulenta fiammata.

«Che succede? Si va? Si va?» domandava febbrilmente Charles, dondolandosi sulla sella.

Ma come uno spettro evocato dalla tormenta, il maresciallo Murat sparì come era venuto.

«Ehi, ma dove va?» disse Charles, deluso. «Torna qui!»

Passarono lenti minuti scanditi dal morso gelido del vento, durante i quali Dastan si chiese se l’apparizione del maresciallo non fosse stata un’allucinazione data dalla neve. Poi, rapido come il fulmine, un ordine si propagò per le file di cavalieri.

«Sguainare le spade! Pronti alla carica!»

Gli uomini estrassero la propria arma dai foderi di acciaio, portandola vicino alla spalla. In una giornata di sole sarebbe stata una scena magnifica, ma tutto era nascosto dalla neve.

Erano stanchi, semicongelati e intirizziti, ma erano pure sempre cavalieri. Dragoni, Corazzieri, Lancieri, Ussari, Cacciatori e Granatieri a Cavallo: diecimila e settecento uomini del fior fiore della cavalleria di Francia. 

«Si va! Si va!» gridava estasiato Charles.

Dastan deglutì la propria agitazione, cercando di mandarla il più a fondo possibile. Respirò a fondo, cercando di controllare i battiti del proprio cuore. Sapeva che ben presto la paura sarebbe scomparsa, seppellita dall’adrenalina e dall’esaltazione che solo una carica di cavalleria poteva dare.

Il maresciallo Murat sbucò di nuovo dalla nebbia, accompagnato da una squadra di ufficiali.

Al suo passaggio, lance, sciabole e spade si levarono in alto, a sfidare il cielo.

«Viva Murat! Viva l’Imperatore!»

Le trombe squillarono, sovrastando la tormenta, e quella grande marea di uomini e cavalli si mise in marcia, sferragliando e tintinnando. Nonostante la neve attutisse il rumore, il terreno vibrava sotto gli zoccoli di tutti quegli animali.

«Viva l’Imperatore!»

Le interminabili file di cavalieri aumentarono progressivamente la velocità, passando al trotto. Non avrebbero potuto andare più veloci, o i cavalli avrebbero rischiato di rompersi le zampe affondando nella neve.

«Viva l’Imperatore!»

La cavalleria passò accanto ad un reparto di fanteria che avanzava lentamente. Gli uomini si tolsero gli sciaccò e li agitarono in aria.

Dastan non si accorse neanche della loro presenza: erano troppo lontani da lui, e in ogni caso era  impegnato a guardare avanti. Ancora non riusciva a scorgere alcunché, dinanzi a se’. Era come se galoppasse in mezzo al nulla. 

Una strana morsa cominciò a comprimergli il petto. Non vedeva niente, non sentiva niente, non sapeva dove stava andando... un terribile senso di smarrimento rischiò di fargli perdere il controllo. Soltanto la consapevolezza della presenza delle migliaia di uomini intorno a lui lo mantenne lucido.

Poi, come una boccata d’aria fresca, la nebbia sparì e il mondo si rivelò dinanzi ai suoi occhi.

Eylau bruciava. La cittadina era avvolta dalle fiamme, devastata dal cannoneggiamento delle truppe dello Zar. I reggimenti di fanteria, simili a grossi e informi animali, fiammeggiavano consumandosi lentamente. Il vento che gli rombava nelle orecchie gli impediva di udire le scariche di fucileria, ma riusciva comunque ad avvertire il rombo dei cannoneggiamenti.

La guerra era sangue, sudore, feci e budella, ma quando entrava in gioco la cavalleria diventava gloria, onore, coraggio. Tutto scompariva in una luce accecante. Quando la cavalleria carica, ragazzo mio, Dio si ferma a guardare. Era una delle frasi preferite di suo padre. Una frase che poteva apparire esagerata, quasi ridicola: eppure quando ti trovavi in mezzo a migliaia di uomini lanciati al galoppo sfrenato verso un muro di nemici, sprezzanti del pericolo, della vita, di tutto, mentre il vento ti urlava nelle orecchie e gridavi per scacciare via la morte, quella frase non aveva niente di stupido. Era la pura e semplice verità.

Fu come se la tempesta di neve avesse intessuto un’incantesimo per fiaccare gli animi di quegli uomini. Una volta fuori dalla tormenta, un boato di gioia percorse le file di cavalieri. Come una valanga inesorabile, la cavalleria di riserva passò al galoppo, lanciandosi a tutta velocità contro le file nemiche.

La carica di quei diecimila cavalieri fu uno spettacolo straordinario: i russi, che fino a poco prima potevano quasi accarezzare la vittoria, si videro comparire davanti un’interminabile schiera che nonostante avesse passato tutta la mattina sotto la neve riusciva comunque ad essere sgargiante e scintillante. Il verde dei Cacciatori e dei Dragoni, l’azzurro degli Ussari, il blu dei Lancieri e dei Corazzieri, gli elmi crestati, le spade, le corazze: un’inarrestabile ondata di carne e acciaio.

Dastan vide gli ufficiali sbracciarsi e sbraitare per far assumere agli uomini la formazione a quadrato, l’unica in grado di tener testa alla cavalleria: ma per muovere centinaia e centinaia di uomini occorre del tempo. Tempo che non c’era.

Li vide avvicinarsi sempre di più, a velocità vertiginosa. Qualcuno gridò qualcosa, e le linee nemiche si riempirono di lampi giallastri. Qualche cavaliere cadde, rotolando nella neve, ma la salva era stata tirata troppo di fretta e troppo disordinatamente perché potesse avere qualche effetto.

Il terreno scompariva davanti a lui a velocità esorbitante, divorato senza sosta da quel mostro gigantesco fatto di cavalli, uomini e gloria.

Non ci volle che qualche secondo. E infine, con uno schianto che fece tremare il terreno, i diecimila cavalieri impattarono contro le linee russe.

Dastan non ebbe neanche occasione di vibrare qualche colpo: i fanti ruppero le righe, fuggendo disordinatamente, cercando scampo ne piccolo bosco che si trovava appena a qualche centinaio di metri alla loro destra. Ad un certo punto credette pure di udire Charles urlare «Adoro quando scappano!», ma non ne ebbe la certezza.

Il suo sguardo si soffermò su uno sparuto gruppo di soldati che si stringevano attorno alla bandiera del reggimento: una mezza dozzina di Ussari gli girava intorno, cercando di sottrargli il prezioso stendardo.

All’improvviso, il vento cessò di colpo. La bandiera smise di garrire al vento, afflosciandosi sull’asta.

Fu un attimo. Un fulmine a ciel sereno trafisse Dastan.

Fra gli alberi, fino a quel momento nascosta alla sua vista dalla bandiera, c’era una ragazza. Alta e pallida, capelli corvini e occhi blu, indossava un lungo ed elegante vestito rosso. Era una presenza così fuori luogo da risultare decisamente inquietante.

"Sono gli spiriti della foresta. Sono inquieti."

Le parole del tetro Bernard gli tornarono alla mente. Possibile che quella ragazza fosse...

...uno spirito?

Dastan non dovette attendere molto per avere la sua risposta. Alle spalle della ragazza, avanzando quatto quatto comparve un grosso Dragone. Lei non sembrò essersene minimamente accorta: guardava rapita verso il campo di battaglia.

Dastan provò a gridargli qualcosa, ma la sua voce si perse nel caos generale.

Il Dragone si alzò in piedi. Era una bestia, alto più di Montgros.

Un orso in giubba verde.

Con la rapidità di un fulmine, il soldato afferrò la ragazza, mettendogli una mano sulla bocca e la spada sulla gola. Gli occhi della ragazza si spalancarono, sprofondando nel terrore. Era uno sguardo di angoscia così puro che Dastan sentì uno spuntone di ghiaccio lacerargli il cuore.

Poi il vento si alzò di nuovo e la ragazza scomparve.

Una pallottola gli sfiorò il gomito. La mente tornò alla battaglia, e Dastan si vide improvvisamente accerchiato. Una baionetta tentò di affondare nella sua gamba. Dastan deviò con la sciabola il colpo, spronò il cavallo e si aprì a suon di fendenti una via d’uscita, lontano dagli alberi e dai loro segreti. 

 

Terrore.

Le sconvolge l’anima, squassandogli il corpo e lasciandolo fiacco e tremante. Le ottenebra la mente, impedendogli di pensare. Sente solo il fetore del suo aggressore, e il suo respiro marcio e ansimante.

La lunga lama d’acciaio le preme sulla gola. Non osa muovere un muscolo, ma anche volendo non ci potrebbe riuscire. La sua linfa vitale è scomparsa, fuggita via da quell’essere malvagio.

«Ciao, bellezza. Cosa ci fa un bocconcino simile in un posto così pericoloso?»

La sua voce è ruvida e secca come un tronco morto. Un nuovo spasmo di terrore la travolge, macchie violacee si addensano ai lati del suo campo visivo. Si sente mancare. Si ritrova a pensare con piacere all’eventualità di svenire.

«Sì sì, un posto pericoloso. Ma fortunatamente ci sono qui io. Ti proteggerò io, mia principessa, oh sì...»

La neve ha smesso di cadere. Se n’è andata via. L’ha lasciata sola.

Si sente morire, e prega che quel mostro la faccia finita il prima possibile.

«Ti proteggerò io. E tu mi sarai riconoscente, come solo le brave ragazze sanno fare...»

«Ehi Gaspard, che succede?»

Tre uomini sbucano dal folto della foresta. Hanno giubbe verdi, e un minaccioso copricapo con una lunga coda di cavallo nera. Se non fosse terrorizzata, troverebbe la cosa buffa, quasi divertente.

Si sente travolgere dal sollievo. Quegli uomini sono qui per salvarla, ne è certa.

«Ma guarda un po’ cosa abbiamo qui» dice uno dei nuovi venuti, quello che ha un grosso sfregio sulla guancia destra. «Dove hai trovato questo gioiellino, Gaspard?»

«Era qui, guardava la battaglia. Un vero colpo di fortuna.»

«Già, Gaspard, un vero colpo di fortuna». I tre uomini si avvicinano a lei. I loro sguardi non sono benevoli. Hanno gli occhi di lupi che si portano controvento, per non allertare i cervi con il proprio odore.

«Ricordi il patto che abbiamo fatto, Gaspard? Il bottino va diviso equamente...» l’uomo sfregiato fa saettare la lingua, come un grosso e pallido rettile.

Sente il suo ghermitore irrigidirsi. «Va bene. Ma la voglio prima io. Non voglio rischiare che me la roviniate.»

«Come vuoi, Gaspard... basta che respiri.»

La presa sul suo collo si allenta. Per un breve, folle attimo, crede che il suo rapitore la voglia liberare. Poi una violenta spinta la fa cadere a terra, a faccia in giù sulla neve.

«Vediamo che cos’hai sotto questo bel vestitone...»

«Sì, facci vedere...»

Sono voci cattive, pregne di una sconcertante malvagità. Quegli uomini vogliono qualcosa da lei, ma non sa cosa.

Quando lo capisce, un brivido freddo le gela la spina dorsale, mentre una scossa le fulmina il cuore. Sa come funziona la riproduzione delle specie, ma tutto questo... è qualcosa di terribilmente sbagliato.

Chiude gli occhi, mentre grosse lacrime le bagnano il volto. Le mani sudicie della bestia che l’ha presa la afferrano. E’ la fine.

Nel pieno dello sconforto e della disperazione, lancia un’ultima, disperata preghiera alla foresta, la sua protettrice, sua madre.

Gli alberi sembrano prendere fiato per annunciare il loro verdetto. Ma qualcosa li interrompe.

Non ha il tempo di capire cosa

 

Quattro uomini. Tre, più il gigante accovacciato sopra la ragazza.

La mente di Dastan lavorava a velocità frenetica. In un istante, aveva già deciso cosa fare.

Estrasse le sue due pistole, le puntò contro i tre Dragoni in piedi e fece fuoco. Due cavalieri si accasciarono a terra, uno ferito al petto e l'altro alla spalla, mentre il terzo, illeso, li guardava cadere stupefatto.

Dastan lanciò le pistole per terra: dopo un colpo andavano ricaricate con una procedura lenta e penosa, e lui non aveva tempo per farlo. Liberò i piedi dalle staffe e li appoggiò sulla sella. Poi, con un secco colpo di reni, si lanciò in aria, verso il Dragone rimasto in piedi.

Stupito da quell’imprevedibile quanto spettacolare mossa, il cavaliere non riuscì a reagire in tempo. Dastan atterrò alla sua destra, rotolò sulla neve, e rialzandosi estrasse la sciabola, tracciando un elegante fendente nell’aria gelida.La lama ricurva attraversò senza sforzi il polpaccio del Dragone: l’uomo cade a terra urlando, stringendosi la gamba.

Come una furia, Dastan si girò verso il suo ultimo avversario.

Ora a noi due, maledetta bestia.

Fu in quel momento che si rese conto di aver commesso un tragico errore.

Il gigante gli puntava contro una pistola.

No.

Con un ghigno selvaggio, il Dragone premette il grilletto.

Uno sbuffo di fumo, una fiammata, uno scoppio. Ma Dastan non venne colpito.

Strizzò gli occhi, stupito, chiedendosi perché fosse ancora vivo.

 

La risposta era a qualche metro da lui, avvolta in un elegante vestito rosso. Teneva tutte e dieci le dita serrate sull’impugnatura della pesante spada del Dragone, immersa nel fianco dell’uomo.

Il bestione lasciò cadere la pistola. Il grosso testone ruotò verso la ragazza, fissandola con odio. Poi, come un enorme menhir, il cavaliere cadde a terra, morto.

Dastan corse verso la ragazza, prostrata a quattro zampe per terra. Ansimava violentemente.

Si inginocchiò davanti a lei, sollevandole il mento. «Sta’ tranquilla, è tutto finito. Ti porto al sicuro.»

Vide i suoi occhi spalancarsi dal sollievo. Un timido, lieve sorriso sbocciò sul suo volto.

«Tranquilla, ci sono qui io. Sei al sicuro, adesso. Come ti chiami?»

Diamine, ho salvato una donzella in pericolo. Mi merito come minimo un bacio. 

Il volto pallido della giovane donna si avvicinò al suo. Il cuore di Dastan prese a battere come un tamburo. Si perse in quegli occhi, così intensi, così innocenti, così incredibilmente, immensamente blu. Sempre più grandi, sempre più vicini...

Poi la ragazza emise un singulto strozzato, gli vomitò sulla giubba e si accasciò a terra, svenuta.

Dastan rimase immobile per qualche secondo, come se aspettasse ancora di sentire le labbra della ragazza sulle sue. Poi, con un gemito di rassegnata disperazione, si alzò in piedi, imprecò sonoramente e con un fischio richiamò il suo cavallo.

«Poteva dire qualcosa, poteva fare qualcosa, poteva… tutto, ma non questo!» esclamò rivolto a Principe, che gli si era accostato mansueto. Con un grugnito, issò la ragazza sulla groppa del cavallo. «Maledizione. Ma che cosa gli faccio io alle donne?»

Il cavallo sbuffò, facendo vibrare le froge e agitando leggermente la coda.

«Certo, perché tu sei un grande conquistatore, invece» ribatte il Cacciatore, prendendolo per le briglie Principe.

Improvvisamente, una folata di vento gelido lo fece rabbrividire, portando con se’ uno strano mormorio. Somigliava inquietantemente... ad un sussurro.

Si girò di scatto. Nessuno.

I tronchi degli alberi si accalcavano uno dietro l’altro fino a confondersi in un’indecifrabile oscurità.

C’era qualcosa, lì dentro. Qualcosa che a Dastan non piaceva per niente.

Quindi, con tutto il rispetto, io me la filo di gran carriera.

«Forza Principe, andiamocene.»

Il cavallo non se lo fece ripetere due volte, e cercando disperatamente di ostentare sicurezza portò il suo padrone e quella strana ragazza fuori dalla foresta.

 

 

 

 



NOTE DELL'AUTORE (O L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA): Nonostante abbia una grande passione per l'epoca napoleonica, raramente ho scritto qualcosa al riguardo. Forse perchè, siccome mi piace molto, ho paura di scrivere qualcosa di approssimativo o inesatto. Questa volta, però, ho deciso di fare un tentativo, anche perchè questo non è un romanzo storico e posso permettermi qualche libertà.

La battaglia di Eylau fu combattuta l'8 febbraio 1807 (non crediate che lo sappia a memoria, non rammentavo neanche l'anno) e fu un gran casino: morti di freddo e mezzi accecati dalla tempesta di neve, i francesi finirono per spararsi anche fra di loro (fu il caso delle due divisioni del maresciallo Augerau, il quale era pure malato, che si persero nella tormenta e finirono dritte davanti ai cannoni russi, che ne fecero scempio; come se non bastasse, furono cannoneggiate da dietro anche dai loro compatrioti, che non li avevano riconosciuti per via del tempo decisamente schifoso). Nella cittadina di Eylau, sventrata dai cannoni, si combatteva senza quartiere, casa per casa: ad un certo punto, lo stesso Napoleone venne quasi catturato dai russi. Verso mezzogiorno la situazione era critica: Napoleone decise di affidare il tutto per tutto al maresciallo Murat (famoso per il suo folle coraggio e per l'intelligenza di un comodino: l'imperatore soleva dire che il suo intelletto era come quello "dell'ultimo tamburino"). Diecimila settecento cavalieri (diecimila! Voglio dire, i cavalieri di Theoden erano meno di seimila lance e sembrano un'infinità nel film) piombarono sui russi e li travolsero senza pietà, ribaltando l'esito della battaglia. Fu la più grande carica di cavalleria di tutte le guerre napoleoniche, e di certo la più spettacolare: non credo di essere riuscito a trasmettere la magnificenza e l'esaltazione di quel momento, ma spero di aver tirato su qualcosa di decente.

Ok, ho parlato troppo. Insomma, tutto lo sproloquio è per dire che la battaglia di Eylau è esistita veramente, così come è esistito il tredicesimo cacciatori a cavallo. Non so se la cavalleria di riserva fosse a destra dello schieramento, ne' se ci fosse una foresta nei pressi. Ma il rigore storico non fa certo parte della nostra storia (voglio dire, una ragazza gira per i boschi con un vestitone rosso), perciò mi sono appena reso conto che di tutto quello che ho detto non ve ne frega una mazza. Grazie a Dio sto scrivendo e potete saltare questo pezzo a piè pari.

Perciò inchini e riverenze, e al prossimo capitolo!
  
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