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Autore: Blacksie    22/09/2013    2 recensioni
Cosa può cambiare profondamente una persona fino a farla diventare "pericolosa"? Cosa può far scaturire la pazzia che ognuno di noi ha dentro? Edgar lo sa bene. È stato vittima dei conflitti interiori della sua anima per tanto, tantissimo tempo. Gli intrecci che collegano una persona sana e razionale ad un folle omicida verranno finalmente mostrati in ogni singolo terrificante dettaglio.
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Sembrava un giorno come un altro. La sveglia suonò, avvertendomi che era il momento di alzarsi e prepararsi per la scuola. Come gli altri giorni, sarebbe stato un inferno. Non sono ben visto in classe. Forse perché sono più intelligente degli altri, forse semplicemente perché sono “diverso”. Chissà. Il mio nome? Non ne ho uno specifico. All’anagrafe risulto Edgar P. Jones. Per mia madre sono solo “Idiota”. Per le mie sorelle “Seccatura”. Per i compagni “Nano”, “Secchione”, “Rompipalle” e, più recentemente, “Crow”. I motivi dell’ultimo soprannome sono ben semplici. Il primo è un riferimento al mio nome, così simile a quello dello scrittore Edgar Allan Poe, che scrisse il racconto “Il corvo”. Il secondo è per il mio aspetto e così per il carattere. Occhi rosso scuri, con alcune striature nere, un colore davvero insolito per un ragazzo; capelli neri “corvini” molto corti, pelle pallida, come se non vedesse mai la luce del sole, e diversi tagli che attraversavano viso e braccia. Mi piace indossare dei maglioni enormi, così da coprire le braccia e le mani, che tanto odio a causa degli sfregi che le segnavano. Odiavo la gente. Non qualcuno in generale, ma tutti. Era per colpa loro che adesso avevo tutti quei tagli e quei graffi. Non li avrei mai perdonati per avermi fatto questo. Ogni squarcio, ogni cicatrice mi ricordavano i loro insulti, le loro prese in giro, le loro risate.

“Ma un giorno sarò io a ridere, oh sì!”

Questo pensiero rompeva quasi sempre il filo dei miei discorsi mentali così articolati. Io non sono cattivo, non sono pazzo, sono perfettamente lucido… Eppure, perché spesso mi veniva così voglia di ucciderli? Squartarli, impiccarli con le loro stesse budella, tagliarli a pezzetti così piccoli da essere irriconoscibili…

“Ma cosa mi viene da pensare?! Uccidere qualcuno è un crimine! Sarà solo la rabbia che ho accumulato…”

E così proseguiva la giornata. Monotona. Senza vita, spenta. Un po’ come me, hehe. Finalmente le lezioni finirono, accompagnate dal suono di quella irritante campanella. Come ogni altro giorno, avrei preso le mie cose, avrei messo lo zaino sulle spalle, e sarei tornato a casa a piedi, con naturalezza, in silenzio. Purtroppo però quel giorno il destino non volle assecondare le mie decisioni. Infatti, non appena mi avvicinai ai gradini che portavano verso l’esterno, ricevetti una forte spinta, che mi fece rotolare per mezza rampa di scale. Sentii le risatine dei miei compagni, che si beffavano di me, con frasi del tipo: “Oh guarda, il corvo non sa volare!” e altre simili. In quel momento sentii una forte rabbia, una di quelle sorde, che ti crescono proprio da dentro il cuore. Sfortunatamente, a causa della mia minuta costituzione, quel poco che potei fare fu alzarmi e cercare di colpire il ragazzo più vicino a me, fallendo miseramente. Infatti, quello mi bloccò dal polso e mi buttò nuovamente per terra, ferendomi al fianco e strappandomi buona parte del maglione.

“Cerchi rogne, bastardo? Cosa credevi di fare, eh?!”

Cominciai a tremare lievemente, temendo che mi avesse fatto dell’altro. Fortunatamente non fu così. La folla cominciò a scemare, evidentemente non erano più interessati ad uno come me. Nel giro di una ventina di minuti rimasi solo e potei rialzarmi, pronto a tornare a casa. Guardai il cielo. Il sole stava per tramontare, e il momento che di più preferivo stava per arrivare. Il momento di andare a letto, quando il sole sparisce, il cielo diventa un’enorme chiazza nera e indistinta, un infinito quadro interamente nero che nasconde qualunque cosa, anche le cose meno volute. E in quel momento i sogni cominciavano ad invadere la mia mente. La notte, mia madre chiudeva a chiave la porta della mia camera. La inquietava ciò che accadeva ogni notte. Mentre sognavo milioni di scene sanguinose, il mio intero corpo esplodeva in risate malvagie e profonde, che riempivano l’intera casa, terrorizzando le mie sorelle e mia madre stessa. Riuscivo a sognare in ogni minimo particolare come uccidere chi volevo uccidere, e riuscivo sempre a farla franca!

Tornai finalmente a casa. Mia madre mi sgridò per essere tornato più tardi del solito, neanche facendo caso al sangue che usciva copioso dalla mia schiena o la manica del maglione lacerata. La ignorai, come di consueto, ed andai nella mia stanza, senza nemmeno cenare. Aspettai che il momento tanto atteso arrivasse, che il sonno mi avvolgesse e mi portasse a fare splendidi sogni sanguinolenti. Quella sera però, per opera del fato o di una felice coincidenza, mia madre dimenticò la porta della mia stanza aperta. Inizialmente non ci feci caso, mi limitai a restare a letto, cercando di prendere sonno. Finalmente ciò che aspettavo da tutto il giorno arrivò. Sognai le mie sorelle, che mi prendevano in giro, ridevano di me perché ero stato picchiato, dicendo che ero inutile. E così le squartai, mentre dormivano, chiudendo la porta della loro camera a chiave. Prima le braccia, con dei tagli lenti e profondi, facendole soffrire ancora di più, sentendo le loro grida, così mostruose, così eccitanti. Poi le gambe, velocemente, con dei tagli netti, ed infine i loro ventri, cominciando a giocherellare con le loro interiora, attorcigliandole, creando dei fiocchi e ridendo. Quel sogno sembrava così reale, così nitido, riuscivo a sentire l’odore, il sapore e la consistenza del loro sangue in tutto il corpo. Mi sentivo più sveglio che mai. Quando avvertii il dolore sulla mano, causatomi toccando una delle costole della sorella minore, capii di essere realmente sveglio. Inizialmente, sul mio volto si dipinse un’espressione terrorizzata, ma pian piano il mio terrore svanì, sostituito da una gioiosa follia, che mi spinse a continuare a torturare la mia sorellina agonizzante. L’altra era già morta dissanguata da un pezzo. Sentivo il corpicino della piccola sotto di me, sempre più freddo, morente, e risi in maniera orripilante. Poi sentii i passi di mia madre nel corridoio. Evidentemente si era accorta dell’errore compiuto. Non appena vide la porta della mia stanza spalancata, gridò e corse in quella delle figlie ormai morte, bussando alla porta come una forsennata. La sentii vomitare, probabilmente aveva visto l’immenso quantitativo di sangue che fuoriusciva da sotto la porta.

“Beeene, finalmente la mia vendetta potrà essere completa!”

Risi, per poi alzarmi ed aprire la porta, lentamente, guardando mia madre e ghignando.

“Ciao mammina, cosa desideri?”

“TU MOSTRO!”

Sentii solo questo grido provenire dalle labbra di mia madre, prima che la rabbia prendesse nuovamente il sopravvento. La scaraventai contro il muro, per poi piantarle il coltello dritto in gola. La sentii agonizzare, gemendo dal dolore con le poche forze che le rimanevano. Presi un altro coltello che, a quanto pare, avevo preso nel mio sonnambulismo e cominciai a farle tanti piccoli graffi sulle braccia e sulle mani, così simili ai miei, mentre pian piano canticchiavo.

“Vedi mamma? È così che ci si sente quando ti trattano male… È doloroso vero? Certo che lo è. Ma non preoccuparti, presto finirà tutto!”

Cominciai a ridacchiare, continuando a canticchiare “London Bridge Is Falling Down”. Mi era sempre piaciuta quella canzoncina, era dolce ed inquietante, proprio come me! Pian piano, cominciai a praticare dei tagli sempre più profondi nella carne della mia “adorata mammina”, finché essi non divennero squarci, sempre più irregolari, sempre più profondi, alcuni con il coltello, altri semplicemente con le mie lunghe unghia. Purtroppo, la mia gioia venne interrotta dal suono delle sirene in avvicinamento, simbolo che la polizia stava per arrivare. A quanto pare, non appena aveva trovato la camera vuota, mia madre aveva chiamato la polizia. Molto astuto, seppur inutile. Finii il mio lavoretto, pugnalandola al cuore. Con gli ultimi minuti che mi rimasero, scrissi con il sangue di mia madre un’unica parola sul muro, per poi sparire nella notte.
“Crow”.
Riuscii a farla franca anche stavolta, ed indovinate un po'? Adesso nessuno mi prende più in giro, eheh!
   
 
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