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Autore: Medea00    23/09/2013    6 recensioni
Raccolta in cui sono contenute tutte le OS che ho scritto per le Seblaine Sundays e l'iniziativa domeniche a tema, organizzata dal gruppo Seblaine Events. Tutti i rating e i generi che mi passano per la testa.
23/06: Supernatural!AU
30/06: Babysitting
21/07: Dystopic!AU
1/09: Aeroporto
15/09: Magia
22/09: Literature!AU
6/10: 4 canzoni del tuo Ipod
20/10: Raffreddore
27/10: Scommessa
17/11: Esame andato male
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Blaine Anderson, Sebastian Smythe | Coppie: Blaine/Sebastian
Note: AU, Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events .



 

AVVERTENZE: Questa è la seconda e ultima parte della ff North and South (per intenderci, il capitolo precedente di questa raccolta). Potevo fare di meglio, ma annego comunque nei feels. Rinnovo il mio invito a leggere il libro o guardare lo sceneggiato. Enjoy!






 

Appena Blaine fu tornato a casa, venne assalito di domande dai genitori. Erano preoccupati, ovviamente: in una città piccola come Norfolk le voci giravano, specialmente quando non c’era molto di cui parlare.
Chiesero a Blaine dove fosse stato, cosa fosse successo, come diavolo gli fosse saltato in mente di immischiarsi in una cosa più grande di lui, e che non lo riguardava. Non aveva molta voglia di rispondere ai loro interrogatori, sapeva bene che era la loro preoccupazione a parlare, e non il loro cuore; con la scusa di essere davvero molto stanco, riuscì a rimandare tutti i discorsi, per salire in camera e chiudersi dentro fino all’alba successiva.
La testa gli faceva male, le gambe erano pesanti, il cuore gli martellava nel petto ma aveva l’impressione che non fossero collegati ai ricordi della folla urlante, quanto del ragazzo che aveva impulsivamente tentato di proteggere.
Quando scese di camera, il giorno dopo, era ora di pranzo. Si sentiva un po’ meglio dopo aver pianto e riposato un po’, e quasi non si scompose quando scoprì che quel vaso di fiori appoggiato sul tavolo appartenesse a Sebastian.
“È stato così gentile a passare”, cinguettò la madre, seduta sulla poltrona con vestaglia e coperta sulle gambe. Non migliorava molto, ma c’erano giornate, come quella, in cui il suo buon umore era un vero toccasana per tutta la famiglia, e la malattia sembrava un po’ più lontana.
“Con tutte le cose che ha da fare, si è preoccupato anche di darmi un mazzo di fiori e il numero del suo medico di famiglia.”
“È una brava persona”, confermò il padre, “Ma sembrava un po’ stanco. Spossato. Spero che questo sciopero non gli causi troppi problemi.”
Blaine si rifiutava di partecipare alla conversazione. A dire il vero, sperava soltanto che non venisse interpellato in nessun modo; tuttavia non riuscì a chiedersi se parte della sua stanchezza non fosse dovuta a quella conversazione tra loro due.
Ma no, probabilmente era solo lavoro.
“Blaine?” La voce soave di sua madre lo fece voltare. “Tu e Sebastian siete diventati amici, non è così? Potresti passare da lui e ringraziarlo da parte mia?”
Blaine stava indossando il soprabito, mentre ascoltava la madre. Si fermò con il corpo immobile e rigido, interrotto a metà dell’azione.
“Credo che i tuoi ringraziamenti di stamani bastino e avanzino, mamma.”
“Ma tesoro, non ho avuto nemmeno modo di offrigli qualcosa da bere o mangiare. È scappato via dopo un minuto...”
Forse perchè non voleva vedermi, pensò lui, quindi non credo proprio che andare lì a ringraziarlo sia una buona idea.
“Adesso non posso mamma, stavo uscendo.”
Mormorando delle scuse poco convinte, salutò i genitori avvisandoli che sarebbe tornato per cena, e andò da Sam.
 
 
“Sparisci! Sei solo un idiota. Hai rovinato non solo noi, ma anche la tua famiglia, e con le tue stesse mani!”
Blaine capì quasi subito di essere arrivato al momento sbagliato.
Sam stava buttando fuori di casa sua Stephens, senza il minimo garbo. L’uomo esitava, mormorava qualcosa di sconnesso, forse stava imprecando contro Sam, ma non riuscì a capirlo bene. L’unica cosa che Blaine vide, fu il suo miglior amico scaraventare oltre la porta quell’uomo, che scappò via sparendo dietro l’angolo della strada.
Sam era visibilmente scosso. Era stato il leader dello sciopero, non aveva mai pensato che potesse fallire, nemmeno per un secondo; adesso, invece, tutti quanti erano tornati ai propri posti di lavoro. Le loro condizioni, se possibile, erano peggiorate giusto un po’ di più: erano accompagnati da una tiepida rassegnazione di chi sa che non può fare più niente, nemmeno sperare che, un giorno, la loro vita sarebbe migliorata.
Il suo amico si accorse della sua presenza poco tempo dopo.
“Blaine”, lo chiamò, stupito, ma nemmeno troppo. “Non ti avevo visto. Entra pure amico.”
Poteva davvero entrare? Poteva continuare con quelle visite amichevoli, osservando inerme l’unico suo amico mentre si rovinava con le sue stesse mani? Blaine non si era mai permesso di discutere di politica, o di affari, con Sam. Forse, era proprio per quello che erano così amici; ma erano cambiate tante cose da quel primo giorno, era passato metà anno, l’inverno aveva lasciato spazio a una fresca primavera che aveva fatto scomparire gli ultimi strati di neve, e si respirava aria di cambiamenti. Se non positivi, comunque, doveva evitare che ne accadessero di negativi.
“Non volevo farti assisstere a quella scena”, gli disse Sam, dopo avergli passato la sua solita tazza scheggiata. “Comunque, come va con la testa?”
“Bene. Era solo una ferita superficiale.” Non voleva giustificare quell’uomo: era stato il suo aggressore, dopotutto. Eppure, in due volte che lo aveva incrociato, lo aveva visto essere trattato male da due persone differenti. Com’era possibile? Non gli sembrava una persona così degna di essere maltrattata, nessuno lo è.
Provò a dirlo a Sam, calibrando con attenzione tutte le parole, e l’unica risposta che ottenne fu un borbottìo gutturale, accompagnato da una mano premuta sul tavolo.
“Quel tizio è sempre stato e sempre sarà un idiota. Non devi aver pena di lui, Blaine: ti ha tirato una pietra, ha fatto fallire lo sciopero e ho saputo che mesi fa ha quasi fatto incendiare l’azienda di Smythe. Non capisco come mai nessuno non se la sia ancora presa con lui.”
Blaine ebbe un leggero sussulto quando sentì pronuciare il cognome di Sebastian.
“Mi hanno detto che non voleva davvero accendere un fuoco nella fabbrica. Da quanto so, voleva solo fumare una sigaretta.”
“Fumare una sigaretta in mezzo a tessuti e macchinari altamente infiammabili? Se piazzava una bomba nelle fondamenta sarebbe stato meno pericoloso.”
“Sì ma”, tentò di controbattere, “Ma Seb-Smythe quel giorno l’ha picchiato a sangue...”
“Ha fatto bene. Era la terza volta che fumava al lavoro”, decretò con veemenza Sam, “Per quanto ne so, Smythe è stato anche troppo paziente a sopportarlo per tutto quel tempo. Ha visto morire tre dei suoi uomini –miei amici-  per colpa di una sigaretta non spenta bene. Da quel momento in poi ha aumentato le condizioni di sicurezza di tutta la fabbrica ed è diventata la più stabile di Norfolk. E bada bene, non ti sto dicendo che mi sta simpatico, è un industriale ed è viscido come tutti gli altri. Però, se dovessi scegliere con quale nemico battermi, beh posso dire che sceglierei lui.”
In quel momento, il fratellino più piccolo volle mettersi in braccio a Blaine: si chiamava Thomas, era biondo proprio come il fratello maggiore, aveva una passione per il Piccolo Principe e tutti i libri che parlassero di un eroe in miniatura. Blaine passava le ore a leggere con lui, suggerendogli le parole più complicate da pronunciare.
Insieme a molti libri, Blaine portava sempre un cestino da pic-nic pieno di cibo, che i bambini assalivano al primo momento. All’inizio Sam era offeso da quella che lui chiamava elemosina, ma Blaine con il tempo lo aveva convinto ad accettare quel piccolo aiuto per piccoli: non voleva sminuire l’autorità del ragazzo, ma non riusciva a sopportare la vista di sette bambini affamati.
“Sam... stai lavorando, ora?”
Lo vide scuotere la testa con riluttanza.
“Chi mai assumerebbe l’ideatore di quello sciopero? E poi no, mi rifiuto di andare a supplicare un posto. Piuttosto, preferisco morire di fame.”
Non era l’idea migliore che potesse avere; non tanto per lui, ma per quei bambini che adesso stavano pregando Blaine di cantare loro qualcosa.
 
 
Blaine tornò a casa per ora di cena. Aveva comprato un nuovo gomitolo per i ferri di sua madre, visto che adorava passare il tempo creando maglioni e cappellini per il figlio. Con sua grande sorpresa, però, anche suo padre era in salotto intento a leggere il giornale.
“Niente lezioni private per oggi?”
“Oh, non credo. Sebastian mi ha telefonato dicendo che è davvero molto impegnato con il lavoro, e che per un periodo non potrà più seguire gli studi.”
“... Oh.”
Forse era vero, no? Forse aveva delle cose da fare e non poteva venire.
Non c’entrava assolutamente nulla il fatto che il giorno prima si fosse dichiarato a suo figlio e quest’ultimo gli avesse detto che non lo avrebbe mai amato.
“Blaine? Tutto bene? È da ieri che sei strano.”
“Io? Certo. Sto benissimo. Perchè dovrei star male? Va tutto a meraviglia. Ho dimenticato una cosa in camera.”
“Ma non sei nemmeno salito, in camera!”
“L’ho dimenticata... prima di uscire.”
Fece le scale a chiocciola a due a due, per poi chiudersi la porta alle spalle ed emettere un profondo sospiro.
 
 
Blaine non vide Sebastian per più di un mese.
Era incredibile come una città così piccola, in cui incontravi tutti a prescindere dalla tua volontà, e le notizie volavano più veloci della cenere, fosse diventata improvvisamente grande, immensa e solitaria.
Nonostante fosse primavera, e i cappotti pesanti erano stati abbandonati per giacche più leggere, il sole continuava a comparire e sparire tra le nuvole quando gli pareva, e con lui si alternavano gli umori dei cittadini. Le condizioni economiche non erano migliorate, ma la buona stagione aiutava. Gli imprenditori erano chiusi nella loro bolla di cristallo e si rifiutavano di comunicare con tutti quanti.
Sam aveva quasi terminato gli ultimi risparmi rimasti; se non fosse stato per l’aiuto di Blaine, probabilmente, sarebbero terminati molto prima.
Era così che si andava avanti a Norfolk: giorno per giorno, chiedendosi come sarebbe stato il turno quella volta, se avrebbe piovuto, se ci sarebbe stata della carne commestibile al mercato . L’altra parte, invece, ostentava i loro giardini perfettamente curati con cene e feste private, mostrando innovazioni che ancora riuscivano ad affascinare molte persone: il telefono, l’automobile, il vinile, la televisione.
Gli Anderson erano stati invitati ad alcune di queste cene, ma ci andava soltanto il padre. Blaine preferiva restare a casa, un po’ per stare con sua madre, un po’ per paura di incontrare Sebastian in un luogo chiuso, dal quale non poteva scappare.
Ma poi, perchè doveva scappare da lui?
Forse perchè non faceva altro che pensare a quel giorno? Forse perchè si sentiva sempre più in colpa?
Non riusciva a capire bene cosa gli stesse succedendo. L’unico momento di lucidità lo ebbe un pomeriggio, quando si stava avviando a casa; vide Sebastian dalla parte opposta della strada con un libro in mano e l’aria assorta in chissà quali pensieri. Stava andando a lezione da suo padre? Ne sarebbe stato molto felice. Gli avrebbe offerto di restare a cena, e Sebastian avrebbe fatto commenti pungenti e ironici su come il loro giardino assomigliasse più a un campo di lacrosse.
Il fatto di non averlo visto da tanto tempo fece pensare a Blaine cose mai avverite prima: tipo, che Sebastian stesse molto bene in blu, o che avesse davvero un fisico alto e asciutto.
E quando i loro sguardi si incrociarono, per sbaglio, o perchè Sebastian si sentiva osservato, o perchè Blaine sperava che lo guardasse di rimando, entrambi si fermarono esattamente dove erano. Il marciapiede era attraversato da altre poche persone, ma, come sempre a Norfolk, ognuno badava soltanto a se stesso.
Non si accorsero degli occhi espressivi di Blaine mentre cercavano di dirgli qualcosa, silenziosamente: resta. Non andare. Mi dispiace.
Forse erano quelle le parole. Sebastian non lo avrebbe mai scoperto; si voltò dall’altra parte, e camminò lontano da casa Anderson.
 
 
Il destino volle che si incontrassero una seconda volta, a distanza di soli pochi giorni.
Blaine era andato a New York esortato dalla madre: c’era una mostra interessante che si ripeteva ogni anno, un expo di innovazioni all’ultimo grido e di animali esotici che attiravano sempre l’attenzione delle masse.
La madre aveva insistito tanto perchè partisse per qualche giorno, raggiungendo i suoi amici di New York, e si godesse un po’ di vacanza in quella grande città. Blaine non se la sentiva di lasciarla sola, specialmente visto quanto fosse cagionevole, ma non ci fu modo di farla ragionare. Così, una mattina, era arrivato alla stazione di New York e venne assalito da Rachel, Tina, Marley, Wes e suo fratello, degli amici di Brumswick che da anni si erano trasferiti lì.
Era sempre bello vedere dei volti amici. Blaine si sentì giovane e felice per la prima volta dopo mesi.
La mostra, poi, riesumò tutto il lato infantile nascosto in lui: guardò cose, si sorprese ad ogni minimo effetto, rise di fronte a invenzioni strane che gli altri definivano geniali e provò un nuovo gusto di gelato color blu elettrico insieme a Marley.
La gente di New York era così alla moda, così frizzante, che Blaine venne automaticamente coinvolto in quella spensieratezza innocente, lasciando da parte il freddo di Norfolk, i problemi economici, quelli familiari e molto altro ancora. Indossò vestiti che non metteva da così tanto tempo, da averli quasi dimenticati: una camicia a quadretti bianca e verde, un papillion abbinato e dei pantaloni sorretti da bretelle, il tutto coperto da una giacca sottile. Tina gli disse che era diventato ancora più bello dall’ultima volta, che i lineamenti erano più maschili e i capelli più lunghi e riccioli, ma Blaine ne dubitava.
“Non ci hai ancora detto cosa fai lì!” Rachel lo prese a braccetto di fronte a un nuovo tipo di automobile, una con il cambio centrale che assomigliava quasi a un pomello di un bastone. Era così buffa, che Blaine continuò a fissarla come un bambino di fronte a un elefante, estremamente divertito.
“Non faccio molto, Rachel”, ammise quasi sovrappensiero, “Mia madre sta male, per la maggior parte del tempo mi occupo di lei.”
“Ma sei giovane, e sei un ragazzo, dovrai pur iniziare a fare qualcosa, no?” Intervenne Marley, di ritorno da un padiglione di nuovi cappelli insieme a Tina. Wes era a pochi metri da loro, ascoltando in silenzio con un sorriso: lui e Blaine erano amici di vecchia data. Si erano sentiti molto, in quel periodo, quindi erano tutte cose che lui sapeva già. Suo fratello Timothy, invece, sembrava più interessato al fisico di Blaine che alle sue parole.
“Lo so che dovrei trovare un lavoro... ma a Norfolk... è complicato”, spiegò, “Non sono i lavori che siamo abituati a fare. E poi, qualsiasi cosa facessi, mi sentirei... inutile.”
“Oh Blaine, smettila.” Tina gli accarezzò affettuosamente un braccio. “Non sei inutile. Sei un ragazzo brillante e buono, e loro sono troppo bigotti per capirlo.”
“Non sono... non sono così bigotti”, mormorò Blaine. “Hanno soltanto delle usanze diverse ma... se impari a conoscerli, sono delle che lavorano duro per la propria famiglia.”
“Cosa? Cosa sentono le mie orecchie? Blaine Anderson che difende i cittadini del nord?”
E nonostante le risate che giunsero subito dopo, nonostante perfino Blaine stesse sorridendo, sapeva bene che in tutto quello ci fosse un tremendo fondo di verità. E si spaventò da solo.
“A Norfolk ci sono un sacco di industrie vero?” Intervenne Timothy. “Wes, potremmo aprirne una anche noi, che ne dici?”
“Tu pensa a finire gli studi”, dichiarò il fratello insieme alle ragazze, ma Blaine arrossì nel momento in cui Timothy gli sorrise in modo più languido del necessario.
“A Norfolk non resisteresti un minuto! Vero Blaine?”
“Non è così male”, mormorò, prima di voltarsi per evitare di vedere le loro occhiate sospette.
“Tecnologicamente, siamo l’invidia del resto del mondo.”
Un momento.
Blaine si fermò di colpo, con il cuore che batteva all’impazzata. Conosceva quella voce.
“Adesso le macchine sono la vera manodopera del paese, dobbiamo convivere con la consapevolezza che dalla guerra mondiale in poi è cambiato tutto il nostro stile di vita.”
Sebastian Smythe era in piedi proprio dietro a un padiglione visitato prima, insieme a degli  uomini che avevano tutta l’aria di essere persone ricche, importanti, industriali forse, oppure potenziali finanziatori. Aveva una camicia chiara, una cravatta abbinata al completo scuro e di classe. Le luci dell’expo lo rendevano ancora più bello di quanto non fosse. Il suo sorriso era impostato, così come la sua voce, ma le parole che trasmettevano, quelle erano ciò che realmente pensava della sua economia e che Blaine non aveva mai sentito dire. Forse perchè non poteva parlare di teoria del capitalismo con i suoi operai; forse, perchè non c’era mai stato nessuno disposto veramente ad ascoltare.
“L’unica macchina che comprerei, però, sarebbe quella che mi permetterebbe di non licenziare i miei uomini e di migliorare il tasso di rotazione delle scorte.”
“La faranno mai?”
“Ma soprattutto, c’è qualcuno disposto a farla?” Scherzò uno dei signori, ma Sebastian non sembrò affatto divertito.
“Ne dubito. Dopotutto, basta vedere l’egoismo del nostro stesso Presidente per capire quanto gli uomini siano menefreghisti.”
“Parla così, Smythe, ma anche lei sta pensando al tornaconto della sua impresa.”
“Sto pensando”, ribattè, “Al fatto che gli unici investimenti mai adoperati siano per oggetti che nessuno sa ancora usare, come quella stupida macchina con il cambio che sembra un bastone da passeggio.”
Blaine, ormai completamente allo scoperto, a pochi passi da lui, trattenne a stento una risata.
“Invece di sollevare le imprese dopo quella guerra che nessuno voleva fare, ci stanno abbandonando a noi stessi senza nemmeno dei remi con cui nuotare.”
“Forse deve innovarsi anche lei, Smythe”, convenì un signore, pulendosi gli occhiali sottili con la montatura in oro. “Forse è un po’ troppo ancorato alla politica di suo padre, le pare?”
Sebastian esitò un secondo, mettendo una mano nella tasca dei pantaloni e sistemandosi la cravatta con l’altra, mentre si rivolgeva a quell’uomo con una padronanza tale da non lasciar nessuno spazio a qualsiasi tipo di dubbio.
“Vorrei innovarmi. Ho in mente un progetto che potrebbe essere la nuova rivoluzione industriale. Ma purtroppo non siamo tutti come a New York, dove non avete bisogno di combattere contro l’inverno e non avete metà popolazione che rischia di morire per strada. Sto pensando, signor Keynes, a un modello di produzione di massa esteso a qualsiasi tipo di settore. Un Fordismo globale.”
“Un Fordismo globale?!” Il terzo uomo scoppiò in una risata, “Si vede che è giovane, ragazzo. Lasci queste idee alla prossima generazione, e pensi a eliminare gli scioperi.”
“Non credo che ci riuscirò.” Non lo disse come una sconfitta personale, ma c’era qualcosa di triste, nel suo tono di voce. “L’estate forse scioglierà la loro amarezza, ma non smetteranno mai di odiarci. Hanno bisogno di un obiettivo per arrivare a sera, e se quest’obiettivo sono io, beh, tanto vale.”
Blaine lo guardava con occhi grandi e la mente pervasa da milioni di pensieri.
“Dopotutto, Blaine Anderson sa quanto siamo caduti in basso, noi industriali di Norfolk.”
Si voltarono tutti verso di lui, chi sorpreso di trovare un ragazzo ad origliare il loro dialogo, chi invece leggermente pensieroso, forse, per le parole che aveva detto Sebastian così bene.
Blaine, da parte sua, era paralizzato. Si chiese da quanto Sebastian lo avesse notato; si chiese se lo avesse visto prima, mentre faceva il giro dei padiglioni insieme ai suoi amici.
“Com’è che avevi detto?” Incalzò Sebastian, senza smettere di fissarlo. “Vedete, per lui noi siamo soltanto macchine, ragioniamo in termini di compravendita.”
Ah, ecco. Era quindi questo il suo vero scopo? Umiliarlo davanti ad altre persone per ottenere la sua piccola vendetta personale? Blaine assottigliò lo sguardo e non si era mai innervosito così tanto in così poco tempo, serrando la mascella e parlando a denti stretti.
“Non lo penso affatto invece. E se Smythe mi conoscesse almeno un minimo ve lo potrebbe dire lui stesso.”
Quando si voltò con l’intenzione di andare via, si sentì afferrare per un braccio e costretto a voltarsi velocemente.
“Una volta pensavo di conoscerti.” Sebastian era a pochi centimetri da lui, il respiro caldo sul suo viso, gli occhi verdi pieni di emozioni contrastanti. “Mi ero sbagliato.”
“Blaine! Ecco dov’eri finito!”
L’esclamazione squillante di Rachel fu abbastanza per farli allontanare di scatto.
“Ti avevamo cercato dovunque”, disse Wes, “Poi è difficile trovarti con tutte queste persone, visto che sei basso!”
“Ma grazie.”
“Non ci presenti il tuo amico?” Tina squadrò Sebastian da capo a piedi senza il minimo ritegno, tanto che Blaine non riuscì a capire se fosse gelosa di lui, o semplicemente pazza. Blaine guardò Sebastian con la coda dell’occhio: come poteva presentarlo? Erano amici? Erano conoscenti? Erano due persone che non avrebbero mai dovuto trovarsi nella stessa stanza?
“Sebastian Smythe”, esordì lui, stringendo la mano e ascoltando le presentazioni di tutti i ragazzi.
“Oh! Aspetta, tu sei quel Sebastian!”
“Wes.”
“Ma Blaine, non mi avevi parlato di quel ragazzo che-“
Wes.”
“Oh. Giusto. Certo. Ho capito, sto zitto.”
Sebastian stava guardando Blaine come se gli avessero appena detto che era una donna.
“Sei un amico di Blaine?” Intervenne Marley, con quella dolcezza che riusciva a sciogliere qualsiasi animo. “Ti va di andare a pranzo con noi? Stavamo giusto andando.”
Il “no” secco che arrivò dalle bocche di Blaine e Sebastian fu abbastanza per far capire quanto non dovessero passare ulteriore tempo insieme.
Il volto di Blaine era rosso porpora: “Voglio dire, lui ha da fare, giusto?“
Sebastian gli lanciò una lunga, lunghissima occhiata.
“Sì, ho una riunione con altre persone.”
“Oh”, fece Marley. “Che peccato. Sarà per la prossima volta?”
“Certo.” Disse Sebastian. Blaine aveva l’impressione che il continuo della frase fosse “Certo che no”.
“Se avete voglia di venire a Norfolk, siete i benvenuti.”
“Timothy voleva andarci”, sorrise Wes al fratellino, che li aveva appena raggiunti con i suoi capelli scuri e il fisico allenato. “Giusto Tim?”
Sebastian, tutto ad un tratto, guardò quel ragazzo con un’espressione nuova.
“E tu saresti?”
“Timothy Montgomery. E tu sei il famoso Sebastian Smythe. Da Norfolk con furore.”
Non è famoso, pensò Blaine, con le guance in fiamme. Diavolo, doveva smetterla di raccontare le sue cose a Wes, visto che le ripeteva al fratellino parola per parola. Inoltre, erano anni che Wes continuava a informarlo della cotta di Tim verso di lui e, beh, non era mai stata ricambiata. Blaine teneva gli occhi piantati sul terreno e sperava soltanto che tutto quello finisse presto.
“E sentiamo.” Sebastian infilò lentamente entrambe le mani in tasca. “Come mai vorresti venire a Norfolk?”
“Beh. Per andare a trovare Blaine, come prima cosa.” Sebastian fece un ghigno che poteva essere definito come omicida.
“E perchè mi piacerebbe dilettarmi nell’industria, sinceramente. A proposito, Blaine mi ha detto che potevo chiedere a te dei consigli.”
“Non saprei quale consiglio darti”, commentò acido, “Non ho idea di come ci si diletti nell’industria. Ma prego, voi continuate pure a parlare di gestire industrie come se fosse il monopoli, mentre io vado a fare del lavoro serio.”
Passò in mezzo a Marley e Blaine, e quest’ultimo avvertì un brivido freddo quando si sentì sfiorare la spalla.
 
 
“Blaine, prima di partire, devo chiederti una cosa.”
Wes e Blaine erano seduti su una panchina della stazione di New York, una leggermente isolata dalle altre, lontana dalla folla e dal rimbombo dell’altoparlante radiofonico. Avevano passato un bellissimo week-end, e Blaine provava una certa nostalgia all’idea di dover salutare i suoi amici, soprattutto Wes.
“Hai una faccia serissima”, scherzò Blaine. “Devo preoccuparmi?”
“Dillo tu a me. Hai una cotta per quel Sebastian?”
Sputò tutto il caffè nero con cacao comprato dieci minuti prima al bar.
“Cos-come? Cosa te lo fa pensare?”
“Blaine. Ti conosco come le mie tasche.”
“Non ho affatto una cotta per Sebastian. Come ti salta in mente? No. Ma proprio no. Hai visto che tipo è?”
“Non mi intendo di generi maschili, ma parlando da etero a gay, mi è sembrato un bel ragazzo.”
“No-voglio dire, sì, ma non intendevo dire-“
“Sì? Quindi trovi che sia un bel ragazzo?”
“Wes!”
Blaine affondò con la testa fra le gambe, lasciando stare quel caffè diventato sin troppo bollente per i suoi gusti. Di bollente aveva già la faccia e gli bastava. Parlò dopo diverso tempo, quasi mormorandolo.
“Lo sai che... che cosa è successo”.
“Sì, lo so che lo hai rifiutato in un modo assolutamente terribile e imbarazzante. Ma è successo tempo fa, no? Magari in questo periodo hai cambiato idea.”
“Non posso- non posso semplicemente cambiare idea, Wes, gli ho detto che non lo amo e che non lo avrei mai amato!”
“Blaine, sappiamo benissimo entrambi che la tua impulsività ti porta a dire - e fare - cose di cui ti penti automaticamente un minuto dopo.”
E aveva assolutamente ragione. Perchè Blaine aveva quell’idea, di Sebastian: di un uomo freddo, meschino e arrivista, disposto a tutto pur di non far chiudere la sua azienda e noncurante della vita o delle difficoltà degli altri. Ma poi c’era l’altro Sebastian, quello che andava a lezione da suo padre, quello che rimaneva a cena da loro e faceva battute stupide sul pollo della domenica; quel Sebastian che non smetteva mai di guardare Blaine, di sorridergli, di stringergli la mano per salutarlo, solo per avere un qualsiasi tipo di contatto fisico.
La mente di Blaine era esattamente indecisa a metà, e non aveva la più pallida idea di quale parte fosse quella vera.
Wes, mettendogli una mano sulla spalla, cercò di tirarlo di morale dicendo: “Non pensarci troppo. Se c’è una cosa che ho imparato, è che in queste situazioni devi lasciar da parte ogni pensiero razionale.”
 

“Beh, sicuramente avresti potuto essere più razionale quando-“
Io più razionale?

 
 
Per tutto il viaggio di ritorno Blaine guardò fuori dal finestrino, con la testa appoggiata al vetro e la voglia di abbandonarsi sotto alle coperte per il resto della sua vita. Ma ad attenderlo a Norfolk c’erano problemi più seri di un’indecisione d’amore. Quando tornò a casa, con la valigia sotto braccio, suo padre stava organizzando un funerale.
Susan Anderson si spense in una notte di primavera, con un sorriso sulle labbra mentre pronunciava i nomi dei suoi due figli.
Fu un funerale molto sobrio. Lei non avrebbe voluto cerimonie sfarzose. Il fatto di abitare lontani da amici e parenti, però, rese il tutto ancora più doloroso. Soltanto in pochi riuscirono a raggiungere Norfolk con così poco preavviso, e la piccola chiesa Madre era riempita di pochi amici di famiglia e gli amici di Blaine, seduti sulla panca dietro lui e suo padre. Sam e i suoi fratellini erano a poche panche da lui e cercarono di infondergli tutto l’affetto che riuscivano a dargli.
Sebastian entrò a cerimonia iniziata e restò in piedi, in fondo alla navata.
Guardò per diverso tempo la bara bianca posizionata sotto l’altare, mentre un prete di una religione che non gli apparteneva continuava a dire le classiche frasi di circostanza, che gli facevano soltanto venire voglia di uscire.
Restò lì per tutto il tempo.
Quando finì la cerimonia, salutò il padre di Blaine, abbracciandolo come se stesse confortando un suo caro amico.
Non andò da Blaine, ma non lo perse di vista nemmeno per un secondo. Aveva gli occhi arrossati, eppure non lo vide versare nemmeno una lacrima, mentre salutava i suoi amici e li ringraziava per essere venuti a sostenerlo. E nonostante il completo nero che trasmetteva amarezza e dispiacere, nonostante le profonde occhiaie sotto quegli occhi brillanti, Sebastian continuava a guardarlo come se fosse l’essere umano più bello di quel mondo.
Wes salutò Sebastian mentre Blaine era alle prese con altre persone, amici di suo padre. Sebastian rispose al saluto con un semplice cenno del capo, continuando a guardare uno dei due Anderson. Dopo qualche secondo, fermi in quella posizione, Sebastian non si trattenne dal chiedere come stessero.
“Come si starebbe in una situazione del genere. Ma per fortuna hanno tante persone che li vogliono bene.”
“Bene”, disse, restando di un’espressione incolore. “Posso fare qualcosa?”
Wes lo guardò con la coda dell’occhio, prima di voltarsi da un lato e osservare le nuvole grigie nel cielo: “Non saprei. Non credo, comunque.”
In quel momento, videro Timothy raggiungere Blaine, abbracciarlo come si abbraccerebbe un uomo a cui dare le condoglianze. Un gesto simbolico, niente di più, niente di meno. Ma Wes trattenne un piccolo sorriso, quando disse: “Vado a recuperare mio fratello prima che consoli troppo Blaine.”
Non riuscì a godersi l’espressione di Sebastian, ma era sicuro che non fosse più freddo e composto come al solito.
 
Il funerale, in tutto questo, portò una cosa positiva: Cooper Anderson, il fratello maggiore di Blaine.
Arrivò di notte fonda coperto da impermeabile e cappello, per evitare di essere stato riconosciuto dalla gente e trovarsi in seri problemi. Blaine e Richard lo accolsero a braccia aperte, erano felici, sollevati, non vedevano Cooper da tanti anni, e quest’ultimo era dispiaciuto di essere venuto troppo tardi per il funerale.
Cooper viveva stabilmente in Europa, più precisamente, in Spagna. Era un grave rischio rimpatriare in America, soprattutto perchè era ufficialmente ricercato dalla Marina Militare, per un reato che, purtroppo, era stato fatto in buona fede.
Era un marines. Si era arruolato a ventidue anni. Adorava la sua vita, adorava fare qualcosa per il paese, ma ci fu un momento in cui il paese tradì lui: l’ufficiale con cui era a bordo si era rivelato essere un uomo viscido, che maltrattava i marinai, abusava di loro. Cooper e i suoi colleghi mandarono diverse lettere al quartiere generale, chiesero aiuto; ma dopotutto, a nessuno importava mai degli uomini che vagavano in mezzo al mare.
Così, si fecero giustizia da soli. Il tribunale lo chiamò ammutinamento. Cooper, in realtà, lo chiama aver salvato delle vite. Ma non importa quello che pensa lui, quello che importa è la taglia da venti mila dollari sulla sua testa per chiunque riesca ad avvistare il latitante e portarlo alle forze dell’ordine.
Non poteva farsi vedere lì; non poteva saperlo nessuno.
Blaine sapeva che suo fratello aveva corso un grave rischio, ma quando lo abbracciò, piangendo sulla sua spalla, pensò soltanto a quanto fosse felice di averlo lì.
“Insomma, fratellino, prima o poi verrai a trovarmi in Spagna?”
“Appena sistemate un po’ di cose”, Sorrise Blaine. Erano nella sua camera, intenti ad ascoltare dei dischi in vinile e parlare, come non facevano da anni. Avevano fatto un riassunto delle loro vite, avevano approfondito alcuni argomenti, avevano riso per battute che non erano nemmeno troppo divertenti, e stavano bene, loro due. Si volevano un gran bene.
Cooper scompigliò i riccioli del fratellino, sfoggiando un sorriso a metà tra l’innamorato e lo stupido: “Lo sai che prima o poi dovrai conoscerla.”
“Cooper, ti assicuro che verrò a conoscere Dolores.”
“Devi! Oh Blaine, non hai idea di com’è, è bellissima, è tutto ciò che potessi desiderare e-“
“E vi sposate a Giugno, lo so. Me lo hai ripetuto almeno ottanta volte.”
“Perchè voglio che tu venga al matrimonio”, ammise Cooper. “Non mi sposo senza il mio testimone.”
A Blaine venne voglia di abbracciare di nuovo suo fratello, fare la valigia e partire per la Spagna con lui quella stessa sera. Al solo pensiero di suo fratello che doveva prendere un treno in piena notte, sparì del tutto il suo sorriso.
“Non mancherò Coop. A patto che tu non metta più piede in America.”
“Fratellino, sono stato bravo, non mi ha riconosciuto nessuno! E qui non siamo a Brumswick, dove tutti sanno come mi chiamo.”
“Tutta l’America sa come ti chiami, Coop. Sei latitante da anni, ogni anno non fanno altro che rinfacciare la tua taglia e la tua descrizione in tutte le radio. Non si può mai sapere”, disse Blaine. “Visto quanto siamo sfortunati in questo periodo, non mi stupirei se qualcuno ti riconoscesse per la strada.”
“E tu? Sei fortunato?”
Blaine inarcò un sopracciglio. Non aveva proprio capito a cosa si riferisse.
“C’è un ragazzo in particolare di cui vuoi parlarmi?”
“No.”
“Ma Blainers!”
“No.”
“Lo dici perchè sono il tuo fratellone o perchè non c’è veramente?”
“Coop, no.”
“Ok, per entrambe. Ma dai, ci rivedremo tra mesi, ho il diritto di sapere se sei felice!”
“Io... io sono felice okay?” Mormorò aggiustando il risvolto di un cuscino, “Qui sto bene, mi sono fatto i miei amici e... sto bene.”
“Blaine.” Alzò la testa piano, giusto per vedere suo fratello mettergli una mano sulla spalla, la voce che sovrastava la canzone di sottofondo e passava oltre la finestra aperta. “Sai quanto sarei felice di sentire che anche tu hai trovato una persona da amare, e che non sei da solo?”
“Ma io non sono solo!”
“Lo sai cosa intendo dire. Non puoi continuare a-“
La loro conversazione venne interrotta dal campanello di casa. Blaine si allarmò quasi subito, scattando sull’attenti e preoccupandosi che fosse un poliziotto, un agente, qualcuno che aveva riconosciuto Cooper ed era venuto ad arrestarlo. Scese le scale a due a due, con il cuore in gola e la pelle d’oca sempre più crescente.
Invece, quando aprì la porta, davanti a sè trovò Sebastian con un libro e l’espressione alquanto scocciata: “Non funzionava il campanello?”
La sua espressione mutò di colpo non appena si accorse di chi avesse davanti.
“Oh. Blaine.”
“Sebastian.” Balbettò incerto lui: non poteva entrare. Avrebbe visto Cooper. Non poteva permetterlo. “Non... che ci fai qui?”
Si rese conto di essere sembrato davvero maleducato con quella domanda, nel momento in cui Sebastian assottigliò lo sguardo e si mise una mano in tasca, mosso dall’irritazione.
“Ero venuto a trovare tuo padre. Sai, per stare un po’ con lui. È in casa?”
“No.” Mentì. “E non voglio lasciarti alla porta, davvero... ma non è un buon momento.”
“E perchè?” Si sporse con il collo, giusto per intravedere, all’attaccapanni dietro di Blaine, un cappello e un impermeabile che appartenevano chiaramente ad un uomo, e che non aveva mai visto in vita sua.
“Oh. Capisco. Ho interrotto qualcosa a te.” Sibilò, passandosi una mano trai capelli.
“No. Cosa?! No! Non è come pensi, non c’è nessuno qui, davvero.”
In quello stesso momento, dalla finestra aperta di camera di Blaine provenì la risata sguaiata di Cooper, probabilmente perchè aveva ritrovato il loro vecchio album di foto. Ma Sebastian non le sapeva quelle cose. Sebastian sentì soltanto la risata di un uomo, dalla voce calda e profonda, e il sangue gli si raggelò nelle vene mentre Blaine balbettava delle scuse improbabili e lo supplicava di ascoltarlo.
“Che idiota che sono.” Sebastian stava parlando ad alta voce, più per la frustrazione che per altro. “Non volevo disturbarti con il tuo... amico. Ciao.”
“No, non è cos-aspetta!”
Ma Sebastian era già andato via, scendendo le scale di fretta, lasciando quel libro per suo padre sul cornicione accanto alla ringhiera e non degnando Blaine di nessun altro sguardo.
E Blaine, che voleva soltanto prendere a testate quello stesso cornicione e maledire quel destino crudele, si chiese nel frattempo se le cose non potessero andare peggio di così. Potevano.
Quella stessa sera, Blaine aveva accompagnato Cooper alla stazione ferroviaria. Era notte fonda, non c’era quasi nessuno, e quello aveva tranquillizzato il fratello minore più del dovuto.
Un uomo, un poveraccio che bazzicava sempre nei dintorni, si avvicinò a loro due. Era troppo ubriaco per riconoscere Cooper, ma i due fratelli si spaventarono lo stesso; nel momento in cui le minacce non sortirono nessun effetto, e quell’uomo si avventò su Cooper per prendergli il portafogli, il ragazzo si difese, come meglio potè. Lo spinse dalle scale e in quell’uomo rotolò giù, fino all’ultimo gradino.
“Devi andare”, gli disse Blaine, con la voce tremante e il fiato corto. “Cooper, devi andare, ora.”
“Ci vediamo in Spagna.”
“Sì. Sì, ti verrò a trovare va bene? Al matrimonio.”
Si abbracciarono come ultimo saluto. Non era l’abbraccio formale che Blaine aveva dato a Timothy nel giorno del funerale, o a qualunque altra persona. In quell’abbraccio c’era l’amore di due fratelli che erano spaventati e destinati a separarsi per chissà quanto tempo.
Era un qualcosa di difficile da identificare.
Quando Blaine aprì gli occhi, da oltre le spalle di suo fratello, riconobbe Sebastian dalla parte opposta della stazione intento ad aspettare un convoglio merci. E Blaine stava abbracciando un uomo con cappello e impermeabile, un abbraccio stretto e duraturo, dal quale non si stava ancora staccando.
Sapeva bene a cosa stesse pensando. Voleva chiamarlo: voleva dirgli che non era come potesse sembrare, che quello era suo fratello, suo fratello.
Ma Sebastian scosse la testa, e poi andò via.
 
 
 
Qualche giorno dopo, Blaine ricevette la visita di un agente della polizia.
“Devo farle alcune domande, signor Anderson”, gli aveva detto con il taccuino in mano e la divisa perfettamente inamidata, mentre Blaine stringeva il pomello della porta chiusa dietro di sè.
“Riguardo a cosa, agente?”
“Un uomo è morto in ospedale. L’autopsia indica che sia morto a causa di una caduta, dopo una lotta alla stazione tra le due e le tre di notte. Era giovedì ventisei.  In realtà, le cause della morte sono incerte: i dottori pensano che bevesse molto e avesse qualche danno interno, ma ci sarà lo stesso un’indagine.”
“Non capisco cosa dovrei fare io”, sussurrò Blaine. Era freddo e con la schiena dritta.
“Un testimone, un capotreno, dice di averla avvistata insieme all’altro uomo, con cui ha ingaggiato una lotta.”
Erano stati visti.
Erano stati visti.
“Non ero là.”
L’agente era sorpreso, per un attimo. Forse, si aspettava una risposta diversa.
“Ne è sicuro? La descrizione corrisponde perfettamente: un ragazzo alto un metro e settanta, con i capelli riccioli, la carnagione olivastra e gli occhi dorati. Non ci sono molti ragazzi del genere, qui a Norfolk.”
“Non ero là. Non so cosa stia parlando. Non ero con nessun altro uomo, quella sera. Stavo dormendo a casa mia.”
Sperò soltanto che la sua freddezza, nel dire quelle parole, non lo tradisse. Ma capì di aver colto nel segno quando l’agente chiuse il suo taccuino, emettendo una leggera smorfia.
“Capisco. Mi scusi per il disturbo, allora. Il testimone dev’essersi sbagliato.”
Blaine non pensava che sarebbe uscito indenne da quella situazione. L’agente sarebbe tornato sicuramente, gli avrebbe fatto più domande, lo avrebbe costretto a dirgli il nome dell’altro uomo, a scoprire tutto.
Passò tutto il giorno con l’ansia che divorava i suoi nervi, chiuso dentro la sua stanza ad escogitare un qualsiasi modo per trovare una via d’uscita. Se solo ci fosse stato Cooper, lui sapeva cosa fare; non poteva nemmeno parlarne a suo padre, visto che ancora era visibilmente scosso dalla perdita della moglie, non voleva dargli altri shock.
Quella notte non chiuse occhio, e nemmeno la notte ancora. Verso la mattina del giorno trenta, l’agente bussò di nuovo alla sua porta, e Blaine dentro di sè si sentiva svenire.
“Sono venuto solo ad informarla che l’indagine è stata chiusa, signor Anderson.”
Come?
“Co-cosa?”
“Abbiamo parlato con un altro testimone, che si trovava nel luogo del delitto quella sera. Ha detto di non aver visto nè lei nè l’aggressore. Il povero uomo è inciampato nelle scale, troppo ubriaco, ed è caduto da solo. Non ci saranno altre indagini.”
Non tornava. Non tornava assolutamente nulla. Blaine era lì, Cooper aveva spinto quell’uomo, il capo treno lo aveva visto, e adesso qualcuno stava negando tutta la verità, stava facendo chiudere l’indagine in modo quasi affrettato e premuroso; gli stava salvando la vita, come se volesse fargli un favore.
“Posso sapere... chi è il suo testimone che ha detto questa versione dei fatti?”
L’uomo controllò il taccuino rapidamente, per poi richiuderlo con uno scatto netto: “Sebastian Smythe. Adesso mi scusi, ma devo andare.”
“Ma certo. Grazie, agente. Arrivederci.”
Ma Sebastian lo aveva visto. Sapeva che era stato lui. Aveva giurato il falso, soltanto per proteggerlo? Aveva bisogno di sapere. Di parlargli. Blaine aveva capito così tante cose, in quei mesi, e dopo quest’ultima prova non aveva più bisogno di capire quanto si fosse maledettamente sbagliato sul suo conto. Sebastian non aveva nessun tornaconto a proteggere Blaine, anzi: probabilmente aveva un milione di modi per denunciarlo. Eppure, non l’aveva fatto. Eppure, continuava a fare tutto il possibile per lui, anche allora.
Blaine quasi non si era accorto di essere arrivato alla sua industria tessile: il viaggio era stato veloce, data la corsa forsennata.
Sebastian, come sempre, era nel suo ufficio, immerso nelle sue carte, con un’aria visibilmente preoccupata e i numeri dei fogli che erano più che triplicati.
Vide comparire Blaine dalla porta del suo ufficio e, questa volta, il suo sguardo non si addolcì.
“Sto lavorando.”
“Devo ringraziarti”, supplicò Blaine.
“No. Non ringraziarmi.”
“Ma-“
Sebastian si alzò di scatto, con forza. Parte dei fogli finirono a terra e Blaine trasalì chiudendo gli occhi per un momento, come spaventato. Camminò avanti e indietro, si passò una mano sul volto stanco e provato dal pochissimo sonno. Lo vide avvicinarsi e, per la prima volta, provò il desiderio di arretrare. Era così freddo. Così... insensibile. Come se non provasse la più minuscola emozione per lui.
“Non mi frega niente”, lo sentì sibilare, “Di chi sia quell’uomo, nè del rapporto che hai con lui. L’ho fatto perchè non voglio che tuo padre soffra ancora di più di quanto non stia già soffrendo.”
“Sebastian...” si sentiva la gola in fiamme, “Ti prego, non è come pensi. Lui, quell’uomo...”
Voleva dirglielo così tanto. Così tanto. Ma non poteva. Così, quando Sebastian lo incalzò, dicendogli di continuare, lui abbassò la testa ed era mortificato, perchè non potè dirglielo.
“Capo?” Un dipendente fece capolino nell’ufficio, con il cappello da lavoro completamente distrutto. “Ci sono dei problemi nel reparto due.”
Sebastian annuì, afferrando le chiavi dell’ufficio dalla ciotola sulla scrivania. Nel momento in cui fece per chiedere la porta, si voltò un’ultima volta verso di Blaine. E parlò come se le sue parole fossero lame.
“Giusto per la cronaca, qualsiasi stupida cosa provassi per te è completamente sparita. Era solo un abbaglio.”
Chiuse la porta di scatto, lasciando Blaine da solo in una stanza. Per la seconda volta.
 
 
“Blaine, è da molto tempo che non ti facevi vedere. Come te la passi?” Domandò Sam al suo migliore amico, mentre i bambini giocavano nel cortile fuori casa per la prima volta in tutta la stagione.
Blaine era dimagrito. Aveva smesso di uscire così spesso come prima, andando a far visita agli Evans. L’ultima volta era stata dopo l’indagine del poliziotto, perchè aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno, qualcuno di cui si fidasse. Raccontò a Sam tutta la verità, dell’indagine, di Cooper, e di come Sebastian avesse dichiarato falsa testimonianza. Sam non aveva commentato, solo perchè il suo compito era ascoltare. Non aveva bisogno di dire a Blaine cose che sapesse già, o che poteva pensare benissimo da solo. Semplicemente, gli giurò che il suo segreto era al sicuro con lui, in nome della loro amicizia.
Blaine, dopo quel giorno, aveva smesso di uscire e basta. Non aveva più quello sguardo dolce e giovanile che contraddistingueva i suoi occhi chiari, adesso era vitreo, come privo di ogni espressione. Le sue labbra erano secche, rivolte in una smorfia sottile. Sembrava invecchiato, ma non di aspetto: di carattere.
 Accarezzò la tazza di caffè caldo offerta da Sam, senza berne nemmeno un sorso.
“Non sono io quello che non lavora da tre mesi, Sam.”
Arrivò dritto al punto, in una schiettezza che non apparteneva tanto a lui, quanto agli abitanti di Norfolk.
“Lo so.” Per la prima volta, lo vide ammettere qualcosa che negava perfino a se stesso. “Non so come fare, Blaine. Ho chiesto ai miei datori di lavoro se potessero riprendermi lì, ma... sono rinnegato da tutti. E i miei fratelli hanno sempre più fame, io...”
“Ehi.” Con una mano, raggiunse l’altra parte del tavolo, afferrando il polso del suo amico. “Sei forte. Lo sei sempre stato.”
“Potrei lavorare per ventiquattro ore al giorno, per quanto mi riguarda.” Era davvero distrutto, non lo aveva mai visto così. Adesso sembrava si fossero ribaltate le parti: Sam quello insicuro e perso, Blaine quello rassicurante, con quell’ottimismo che aveva quasi dimenticato di avere.
“Ma se nessuno mi dà lavoro, mi spieghi come faccio?”
“Sei sicuro di aver chiesto a tutti quanti gli industriali?”
“Tutti. O meglio, tutti quelli con i quali avevo una chance.”
“Hai chiesto a Smythe?”
Sam lo guardò incredulo, come se avesse appena detto una bestemmia.
“Smythe? Quello Smythe? Quello che ha assunto i cinesi soltanto per evitare lo sciopero indetto da me?”
“Sì. Lui.”
Dopo qualche attimo di esitazione, lo vide sospirare.
“... Sì. Ci sono stato. Non sono nemmeno arrivato al suo ufficio che mi hanno cacciato dalla piazza.”
“Riprovaci.”
“Sei impazzito?”
“Sam, riprovaci, per favore. Devi parlare con lui: parlagli dei tuoi fratelli, con il cuore in mano.”
“Mi rifiuto di dire una cosa del genere a uno come lui.”
“Ti darebbe un lavoro. Di sicuro.” Blaine non aveva nessun dubbio a riguardo; per questo Sam si sentì preso in contropiede. Il piccolo Thomas entrò in casa in quel preciso momento, con le scarpe piene di fango e dei segni da cowboy dipinti sulla faccia. Riuscirono a dire soltanto un’altra cosa, prima di iniziare a giocare con i bambini.
“Anche se mi prendesse, mi hanno detto che ultimamente sta avendo un sacco di problemi a livello di soldi. Sarebbe un po’ una presa in giro rinunciare al mio orgoglio e supplicare un lavoro, solo per vedere la fabbrica fallita dopo qualche mese.”
“Fallita? Dici che potrebbe chiudere?”
“Di questo passo non vedo come non potrebbe.”
Blaine quel giorno lesse i libri a Thomas, come promesso. Ma con la mente era da un’altra parte.
 
 

Sam andò da Sebastian a chiedere lavoro. Sebastian, in tutta risposta, lo cacciò via in malo modo, dicendogli che soltanto un pazzo avrebbe assunto uno pazzo quanto lui. Tuttavia, dopo soli due giorni, andò a casa di Sam. Nei sobborghi della città.
Nessun imprenditore era mai stato lì, nessun uomo ricco in generale. Ma Sebastian andò, con tanto di cappello e abito; si fece offrire una tazza di caffè dal ragazzo e ignorò i ragazzini urlanti che gli correvano intorno, chiedendogli come mai quel tipo fosse così tanto strano. A loro discolpa, non erano abituati ad avere ricchi in casa loro.
“Allora era vera la storia dei bambocci.”
Sam sollevò la sua sorellina, mettendola in piedi e mandandola a giocare con gli altri. “Avevi dubbi?”
“Sì. Ho anche dubbi sul fatto che tu possa davvero lavorare senza progettare una cospirazione contro di me.”
“Non lo farei. Ho bisogno di soldi.”
“Sappi”, la voce di Sebastian era bassa, minacciosa, “Che al primo secondo in cui ti vedo usare quel cervello per qualcosa che non sia il lavoro, sei fuori dalla mia fabbrica. Per il resto della tua vita.”
Poi, gli porse la mano, che Sam strinse dopo aver sfoggiato un sorrisetto divertito.
“Meglio che lasci il mio cervello a casa, allora.”
“Sì”, sentenziò, alzandosi e afferrando cappello e soprabito, “Sì, meglio.”
“Blaine me l’aveva detto, comunque.”
Sebastian si fermò sulla porta di casa. Immobile. Come folgorato.
“... Cos’hai detto?”
“Blaine mi aveva detto che mi avresti assunto.”
Sebastian fissò per dieci secondi il pomello della porta, prima di emettere uno sbuffo quasi impercettibile e andarsene via.
Con il passare dei tempi, Sam e Sebastian sarebbero diventati non solo colleghi, ma anche buoni amici.


Le giornate andarono avanti.
Blaine, dal canto suo, aveva cominciato a lavorare in una piccola scuola, come insegnante di musica ai bambini della scuola elementare. Era soltanto un sostituto, il vero insegnante era ammalato di polmonite; era un rimpiazzo, ma quel lavoro lo gratificava più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Vedeva Sam di rado, troppo impegnato a lavorare con quell’azienda che era sempre più prossima alla chiusura; di Sebastian, poi, non c’era nemmeno l’ombra. Ma Blaine aveva suo padre, i bambini, ed era relativamente felice.
Ma il destino non aveva esaurito la sua crudeltà nei confronti di Blaine.
Accadde dal giorno alla notte. Un momento prima suo padre leggeva in salotto, e il momento dopo era in ospedale, mentre i medici dichiaravano l’ora della morte per via di un infarto fulminante.
Blaine, in meno di un anno, era diventato improvvisamente orfano. E perdere suo padre in modo così inatteso, così ingiusto, era un dolore che non riusciva in nessun modo a controllare.
Wes e Rachel vennero quasi immediatamente a Norfolk. Stettero con lui, per tutto il tempo necessario affinchè si riprendesse; tuttavia, nonostante il suo piccolo lavoro con i bambini, nonostante Sam, e altri legami costruiti durante quell’anno, Blaine non aveva più motivo di stare lì. Non da solo.
Sarebbe partito per stare da Wes, per tutto il tempo che voleva.
Era il giorno della partenza. La casa era stata completamente spogliata dei suoi effetti, le tende arrotolate da un lato, sperando che non prendessero troppa polvere. I tavoli, i mobili e tutto l’arredamento, sarebbe stato messo all’asta da Wes appena possibile.
Aveva perso suo padre. Niente di tutto quello poteva interessargli. Nemmeno Rachel, o Wes, o Sam che era passato a salutarlo e a dirgli che sarebbe passato a trovarlo. Aveva perso suo padre, e suo fratello non poteva tornare in America, perchè due viaggi a così poca distanza l’uno dall’altro erano troppo pericolosi. Ma era chiaro a entrambi che non sarebbe andato al suo matrimonio.
Si chiese cosa avesse fatto per meritarsi tutto quello.
“Blaine.” Wes gli accarezzò dolcemente una spalla. La macchina era pronta, lo aspettava davanti casa. Rachel era già uscita insieme agli ultimi bagagli, e Blaine si stava prendendo un attimo per salutare qualcosa. Non sapeva nemmeno lui cosa. Solo, sentiva che fosse giusto salutare quel luogo.
“Arrivo tra un attimo.”
“No, Blaine, volevo dirti... c’è Sebastian che vuole vederti.”
Fu quasi certo che il suo cuore avesse smesso di battere. Se solo suo padre non fosse morto per lo stesso motivo.
Sebastian sembrava distrutto quanto e forse anche più di lui. Entrambi avevano un aspetto trasandato e semplice, dei semplici pantaloni e camicia, un accenno di barba sulle guance, gli occhi arrossati e stanchi.
Blaine aveva sentito dei problemi che stava avendo con la sua azienda; gli dispiaceva, ma d’altronde non poteva fare assolutamente niente per aiutare la sua situazione. Forse, nessuno poteva.
Adesso erano l’uno di fronte all’altro, ed era passato così tanto tempo, che perfino quel rancore sempre presente in uno dei due sembrava quasi sparire.
“Quindi stai partendo.” Annunciò Sebastian, il tono relativamente calmo, le mani abbandonate lungo i fianchi.
“Sono felice che sei passato.” Blaine tentò di abbozzare un piccolo sorriso. Non ci riuscì. “Volevo darti il libro preferito di mio padre.”
Lo cercò nello scatolone abbandonato ai suoi piedi, per poi porgergli un piccolo volume dalle pagine ingiallite e lette sin troppe volte.
“Robinson Crusoe.” Sebastian sfiorò la copertina rigida con i polpastrelli. Aveva un sorriso malinconico. “Me l’ha fatto leggere lui. Mi disse che tutti gli uomini, prima o poi, vogliono trovarsi su un’isola deserta e costruire daccapo la propria vita.”
“Ha ragione.” Ammise Blaine, perchè avrebbe tanto voluto farlo. I suoi occhi pungevano terribilmente, e fu costretto a strofinarseli con la manica stropicciata della camicia. Sebastian sviò lo sguardo, forse, per trattenere anche lui le lacrime, o per non guardarlo piangere.
“Mi mancherà tuo padre.”
“Anche a me.”
Ci fu un momento di silenzio, nel quale gli occhi verdi di Sebastian si fecero più espressivi, e quelli di Blaine più intensi.
“Quindi... stai partendo.”
Ripeterlo non faceva meno male.
"... E non tornerai più?"
“Stammi bene, Sebastian.”
Si salutarono così. Nessun sorriso. Nessun abbraccio. Nessun gesto particolarmente efficace.
Blaine salì su quell’auto che cominciò a muoversi lungo la strada, e Sebastian restò sulle scale di casa con il libro di Defoe in mano, lo sguardo lontano, il desiderio di corrergli incontro, di urlare. Riusciva a intravedere le spalle di Blaine dal vetro posteriore dell’automobile.
“Voltati”, susurrò, mentre la macchina si faceva sempre più piccola.
“Voltati. Guardami.”
Non si voltò.
E Sebastian continuò a guardare la strada anche quando la macchina, ormai, non c’era più.
 

 
Non sarebbe questo il finale degno di una storia. Non sarebbe questo il modo con cui dovrebbe finire un amore, un amore che non aveva nemmeno avuto modo di iniziare, di esprimersi.
Blaine e Sebastian continuarono rispettivamente con le loro vite, una a New York, l’altra a Norfolk, due mondi sin troppo diversi e lontani.
Blaine, con il passare dei mesi, stava un po’ meglio. Non aveva sempre voglia di uscire, ma non disdegnava mai la compagnia dei suoi amici. Leggeva e aiutava Wes in tutte le sue faccende da ragioniere, fino a quando non arrivò il momento in cui Wes dovette aiutare lui: il padre di Blaine, prima di morire, aveva investito tutti i soldi in un’obbligazione che, il giorno della sua morte, aveva fruttato il triplo del rendiconto finanziario investito. Per Rachel era un segno di Dio per lui, per Wes un ultimo regalo di suo padre. Per Blaine, invece, era la certezza che fosse ricco, e che non gli importasse niente. Wes ci mise una giornata intera a spiegargli come utilizzare al meglio quei soldi, e l’unica cosa che aveva capito Blaine era che si poteva veramente fare soldi dormendo.
Fu solo quando lesse sul giornale la chiusura della fabbrica di Sebastian che gli venne un’idea.
 
 

Sebastian lavorò a pieno regime. Lavorò più di tutti gli altri. Ma l’impegno non sempre viene ripagato, e i ricavi dalle vendite non riuscirono a coprire tutte le spese, appesantite da macchinari troppo vecchi, troppo poco al passo con i tempi.
Sebastian firmò il contratto di bancarotta l’undici ottobre.
Camminava per la fabbrica vuota, abbandonata, senza il rumore delle macchine che rimbombava nelle orecchie e quel frenetico via-vai di persone sempre nervose e polemiche. Adesso, sembrava un convoglio di mezzi, di ferraglia, di stoffe buttate via, di pavimenti pieni di lanetta completamente bianchi. Osservava un po’ tutto e un po’ niente. In realtà, non sapeva come salutare decentemente quel posto così caro. Non sapeva come salutare il luogo in cui aveva visto Blaine per la prima volta.
“Capo?”
Sam Evans aveva il piccolo Tommy in braccio, mentre si avvicinò a Sebastian con un foglio contenenti diverse firme.
“Ti stavo cercando. Questa è una raccolta firme per tutti i lavoratori che sono ancora disposti a lavorare con te, in caso la fabbrica riaprisse. Ti diamo la nostra parola.”
“Grazie, Evans.” Era un bel gesto, doveva riconoscerlo. Non lo faceva stare meglio, però. Osservò il piccolo Evans alle prese con il suo libro così tanto complicato, e non riuscì a trattenere un minuscolo sorriso.
“Ancora con quel libro?”
Sam annuì, sollevandolo un po’ di più tra le braccia: “Non legge altro da mesi. È come ossessionato.”
Il piccolo Thomas leggeva con passo cadenzato, scandendo metodicamente ogni sillaba.
“«Ci sono altre cose da fare con quella donna prima di sposarla con Atkins.»”
Il sorriso di Sebastian si allargò giusto un po’ di più: “Oh fidati, non vuoi sentir parlare di matrimonio per ancora tanto tempo.”
“Questo capitolo glielo leggeva sempre Blaine.”
Sam stette bene attento a non perdersi l’espressione di Sebastian, nel sentir pronunciare quel nome.
“A proposito, sai come sta?”
“Dovrebbe essere a Brumswick dai suoi amici, credo.” Non parlava di lui da un sacco di tempo.
“Oh”, commentò Sam, “Io credevo che fosse andato in Spagna. Sai, da suo fratello.”
Quel nome lo colpì come un proiettile dritto in mezzo al suo cuore. Sebastian si voltò di scatto, gli occhi verdi sgranati e carichi di aspettativa. La lettera contenente tutte le firme era ancora stretta tra le sue mani, e Sam, con un sorriso, sperò soltanto che quel foglio fosse ancora integro, visto quanto lo stava stritolando.
“Fratello?”
“È quello che ho detto.”
Fratello? Blaine non ha un fratello. Non ha un fratello, o suo padre me l’avrebbe detto.”
“Beh, capisco perchè non te l’abbiano detto, è un latitante. Ma in realtà non ha fatto del male a nessuno, non ci ho capito molto, Blaine quando straparla è un po’ difficile da decifrare.”
“No aspetta un attimo”, Intervenne Sebastian, mettendogli entrambe le mani sulle sue spalle. “Come sarebbe a dire che ha un fratello?”
“Ma pensavo che lo sapessi”, ammise, con tutta onestà. “Era venuto qui per il funerale della madre. Non lo hai mai visto?”
Quella sera. Alla stazione.
Certo che lo aveva visto.
“Era suo fratello.”
Il sollievo contenuto nelle parole era grande quasi quanto quello nei suoi occhi.
“Era suo fratello”, ripetè, con un sorriso che diventava sempre più convinto, e dopo aver ringraziato Sam e scompigliato i capelli al piccolo Tommy, mise in tasca la raccolta firme dei dipendenti e si avviò verso la stazione.
 
 
“Blaine, sei sicuro di volerlo fare da solo? Posso venire con te, se vuoi.”
“Wes, va tutto bene, posso farcela. Insomma, se non so spiegare le cose economiche ti chiamerò.”
“Perfetto, amico.” Sorrise Wes abbracciando stretto Blaine. Erano alla stazione di New York. Essendo un crocevia per molte destinazioni, Blaine doveva prendere semplicemente un diretto per Norfolk e in serata sarebbe arrivato da Sebastian. Non sapeva ancora bene come fare, cosa dire e soprattutto come dirlo, ma ce l’avrebbe fatta. Doveva farcela.
L’altoparlante annunciò, con voce robotica, che il suo treno era in partenza.
Salutò Wes con un altro abbraccio, era stato un grande amico per lui, lo aveva aiutato così tanto. Ma adesso Blaine si sentiva meglio, aveva un obiettivo e avrebbe fatto di tutto per raggiungerlo. Per raggiungere Sebastian.
Forse, pensò tra sè e sè, con tutte le sciagure che il destino ha deciso per me, almeno questa volta avrò un colpo di fortuna.
Non aveva idea di quale colpo di fortuna stesse arrivando.
Perchè certamente esisteva il detto “Il mondo è piccolo”, ma non si aspettava in nessun modo vedere Sebastian scedere dal treno accanto al suo, con nient’altro che il suo corpo alto, slanciato, i suoi occhi verdi e i suoi abiti modesti, nemmeno troppo eleganti.
Anche se Sebastian stava da Dio con qualsiasi tipo di camicia, e Blaine lo constatò in quel preciso momento.
“Blaine?” Lo sentì chiamare, e i suoi occhi verdi erano diventati improvvisamente grandi, felici. Blaine aveva il cuore che rischiava di scoppiargli nel petto, ma corse comunque contro di lui.
“Che ci fai qui?”
“Stavo andando a Norfolk”, ammise con una sola mandata di fiato. “E... e tu?”
Sebastian si avvicinò a lui, era così bello con quel sorriso sulle labbra: “Sono stato a Brumswick.”
“... Cosa?”
“Pensavo di trovarti lì.”
A riprova delle sue parole, estrasse un piccolo ibisco giallo dalla tasca della camicia, e lo porse a un Blaine completamente stupito.
“Dove... dove l’hai trovato? Pensavo che non ci fossero più in questo periodo dell’anno...”
Sebastian inclinò leggermente la testa di lato, lasciando il piccolo fiore tra le sue mani.
“Devi cercare bene.”
Blaine sentì le guance andargli in fiamme. Ma Sebastian si era avvicinato giusto un po’ di più, come se quella cosa lo facesse impazzire.
Ma lui non poteva permettersi di implodere, non prima di avergli fatto quella proposta d’affari che aveva elaborato tutta la notte.
“Ascolta, devo parlarti di una cosa”, gli disse, con le guance e le orecchie ancora rosse e l’ibisco stretto tra le sue dita. Sebastian era seduto proprio accanto a lui, su quella panchina in cui Blaine stava sempre. Quella appartata, quella non vista da nessuno.
“Ho circa... quindici milioni di dollari”, annunciò, alzando lo sguardo. Aveva ripetuto quel discorso così tante volte, a se stesso, che adesso lo recitava a memoria come una sorta di copione.
“Al momento sono in banca e producono pochissimi interessi”, recitò le parole di Wes alla perfezione. Il punto difficile, però, arrivava adesso.
“Ho parlato con i miei consulenti finanziari... cioè, ho parlato con Wes, e-e insomma, stavo pensando, se vuoi prendere questi soldi e usarli per riaprire la tua fabbrica...” Lo sguardo di Sebastian si illuminò e, se possibile, il suo sorriso diventò ancora un po’ più dolce, mentre appoggiava un braccio sulla panchina, proprio dietro il collo di Blaine, e si avvicinava a lui guardando con intensità i suoi grandi occhi ambrati.
“Potresti darmi un tasso d’inflazione molto più alto.”
“D’interesse”, lo corresse lui.”
“D’interesse. Sì, interesse. Cioè, nel senso, non è un interesse personale, è soltanto una proposta d’affari, un accordo formale, con due parti.”
“Si dice tra le parti”, disse di nuovo Sebastian, ridacchiando appena, mentre si avvicinava sempre più lentamente a lui. Ed era troppo vicino. Troppo bello. E lo stava guardando come se volesse amarlo con gli occhi e Blaine non ricordava più nemmeno il suo stesso nome.
Perchè era ovvio che non fosse soltanto una proposta d’affari. Era ovvio che Blaine provasse qualcosa per lui. E restò in silenzio in quel limbo dentro al quale non sapeva se sarebbe sopravvissuto fino a quando, semplicemente, Sebastian gli prese il viso tra le mani, e congiunse le loro labbra in un lunghissimo bacio.
 Il primo di tanti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
   
 
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