Ad Asfo, che mi ha fatto conoscere e amare Merlin,
che mi sopporta e sprona, mi beta con infinita pazienza
e mi psicanalizza, anche.
Grazie di cuore
Mille
anni.
La
gente tende sempre ad arrotondare le cifre, forse per impressionare
il prossimo. Perché
dire mille anni fa molto più effetto che dire novecento
ottanta nove
o mille e due; o forse la gente trova la cosa solo più
semplice da
scrivere e ricordare.
E
così la bella addormentata viene svegliata dopo cento anni
dal bacio
del principe, ma per quel che ne sappiamo avrebbero potuto essere
settantasette o cento ventidue; per chi racconta non fa nemmeno
differenza arrotondare per difetto o per eccesso, purché le
menti di
chi ascolta siano aggiogate alla storia.
Numeri
buttati a caso, per impressionare. Mille
anni.
Eppure,
per chi aspetta, il tempo non è così clemente,
non si può
raccogliere in un unico mucchio come se fosse sabbia senza
importanza: per chi aspetta, ogni secondo si trascina infinito e
angosciante, lungo come l'eternità, scavando un buco di
dolore nel
cuore, come una goccia su una pietra, lentamente.
Per
chi aspetta senza sapere se e quando ciò che brama
avverrà, il
tempo diventa nemico e compagno eterno, in una lotta senza fine,
trascinandosi.
Aveva
atteso.
Mille
e novantaquattro anni, sette mesi, tredici giorni, ventidue ore. Sapeva
anche i minuti, anche i secondi.
Non
che li avesse mai davvero contati, non ne aveva bisogno: lo scorrere
del tempo era ormai suo dominio, scandiva il passare delle stagioni e
il mutare degli anni in sintonia col battito del suo cuore; non aveva
avuto bisogno di contare per esserne certo, il suo corpo gli diceva
che era così.
Correva
con un'euforia addosso che non sentiva da centinaia d'anni, il cuore
in preda alle palpitazioni; il volto rosso, per l'emozione e per lo
sforzo; le orecchie a sventola che fischiavano nel vento. E un
sorriso così splendente che chiunque incrociava il suo
cammino si
ritrovava a guardarlo meravigliato, sentendosi felice senza motivo.
E
rideva.
Sì,
di tanto in tanto, tra una falcata e l'altra, rideva con tutto il
cuore, con un suono musicale e vero. E perché non avrebbe
dovuto?
Era felice ed emozionato come non lo era da tempo.
Se
ne fregava delle occhiate della gente; anzi, quando andò a
sbattere
contro un grosso omone sbucato da dietro un albero, finendo a gambe a
terra, si rialzò senza un mugugno e l'abbracciò
in estasi
farfugliando frasi senza senso, per poi riprendere la sua corsa,
lasciandolo lì perplesso.
Saltò
con agilità una panchina e dopo essere atterrato
elegantemente, come
se stesse planando, scattò in avanti infilandosi in un
sentiero del
parco, per accorciare la strada.
Era...eccitato. Sentiva
l'adrenalina in corpo, i muscoli bruciare di dolore, il respiro
corto.
Si
sentiva vivo.
Dopo
aver atteso ai limiti della sopportazione, con la disperazione a
serpeggiare dentro come un tarlo, cedendo di secolo in secolo alla
vecchiaia e alla solitudine, arrivando persino a dubitare che sarebbe
tornato, finalmente la vita aveva ripreso a scorrere.
No,
si disse, non era vero. Era come essere rinato ancora.
Come
avrebbe potuto dimenticare la sensazione di libertà che quel
miracolo prodigioso, avvenuto poche ore prima, aveva scatenato in
lui?
Merlin si
era coricato la notte
prima, stanco, provato, solo.
Vecchio.
Era vecchio, Merlin. Quanto, la
gente che lo conosceva, di vista, non sapeva dirlo. Molto, per certo.
Aveva lunghi capelli di un
bianco candido e la barba dello stesso colore, il volto solcato da
profonde rughe e le palpebre pesanti dalla decadenza del corpo;
vagava di qua e di là per la città con dei
vestiti anonimi e un po'
vecchiotti; a volte spariva per molto tempo in lunghi viaggi e
mostrava un'energia che molti giovani si ritrovarono a invidiare.
Per questo nessuno sapeva quanto
fosse vecchio.
Dopo aver
spento la luce
dell'abat jour, Merlin si era rigirato nel letto, stringendosi le
coperte al corpo, poggiando la testa sul cuscino fresco; aveva atteso
che il tepore del viso raggrinzito lo riscaldasse, poi aveva
strofinato la guancia cercando l'incavo che aveva creato negli anni,
per maggiore comodità. Con un sospiro rauco aveva chiuso gli
occhi
cercando il sonno.
Cercando. Perché, in realtà,
non aveva bisogno di dormire. Era un essere immortale, senza
necessità né bisogni umani.
Merlin mangiava solo ciò che
voleva e quando lo voleva e dormiva solo perché adorava
sognare. In giorni particolari dell'anno
riusciva a sognare tutte le avventure vissute a Camelot, rivivendo
ogni particolare, lasciandosi andare alla felicità e al
pianto per
poi scoprire, al risveglio, che niente era vero, che era ancora e
sempre solo.
Eppure
amava quei sogni, perché
non voleva dimenticare.
Non avrebbe permesso alla sua
memoria di cancellare i sorrisi di Sir Leon, Lancelot, Gwaine,
Percival, Elyan e Arthur mentre parlavano di qualcosa di imbarazzante
durante le veglie nei boschi o le battute di caccia; o l'occhiata di
rimprovero di Gaius quando decideva per conto suo di usare la magia,
contravvenendo ai suoi divieti; o lo sguardo complice di Gwen quando
gli chiedeva un favore. Rivedere i volti dei suoi vecchi amici lo
faceva sentire bene e in colpa ed entrambe quelle sensazioni gli
servivano per andare avanti, giorno dopo giorno, secolo dopo secolo.
Scartò una coppia che passeggiava di fronte a sé, con un guizzo felino, e spronò le gambe a correre, per divorare quegli ultimi pochi metri che lo separavano dalla sua meta.
Aveva
sognato ancora Camelot, la
notte prima. Aveva sognato di salutare il suo
Re per l'ultima volta, trattenendo appena i singhiozzi, guardando il
corpo senza vita del migliore amico mai avuto, adagiato sul fondo
della barca, galleggiare placidamente sulle acque di Avalon, lontano
da lui.
E come aveva fatto nei secoli,
aveva pianto, con tutta la disperazione possibile, sentendo il cuore
ardere di dolore, con la consapevolezza che non sarebbe mai
sopraggiunta la morte a liberarlo dall'agonia. Si era inginocchiato
sulla riva del lago, lasciando che le acque lambissero le sue gambe,
inzuppandolo fino alla vita: aveva sentito il freddo infiltrarsi
sotto pelle, ma non si era mosso: quel bruciore nel petto non sarebbe
scemato nemmeno col gelo più duro.
Aveva
guardato le sue lacrime
cadere nell'acqua, creando cerchi concentrici che si allontanavano
sempre più, perdendosi alla deriva: ne aveva seguito
qualcuno con lo
sguardo, ma quando l'isola in mezzo al lago entrava nel suo campo
visivo, sentiva l'impulso ad abbassare gli occhi, per non sentire
dolore.
Con un suono morbido un'altra
lacrima si era infranta sull'acqua senza sollevare nemmeno una
goccia, inglobandosi perfettamente, creando solo lievi increspature;
nello stesso istante una fine nebbia si era sparsa attorno a lui, in
ogni dove, emanata dal lago stesso. La sua visibilità si era
ridotta, perso in un mare di biancore rarefatto e appiccicoso, ogni
suono d'improvviso spento e ovattato, che non fece altro che fargli
sentire prepotentemente il battito furioso del cuore.
Ritrovatosi
accerchiato, Merlin
si era tirato su, circospetto, al suono di una voce: era profonda e
familiare e mai avrebbe creduto di risentirla, nell'eternità.
“Il
tempo è giunto” aveva
annunciato la voce di Balinor spargendosi attorno, impalpabile come
la nebbia, eppure vera, materiale: se avesse allungato una mano, era
certo che avrebbe trovato quella di suo padre, che l'avrebbe potuto
abbracciare; ma il suo corpo era diventato immobile, duro come
pietra.
Merlin non era riuscito a
credere alle sue orecchie: la consapevolezza di sé gli era
piombata
addosso repentina e si era accorto di trovarsi dentro ad un sogno,
eppure allo stesso tempo aveva capito che ciò che stava
vivendo era
reale.
“Il
futuro di Albion è in
pericolo, ora più che mai. Una seconda
possibilità ti viene data,
perché il tuo destino possa davvero compiersi: non
sprecarla, figlio
mio. E' arrivato il momento, Merlin: l'altra metà della
moneta,
cercala, è viva!”
La voce di Balinor aveva
rimbombato nella visione fumosa, seguita da una strana eco sempre
più
flebile e distante; quando l'ultima sillaba si era spenta, Merlin si
era svegliato col respiro mozzo e il viso sudato, il cuore che
martellava dolorosamente contro le costole, certo di essere preda di
un infarto.
La luce del
mattino che filtrava
da uno spiraglio delle tende non aveva illuminato un vecchio
dolorante e triste: i caldi raggi avevano sfiorato quasi con
reverenza il viso giovane e spigoloso, facendo scintillare due
spaventati occhi azzurri e i capelli neri e corti. Con una mano stretta
al petto
aveva cercato di frenare il battito impazzito, accorgendosi solo dopo
qualche minuto che il suo non era più il respiro affannoso
di un
vecchio.
Si era portato le mani al volto,
cercando di raccogliere i pensieri e le emozioni, -perché
quel sogno
era stato così vivido che continuava a sentire
l'umidità della
nebbia incollata addosso,- e aveva trovato solo pelle liscia e glabra
sotto le dita; come se una scossa l'avesse percorso si era alzato dal
letto, caracollando al bagno adiacente la stanza: il riflesso nello
specchio gli aveva mostrato un Merlin giovanissimo, con gli zigomi
tondi e sporgenti, le labbra rosse e cesellate, la pelle liscia ed
elastica.
Si era
aggrappato al lavandino,
sconvolto, mentre un'ombra di comprensione era passata sui suoi
occhi, costringendo le sue labbra a piegarsi in un sorriso, il primo
vero sorriso da secoli; si era preparato talmente in fretta che
chiunque avrebbe potuto pensare che avesse Morgana alle calcagna,
cercando abiti che potessero andargli bene nel suo strano e variegato
guardaroba accumulato in secoli, infilando prima il maglione al
contrario, poi entrambe le gambe nella stessa gamba del pantalone,
invaso da una frenesia che lo divorava.
Era uscito di casa di corsa,
facendo la gimcana tra auto e persone, nelle stradine affollate della
città, con in mente un solo pensiero: Arthur. Era tornato!
Si
fermò ansante, facendo ancora uno o due passetti per
stabilizzarsi;
si piegò in due, con le mani sulle ginocchia per riprendere
fiato e
ignorò il dolore alla milza che, seppur fitto, lo fece
sentire
stranamente vivo, umano.
Dopo
aver respirato profondamente e deglutito un paio di volte, Merlin
alzò la testa e fissò gli occhi sulla superficie
piatta del lago di
Avalon, sull'isoletta al centro e sulla diroccata torretta che
svettava, in cerca di qualche indizio o di una manifestazione, di una
presenza. In un'altra occasione quel posto lo avrebbe fatto sentire
perduto e solo, lo avrebbe reso cieco di dolore, a causa dei ricordi
che conteneva, ma non in quel momento, non quando stava per
trasformarsi nel teatro per la rinascita di Arthur.
I
riflessi del sole sull'acqua si specchiarono nei suoi occhi, ma nulla
di più accadde. Si
portò la mano alla fronte, unendo le dita per schermarsi dal
sole e
poter acuire lo sguardo, ma non c'era nessuno in vista, né
niente di
anomalo intorno a lui.
Rimase
ritto come un bastone, continuando a fissare il lago con insistenza,
in attesa.
Sebbene
lo strazio di vivere eternamente da solo lo avesse colto in momenti
inaspettati, era stato bravo ad attendere per più di un
millennio;
eppure in quel momento il tempo gli sembrò infinito e
malvagio.
Attese.
Guardando
le ore scorrere, con la speranza che lui stesse per apparire,
pensò
a come meglio salutarlo, a quali comportamenti adottare con lui, a
cosa dire. Rimase fermo in quel punto fino al pomeriggio, con la
speranza via via più flebile, ma sempre presente.
Dopo
più di un secolo di attesa, imprecazioni e fede, non avrebbe
vacillato per un misero, lieve ritardo; cos'era aspettare un giorno,
anche due, se paragonato all'angoscia di vivere eternamente da solo?
Senza legarsi mai a nessuno per paura di soffrire ancora, di essere
abbandonato ogni volta, quando la morte gli portava via gli affetti?
Guardando le persone intorno a lui nascere, crescere, amare e
invecchiare, invidiandole profondamente per quella felicità
che
provavano nell'assaggiare un poco la vita, sapendo quanto fosse
effimera. Come
poteva godersi la vita, lui, quando era eterna? Quando niente ne
valeva davvero la pena, quando non c'era la fugacità e
l'irreplicabilità di certi attimi?
Solo
quel momento di eccitazione, solo il pensiero di riavere Arthur
indietro, di poter parlare ancora con lui, di essere persino chiamato
idiota, aveva senso in quella vita immortale.
Il
sole iniziò a calare, andando a colorare il lago di un tenue
arancione e sfumando il cielo nel rosso e, sebbene il riverbero negli
occhi gli facesse male, Merlin non distolse mai lo sguardo. Rimase
immobile in quella posizione anche quando sopraggiunse la notte,
incurante di voci o rumori che gli arrivavano dalle strade dietro,
lontane, piene di ragazzi in festa per il week end; nulla poteva
smuoverlo.
Arthur
sarebbe arrivato, ne era fermamente convinto. La
terra sotto i suoi piedi glielo diceva, l'aria che gli sfiorava il
viso e le stelle che in quel momento splendevano sulla sua testa; ma
più di tutto il suo cuore.
Avrebbe
avuto lo stesso aspetto? Di sicuro no, non era in quel modo che
funzionava la reincarnazione. Però non si trattava di una
semplice,
banale, reincarnazione: era qualcosa legato al destino, ad un volere
più grande, magico; quindi, forse, Arthur sarebbe tornato
con
l'aspetto che conosceva.
L'avrebbe
riconosciuto? Avrebbe avuto i ricordi della sua vita come principe e
Re di Camelot, o lui, Merlin, avrebbe dovuto cercare un modo, magico
o meno, per fargli tornare la memoria? Continuò a farsi le
domande
più disparate, in un'altalena continua di emozioni,
ignorando il
freddo, il buio e il silenzio della notte.
La
luce del mattino lo trovò così, ancora immobile,
ancora assorto. E
niente cambiò ancora, per tutto quel giorno, né
per quelli
successivi.
Attese
per una settimana.
Sette
giorni a fissare inerte il lago, senza parlare, senza vacillare. Sotto
la pioggia, il sole, il vento.
Stirò
un poco le spalle, lasciando andare un esile sospiro. Era certo che
il suo sogno non fosse solo quello, che fosse qualcosa di
più, un
presagio del futuro. Eppure c'era qualcosa di sbagliato; ma cosa?
Fletté
le ginocchia, sentendo un cupo cigolio e un dolore lancinante che si
propagò per tutta la lunghezza delle gambe.
Si
era fiondato al lago automaticamente, certo che fosse il luogo in cui
avrebbe trovato Arthur, lì dove tutto era finito, -dove il
suo Re
era morto e il suo cuore si era spezzato,- ma ripensando alle parole
di Balinor, sempre più lontane e difficili da ricordare, si
accorse
che suo padre non aveva mai detto di recarsi lì; gli aveva
solo
detto che Arthur era tornato e che avrebbe dovuto cercarlo.
Si
schiaffò una mano in faccia, prendendosi mentalmente a calci
per la
sua idiozia, per essere saltato alle conclusioni senza fermarsi a
riflettere prima.
Saltellò
un po' sul posto per sciogliere i muscoli intirizziti e
stirò il
collo rigido, poi si gettò in una nuova corsa rocambolesca,
verso
casa sua, alla ricerca di un incantesimo, nella sua libreria di libri
magici, che gli permettesse di trovare Arthur; non riusciva a
ricordare a memoria ogni formula, ma doveva esserci qualcosa che lo
avrebbe aiutato. Non poteva certo affidarsi alla fortuna o cercare a
tentoni, magari chiedendo a tutti gli uomini sulla sua strada:
“sei
la reincarnazione di Re Arthur?” Poteva
trovarsi ovunque nella vasta Inghilterra e benché Merlin
sapesse che
lui e Arthur erano destinati ad attrarsi e a incontrarsi per caso o
destino, decise che era il momento di agevolarlo, quel dannatissimo
fato.
Arrivò
alla zona a nord, vicino alla casa che occupava da cinquant'anni,
immersa nel verde e nel silenzio; rallentò il passo,
inspirando a
fondo, i polmoni intirizziti che chiedevano pietà, i muscoli
delle
gambe che bruciavano. In fondo erano passati secoli dall'ultima volta
in cui aveva corso, anno più anno meno, e non riusciva
nemmeno a
ricordare per cosa lo avesse fatto, né gli interessava
ricordarlo,
in quel momento. Arthur era l'unico pensiero, il suo nome gli
bruciava nella mente come fuoco vivo, era una necessità
trovarlo, il
prima possibile, parlare con lui, prenderlo in giro, abbracciarlo
anche se non avesse voluto, ridere e piangere, dalla
felicità.
Una voce acuta attirò improvvisamente la sua attenzione, costringendolo a guardarsi attorno per cercarne la fonte; un chiacchiericcio concitato e aggressivo lo portò fino al vicolo dove il pub del quartiere teneva i bidoni dell'immondizia: lì, un gruppetto di giovani con giubbotti in pelle accerchiava una ragazza, rivolgendole parole davvero poco gentili. I suoi occhi si soffermarono subito su quello che sembrava il capobanda: un ragazzo di poco più di vent'anni, con lisci capelli biondi e stupefacenti occhi azzurri, proprio come Arthur; persino la situazione sembrava la stessa del loro primo incontro, con il somaro reale che infastidiva qualcuno col suo gruppetto di amici.
Era
possibile che tutto si stesse ripetendo?
Sentì
la testa girare per l'emozione e i palmi sudati e trattenne a
malapena un sorriso; stava per finire, l'agonia di essere solo, il
dolore che lo aveva attanagliato da sempre.
Si
avvicinò circospetto, proprio mentre il presunto Arthur
afferrava il
polso della ragazza attirandola a sé, sebbene quella
scalciasse e si
tirasse indietro.
“Ehi,
avanti, basta così” esclamò Merlin,
ripetendo le parole dette un
millennio prima a quell'idiota.
I
ragazzi si fermarono perplessi, mentre il presunto Arthur si girava a
guardarlo con un'espressione piuttosto strafottente in viso.
“Che
cazzo vuoi?” domandò il biondino, in modo davvero
poco gentile.
Ecco,
se quello era davvero Arthur avrebbe dovuto ricordargli le buone
maniere e anche l'etichetta; i tempi erano cambiati e il suo Re si
era di sicuro fatto corrompere dalla mancanza di educazione che
permeava in quel secolo; sarebbe stato suo grande piacere rieducarlo
nel modo convenuto, magari a suon di calcioni nel regale fondo
schiena. La
ragazza intanto si era bloccata, incredula che qualcuno fosse accorso
in suo aiuto.
“Ti
sei divertito, amico mio” continuò per nulla
offeso, recitando
ancora le sue frasi di allora, cercando di saggiare la memoria di
quel ragazzo, sperando di risvegliare un ricordo di ciò che
presumibilmente era.
In
un secondo successero più cose diverse: il ragazzo
urlò un “Chi
cazzo è amico tuo?” mentre gli si fiondava addosso
col pugno
alzato; la ragazza si girò a guardarlo, con l'espressione
scioccata,
forse temendo che quel tipo assurdo con le orecchie a sventola non
avrebbe mai potuto vincere quello scontro. Poi, con uno scatto
repentino, si gettò sul biondino facendolo sbattere al suolo
e
spiaccicandosi su di lui.
Il
gruppo di teppistelli iniziò a urlare e si fece sempre
più vicino,
mentre il biondino si rialzava di scatto, colpendo la ragazza alla
guancia con un pugno, mandandola a sbattere contro il muro alle sue
spalle.
Fu
in quel momento che Merlin capì. Quel
ragazzo non era Arthur, per quanto la situazione e il suo aspetto
facessero supporre: il suo Re non avrebbe mai picchiato una donna,
secolo di maleducazione o meno; era qualcosa radicato in lui
nell'animo, un antico precetto cavalleresco.
Si
fece avanti per affrontare quei quattro ragazzacci e far capire loro
quanto male potesse fare scontrarsi con un mago in incognito e
veramente deluso, quando la ragazza ricomparve nella mischia,
scrollando la testa per schiarirsi le idee.
Si
gettò su due di loro e afferrò i loro capelli
color della sabbia,
facendo cozzare le loro teste così forte da produrre un
terribile
rumore sordo, con un cupo scricchiolio in sottofondo; i due
strillarono sorpresi, poi capovolsero gli occhi con un'esclamazione
sofferta, prima di accasciarsi al suolo inanimati.
Merlin
rimase sconvolto a osservarla, imprudentemente, meravigliato dalla
piega che stava prendendo quella situazione assurda e imprevista.
Un
pugno ben assestato allo stomaco lo costrinse a piegarsi in due
mentre l'aria abbandonava i suoi polmoni di getto, per il dolore e la
sorpresa; il biondino ghignò torreggiando su di lui,
guardandolo
atterrare sull'asfalto mentre cercava di riprendere fiato. Con
la coda dell'occhio vide la ragazza colpire con un pugno alla
mandibola uno degli altri ragazzi, mandandolo KO in un sol colpo e
poi girarsi e piantare i suoi occhi su di lui; un secondo dopo
sentì
il biondino grugnire infastidito.
Merlin
si tirò su, massaggiandosi lo stomaco, e si
precipitò ad aiutare la
ragazza, impegnata a schivare i pugni che il biondino le tirava a
raffica, i suoi lunghi capelli che mulinavano a destra e a sinistra.
Bastò
un solo guizzo dorato nei suoi occhi, mentre riassaporava la magia
troppo a lungo inutilizzata, e l'insegna dell'uscita del pub del
vicolo cadde, andando a sbattere sulla testa del teppista, mandandolo
lungo disteso.
La
ragazza si voltò a guardarlo, con lo sguardo affilato come
rasoio,
ma prima che potesse aprire bocca il suono di una sirena della
polizia in avvicinamento catturò la loro attenzione; la
giovane
scattò in avanti afferrandogli il polso e iniziò
a correre a
perdifiato, lungo stradine e vicoli, trascinandolo con sé.
Merlin
si lasciò tirare. Non sapeva nemmeno cosa lo spingesse a
correre,
invece di bloccarsi e mandare quella tizia al diavolo; sapeva solo
che la sua pelle bruciava al tocco di quella mano piccola, ma decisa,
e che lo stomaco era stranamente in subbuglio.
Che
fosse un colpo di fulmine? Dopo
mille e novantanove anni senza pensare più ad una ragazza in
quel
senso?
No,
si disse. Impossibile.
Era
solo colpa dell'adrenalina per la lotta e per aver utilizzato la
magia, dato che entrambe le situazioni non gli capitavano da molto
tempo; nessuno si metteva a cercare la rissa con un vecchio strambo e
utilizzava i suoi poteri di rado, non avendo bisogno di nulla.
La sconosciuta si fermò in un parco, lasciandosi cadere con poca grazia su una panchina con uno sbuffo sofferto, il polso di Merlin ancora trattenuto nella sua mano. Entrambi ripresero fiato rumorosamente, nemmeno fossero stati due corridori distrutti dalla maratona di New York. Le famigliole intorno continuavano a schiamazzare e a giocare, ignare dei due giovani esausti dalla corsa fuori programma.
“Ti
senti bene?” chiese Merlin, tra un respiro e l'altro, vedendo
che
non accennava a lasciarlo andare. Forse era troppo spaventata,
nonostante avesse mandato all'aria tre di quei ragazzacci da sola. E
lui voleva davvero consolarla e dirle che non c'era più
alcun
pericolo, ma voleva anche andare a casa a cercare l'incantesimo che
gli avrebbe permesso di ritrovare Arthur. Anzi, ora che aveva
superato la delusione di non averlo trovato in quel teppista
biondino, il pensiero di Arthur era ritornato prepotentemente nella
sua mente e gli diceva di piantare la tipa su quella panchina e di
correre in ogni dove per trovare il Re. D'altronde non parlava con un
essere umano da almeno qualche anno, perché rompere
quell'abitudine
all'isolamento proprio in quel momento, invece di cercare l'unica
persona con cui desiderasse davvero parlare?
La
giovane si alzò e si erse arrogantemente di fronte a lui,
piantando
i suoi occhi in quelli di Merlin e lui sentì di nuovo
quell'assurdo
tuffo al cuore.
Era
davvero bella.
Adesso
che non aveva più urgenza di salvare la sua pelle o la
propria,
poteva guardarla davvero: aveva dei bellissimi occhi azzurri,
leggermente contratti in un'espressione scocciata; lunghi capelli
biondi che ricadevano setosi sulle spalle; un corpo minuto, ma ben
tornito e delle piccole e rosee labbra, che stava stringendo
dall'impazienza.
Merlin si sforzò di fissare solo i suoi occhi, perché il suo cuore batteva talmente tanto da fargli male e il sangue scorreva con forza in tutto il corpo, soprattutto lì dove la sua mano lo bloccava, e lei se n'era di sicuro accorta. Una piccola parte del suo cervello ancora funzionante, molto remota e quasi del tutto spenta, si chiese se la ragazza non fosse una strega e stesse cercando di ammaliarlo.
La
ragazza si avvicinò e con un gesto lento gli
poggiò la mano libera
sulla guancia accaldata, mandandogli il sangue ad annebbiare quel
poco di raziocinio rimasto. Il
rumore dello schiaffo lo raggiunse prima ancora del dolore, tanta fu
la sorpresa di quel gesto; difatti la testa reagì al colpo
molto
dopo, risultando fuori sincrono rispetto al suono.
Si
aspettava un bacio!
Con
la mano sulla guancia in fiamme e la bocca spalancata dallo stupore,
chinò il volto per domandare alla sua assalitrice quale tipo
di
problema avesse, ma lei lo precedette.
“Che
diavolo hai combinato, Merlin?” chiese la
giovane, con una
voce musicale, ma molto arrabbiata.
Merlin
la fissò ancora più sconvolto perché
solo una persona, in tutta la
sua eterna vita, pronunciava il suo nome in quella maniera, come se
fosse un insulto.
Aprì
la bocca diverse volte, come un pesce impazzito, cercando di far
uscire dei suoni articolati, poi dopo un brusco respiro
urlò:
“Arthur?”
La
ragazza fece uno sguardo ovvio e cinico, prima di chinare il capo per
annuire
un paio di volte, sconfortata, dandogli la certezza. E
mentre guardava il seno della giovane alzarsi e abbassarsi per il
respiro corto dall'agitazione, Merlin si disse che no, Arthur non si
era reincarnato con lo stesso aspetto che lui ricordava.
Note:
Salve
a tutti, sono Mimì.
Sono
nuova nel fandom Merlin, ma non è la prima volta che scrivo.
Questa
storia è nata in me alla fine di Merlin, perché
è troppo triste il
modo in cui l'hanno conclusa. Non pretendo di dire che questo
è il
modo in cui sarebbe dovuta finire, ma mi piace pensare che sia una
delle opzioni tra le migliaia. Spero che vi piaccia.
Voglio
ancora ringraziare Asfo, perché quella donna ha davvero una
santa
pazienza, è geniale come pochi al mondo e la adoro fino alla
punta
dei capelli.
Mimì