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Autore: _eco    04/10/2013    10 recensioni
Questa storia partecipa al concorso "Memories" indetto da DarkAeris sul forum di Efp
[Jillian Everdeen/Helen Everdeen] [Accenni Maysilee/Helen] [Pre-Hunger Games]
- Le daremo un nome prima che inizi a parlare? –
[...]
Chiamerò mia figlia come te, le aveva detto Maysilee, un pomeriggio d’estate.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Maysilee Donner, Mr. Everdeen, Mrs. Everdeen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Erbasaetta.
[Mrs.Everdeen/Mr.Everdeen/Katniss Everdeen/Maysilee Donner]

- Le daremo un nome prima che inizi a parlare? – dice Jillian, un sorriso divertito a modellargli le labbra, piccole goccioline di sudore a imperlargli la fronte.
Le tapparelle sono quasi del tutto abbassate e qualche spiraglio dimenticato lascia passare la calda luce del mattino. Il sole è sorto da poco. L’estate sembra essere in anticipo perché la temperatura, negli ultimi giorni, è aumentata di cinque o sei gradi, le giornate sono sempre più afose e di pioggia non c’è traccia da una settimana ormai.
In casa Everdeen, maggio è iniziato con il pianto disperato di una neonata che, a beneficio dell’udito di Jillian ed Helen, si è trasformato poi in una serie di sommessi vagiti.
Helen, le spalle poggiate al cuscino che Jillian ha posizionato fra lei e il muro pregno d’umidità, solleva inconsapevolmente le labbra nell’accenno di un sorriso ogni volta che il fagotto che stringe fra le braccia emette un suono o muove le mani chiuse a pugno.
È nata nel corso della notte, ha già visto la sua prima alba, ma non ha ancora un nome.
- Coral? – propone Jillian con voce incerta, una smorfia sul viso che lascia intendere quanto quel nome non lo convinca, lo sguardo che sembra dire “ti prego, no, dì di no.”
Helen scuote impercettibilmente la testa, le dita sottili che giocherellano con le labbra schiuse della neonata.  
- Ginger? – continua lui, imperterrito, trovando posto nel bordo del letto.
Helen si tira un po’ su e Jillian l’aiuta a sistemare il cuscino dietro di lei, che intanto è scivolato verso il basso. Una smorfia di tristezza e rassegnazione s’impossessa dei suoi tratti marcati, da Giacimento, mentre un guizzo d’impotenza attraversa rapido il suo sguardo: quello è l’unico cuscino che hanno, e il letto dove Helen ha dato alla luce la loro bambina ha le molle rotte e cigola ad ogni movimento. In più, la piccolina non avrà una culla. Non per il momento.
Nella mente di Jillian la sua bambina, una volta arrivata, avrebbe goduto di ogni lusso, riposato in un lettino confortevole, avvolta in calde coperte che l’avrebbero riparata dal gelo dell’inverno, circondata da alcuni dei graziosi giocattoli di legno che ha ammirato nel bancone della signora Jackson, giù al Forno, durante la gravidanza di Helen, che ha immaginato tra le mani paffute della sua bambina e che, solo ora se ne rende conto, non ha i soldi per comprare.
Forse potrebbe scambiarli con uno scoiattolo…
- Ce la vedi? Non ha nemmeno i capelli rossi. – replica Helen, scoppiando in una risata cristallina mentre accarezza con affetto la morbida peluria scura che trapunta la testolina della bambina, lo sguardo incatenato a quel viso tondo dal colorito scuro, non roseo, che lascia già intendere quanto la piccolina somigli al papà. Le sue sottili palpebre, cosparse di un intreccio di minuscole venuzze viola, sono quasi sempre abbassate.
Helen non ha ancora capito di che colore siano gli occhi della sua bambina, nemmeno quando li ha aperti per una manciata di secondi, poco fa. Senza dubbio, sono più scuri dei suoi. Ma ricorda che sua madre, una volta, le ha detto che nei neonati è normale che le iridi non abbiano una tonalità ben definita, all’inizio. Spera che siano grigi come quelli di Jillian, grandi ed espressivi come i suoi.
Jillian storce la bocca e annuisce con aria sconfitta.
Helen si perde nell’ammirazione dei lineamenti delicati di sua figlia: il nasino piccolo e un po’ schiacciato, le labbra sottili e rosse, le fossette agli angoli della bocca, le ciglia lunghe che vibrano appena e adombrano le guance piene.
Chiamerò mia figlia come te, le aveva detto Maysilee, un pomeriggio d’estate.
Helen?, aveva risposto lei.
Sì.
Io chiamerò la mia come te. Mi piace. Maysilee, aveva promesso lei, di rimando.
Così vi confonderete quando dirò “Helen”. Vi girerete entrambe, aveva fantasticato Maysilee.
Helen ricorda chiaramente il caschetto biondo di Maysilee, il suo sorriso largo con la finestrella e le sue mani rosee che pettinavano distrattamente i capelli lanuginosi della sua bambola di pezza. Ricorda gli occhi grandi e avidi di curiosità di May, le palpebre che sembravano non abbassarsi mai, che resistevano sempre qualche secondo in più del normale, perché Maysilee aveva quella voglia di capire e la continua brama di novità, che la rendevano speciale, diversa.
Erano sedute a gambe incrociate sull’erba fresca del Prato, ai tempi della promessa che adesso guizza prepotente nella testa di Helen.
- Proponi tu, adesso. – la incita Jillian, sfiorandole una mano.
Il nome di Maysilee preme contro le pareti della gola di Helen, che adesso sembrano più strette. O forse è solo quella parola a essere troppo ingombrante.
Rivede il viso magro della sua amica, l’espressione giocosa e sempre allegra della ragazzina di nove anni che, seduta accanto a lei come una piccola indiana, aveva tirato fuori quell’assurda e innocente proposta.
Chiamerò mia figlia come te. Aveva detto così. Ed Helen sta quasi per pronunciarlo, quel nome, quando un gemito strozzato soffoca la sua voce. Non è lei ad averlo emesso, ma la neonata che stringe al petto. È allora che Helen prende atto della realtà.
Non ci sarà nessuna bambina che si chiamerà come lei, nessuna bambina che sia figlia di Maysilee, per lo meno. E non capiterà mai che Maysilee, pronunciando “Helen”, scateni un divertente malinteso, facendole girare entrambe: lei e il fantasma di quella bambina che avrebbe dovuto portare il suo stesso nome.  
Helen si sente come se stesse procedendo per una strada tortuosa e scoscesa inciampando sui propri passi. E c’è Maysilee. È ovunque: agli angoli della strada, dietro la panchina laggiù, accanto a lei. Helen corre alla ricerca di un appiglio, di un qualcosa che sappia di vero, di reale, di stabilizzante.
Lo trova negli occhi di Jillian, sempre pazienti, nelle sue mani che si ostinano a modellare il cuscino sottile in una posizione che la faccia stare comoda, nel sorriso sghembo e sornione che gli fiorisce sulle labbra, appena sotto i baffi scuri.
Ed è proprio quel sorriso, le labbra dischiuse che mostrano la dentatura irregolare dallo smalto un po’ consumato, a portarle indietro un ricordo piacevole, che risale a quando era ancora una ragazzina, nel periodo che aveva seguito la morte di May.
Era pomeriggio, quasi sera e fuori si gelava. Helen aveva le mani screpolate per il freddo. Si avvicinava l’ora di chiusura ufficiale della farmacia. Ufficiale perché, oltre a vendere medicine, i signori Benson erano anche la figura che più si avvicinava a quella del medico, nel 12, e dovevano offrire un servizio continuo in caso d’emergenza. Per questo abitavano al piano superiore alla farmacia.
- Va’ su, Hellie. – le aveva concesso sua madre. – Papà ha acceso il camino per un po’, scaldati le mani. –
- No. Sto qui. Tanto tra un po’ chiudiamo. – le aveva risposto lei.
La signora Benson, intenta a sistemare un paio di boccette di sciroppo a base di erbe medicanti, aveva sorriso bonariamente.
- È per quello lì? Il ragazzo degli Everdeen? –
- No. – si era affrettata a replicare Helen, forse con un po’ troppa foga, aveva notato dopo con imbarazzo.
- Meglio che tuo padre non lo venga a sapere. Non ora, eh, Hellie? – l’aveva ammonita poi, prima di sparire dietro la tendina scorrevole che dava sul retro del negozio.
Per un paio di mesi dalla morte di Maysilee Donner, nel signor Benson aveva messo radici la convinzione che i ragazzini come Haymitch Abernathy – i ragazzini del Giacimento, come diceva lui – non fossero che pappe molli, codardi pronti a scambiare la vita degli altri per la propria.
Helen era senza dubbio arrabbiata per la morte di May. Ma non con Haymitch, non come lo era suo padre, per lo meno.
Jillian era entrato in farmacia poco dopo, il volto impolverato di carbone, i capelli scomposti intorno al viso e un sacco di tela sulle spalle, l’allegro fischiettio che gli scivolava via dalle labbra con naturalezza.
Mentre Helen studiava la forma e le dimensioni delle foglie medicanti che Jillian le aveva fornito, come era solito fare ormai una volta alla settimana, lui era rimasto a fissarla in silenzio, i gomiti incrociati sul bancone di pietra, troppo basso per la sua notevole statura.
- Queste si mangiano, Jillian. – aveva constatato Helen, con una lieve nota di rimprovero.
Brandiva degli ortaggi che somigliavano a piccoli tuberi.
- Non lo sapevo. – aveva ammesso lui.
- Non ci credo. – aveva replicato lei, trattenendo una risatina isterica.
Lui aveva sbuffato, divertito.
- Katniss. Erbasaetta. – aveva scandito lei, l’indice puntato su un paragrafo del manuale di piante che tenevano sempre aperto sul bancone. – Si mangia. È un tubero. – aveva chiarito, sempre con quella nota di rimprovero misto a divertimento.
- E tu sei un bugiardo, in entrambi i casi. Lo sei se mi hai assicurato di essere un vero esperto di piante terapeutiche e non è vero. E lo sei anche se mi dici di non sapere che questa è erbasaetta, considerato che dovresti essere un vero intenditore. – lo aveva stuzzicato poi, tracciando delle virgolette con le dita quando aveva pronunciato l’ultima parola, con l’evidente intento di scimmiottare la voce profonda di Jillian e la sua sicurezza nell’affermare di essere pratico di erbe medicanti.
- Beccato. – aveva ceduto lui, alzando le mani in segno di resa. – È erbasaetta. Si mangia. E devo dire di essere un vero intenditore, signorina, nella preparazione di stufati d’erbasaetta. Perciò, cosa ne direbbe di provarne un po’? –
- Allora? – ripete Jillian, richiamando la sua attenzione. – Trovato qualcosa? –
Helen annuisce debolmente e si tira su, il braccio destro stretto intorno alla neonata, che adesso si è fatta silenziosa.
Ha aperto gli occhi. Helen li scruta: sono grandi, le iridi sembrano di un colore indefinito, per il momento, ma sono scure e guizzano curiose da un punto all’altro. Come quelle di Maysilee. Tuttavia, Helen non si sente pronta ad affrontare i ricordi che le affolleranno la mente, i tremiti che le scuoteranno le mani e che la assaliranno quando chiamerà sua figlia a quel modo e vedrà voltarsi soltanto lei. E se non dovesse somigliarle?
In fondo, tutti i bambini hanno quel luccichio negli occhi, appena nati, e magari sua figlia non sarà mai curiosa come Maysilee. E questo potrebbe ucciderla, potrebbe farla impazzire e spingerla a chiedersi: perché non è come lei?
E se le somigliasse… se le somigliasse, sarebbe anche peggio.
- Katniss. – sussurra, poggiandole un bacio leggero sulla punta del naso.
- Katniss. – ripete Jillian, la voce tremante. – Però lei non si mangia. – chiarisce poco dopo.
Ed Helen scoppia a ridere.

 
Angolo autrice:
Bimbi belli, salve! :) 
Non vi rompevo da un bel po', eh! Vi sono mancata? Okay, risparmiatemi le bugie e i pomodori marci, please
Questa storia l'ho scritta tempo fa per un concorso incentrato sui ricordi, appunto, ma l'ho inviata solo ora perché ero insicura del risultato finale, perché non ho avuto tempo e perché, sì, per ora non sono molto in vena EFPniana. 
Scriverla ha significato moltissimo per me, perciò mi piacerebbe che la degnasse di un commentino-ino-ino. ♥
Bacioni.
S.
  
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