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Autore: CharlieIlvendicatore    11/10/2013    2 recensioni
"The Gate Control" o la "La teoria del cancello" è una teoria neurologica secondo la quale quando si prova dolore gli stimoli tattili, scatenati nello stesso luogo in cui esso ha sede, lo inibiscono. E' il motivo per cui sfreghiamo o comprimiamo la ferita quando ci facciamo male. E se fosse così anche per un dolore diverso? quello che viene dalla nostra testa, quello che non riusciamo a capire. Forse è per questo che ci ritroviamo mille volte a pensare e a pensare a chi ci ha ferito e che ci arrovelliamo e immaginiamo cosa sarebbe cambiato se avessimo agito in modo diverso. Forse è il motivo per cui sentiamo il disperato bisogno di parlarne. Sono i nostri modi per toccare, comprimere quel tasto dolente al fine di provare un po' meno dolore? Questo è ciò che crede Cloe, la protagonista, ma il suo imbarazzo a parlare di qualsiasi cosa di romantico, di confidarsi con qualcuno la blocca terribilmente e la porterà ad aprirsi veramente solo con un ragazzo conosciuto su internet. E se lui fosse una persona che in realtà conosce anche fin troppo bene?
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buona parte di me grondava di sudore, mani comprese. Questo rese più facile e veloce liberarmi dalla presa  di Armin che rimase un attimo immobile a fissare il vuoto davanti a lui, come se fossi scomparsa nel nulla. Ritornò a guardarmi quando gli concessi una scarna risposta, nel tentativo di sviare l'attenzione dal mio imbarazzo e dalla mia agitazione, il che ebbe l'effetto contrario.
-Ah cavoli mi hai proprio fregata,- dissi cercando di fingere disinvoltura, ma dalle mie labbra scaturì ancora una volta impacciatezza. Le morsi entrambe giochicchiando per distogliere la mente dal pensiero fisso di aver fatto un'impagabile figuraccia. Lui sembrava esserci rimasto male, avevo sicuramente rovinato quello che poteva definirsi un momento perfetto per le trame di molti film. Se fossi stata una persona perfetta, la persona giusta a che fa le cose giuste al momento giusto, forse queste romanticherie sarebbero state il mio forte, peccato che la paura e l'imbarazzo rendessero quelle situazioni un vero incubo per la me di allora.
-Andiamo a pulire di là?- mi propose lui indicando il muro confinante con l'altra aula che faceva parte della nostra punizione. Annuii e ci avviammo verso il nostro compito,  questa volta invertimmo i ruoli e fu veramente un bene per la nostra produttività, ci mettemmo la metà del tempo. A farci compagnia c'erano imponenti tuoni e lo scrosciare incessante della pioggia. Entrambi speravamo smettesse, ma il cielo non ci accontentò. Tremai un attimo al pensiero di non avere niente con cui ripararmi.
-Ce l'hai l'ombrello?- chiesi al mio compagno di punizione, intento a guardare fuori dalla finestra. Dalla sua faccia preoccupata potevo intuire la risposta.
-No, c'era così bello stamattina.. Tu?
-Io sono venuta in bici,- risposi avvicinandomi al suo fianco per controllare la situazione. Fu allora che mi venne un'idea geniale:-andiamo a vedere tra gli oggetti smarriti: c'è sempre qualcuno che si scorda l'ombrello!- e questa era la verità, io mi dimenticavo e mi dimentico tutt'ora ombrelli in giro per la città, probabilmente con la mia sbadataggine rifornisco tutti i vù cumprà della zona, e non penso di essere l'unica. Ogni regola ha però la sua eccezione che la conferma ed era questo il caso. Ci accorgemmo con orrore che nello scatolone degli oggetti smarriti, a fianco alle scope e ai mochi delle donne delle pulizie, c'erano solo  due rossetti, una lima per unghie e una larga giacca di pelle che puzzava di fumo e di Castiel. Armin prese la giacca e me la porse, probabilmente ricordava che avevo solo un cappotto di lana che sotto quella pioggia avrebbe fatto effetto spugna. Recuperammo i nostri averi, ci coprimmo con le giacche, uscimmo insieme dalla scuola e ci infilammo sotto alla tettoia che teneva riparato il parcheggio per le biciclette. Erano le due e mezza e il mio stomaco si ricordò che non avevo fatto colazione, per fortuna l'ennesimo tuono coprì il suo lamento.
-Scusa Cloe se scappo, ma avrei abbastanza fame. Ci vediamo domani!- disse il ragazzo mentre nascondeva la testa sotto un cappotto che avrebbe retto ancora meno l'acqua del mio.
-Aspetta!-lo interruppi prima che potesse uscire dalla tettoia -andiamo insieme in bicicletta, ci si mette un terzo del tempo. E poi casa tua è più vicina della mia, non dovrei neanche allungare la strada.
Il ragazzo guardò me e la mia graziella per un attimo perplesso, per poi rispondere:- Io non ci risalgo su quel coso,- scuotendo la testa.
-L'alternativa è fartela a piedi,- gli ricordai indicando con un cenno del capo la pioggia torrenziale al di fuori della tettoia. Lui si guardò intorno per fare una stima di quanto si sarebbe bagnato e deglutì, per poi rispondere:- va bene.
Mi sfilai la giacca, che probabilmente un tempo era appartenuta a Castiel o a qualcuno con i suoi stessi gusti in vestiti e profumi, e gliela passai.
-Io la tengo per l'altra metà del tragitto,- lo rassicurai per convincerlo a mettersela al mio posto. Lui la infilò e montò sulla bici, che nel frattempo avevo slegato. La giacca di pelle gli stava larga nonostante avesse sotto un altro cappotto, era magrino e aveva le spalle  molto meno larghe rispetto a Castiel, era comunque decisamente carino vestito così. Lui si guardò le braccia  per un secondo e si coprì la testa  con il cappuccio della felpa per poi commentare:-Così fa molto Alex Mercer, di Prototype.
-Sì... con un po' meno deltoide e bicipite, ma ci sta,-risposi io con ironia.
Lui mi rimandò una smorfia e si girò verso il cancello della scuola, io lo raggiunsi sul portapacchi della mia fidata bicicletta. Mi intimò a mettere la mia testa sotto al giubbotto, dopo qualche attimo di indecisione lo accontentai, fu una buona scusa per abbracciarlo senza sentirmi in imbarazzo, quando fui sistemata si decise a partire. Stare su un piccolo trabiccolo di metallo in mezzo a un temporale non era esattamente una genialata, se il mio destino fosse stato di morire fulminata si sarebbe compiuto in quel momento. La mia previsione riguardo al mio cappotto si era avverata e mi sentivo avvolta in una gigantesca e gelida spugna zuppa. Nonostante questo non sentivo freddo, me ne stavo tranquilla scaldata dal tepore del corpo di Armin tra le mie braccia e dal bollore del mio stesso corpo, che rispondeva alla situazione. Avrei potuto addormentarmi cullata dall'incedere oscillante della bicicletta e coccolata dalle carezze della pioggia, che in qualsiasi altro momento sarebbero sembrate schiaffi fastidiosi. Una frenata lunga e rumorosa mi riportò alla realtà: mi accorsi con dispiacere che eravamo davanti a casa di Armin e che i freni della mia bici non si erano aggiustati da soli. Scesi dal veicolo, lui l'appoggiò contro a un muro ed entrammo nell'ingresso del condominio dove abitava. Lo seguii per approffittare di un attimo di tregua dalla pioggia, consapevole che avrei dovuto affrontarla da sola fino a casa mia. Davanti ai miei occhi Armin iniziò prima a frugare calmo nelle tasche del cappotto, piano piano il suo cercare si fece  più frenetico. Una volta svuotato completamente lo zaino e il contenuto delle tasche affermò deluso:- Mi sa che le chiavi ce le abbia mio fratello.
-Beh, suonagli!
-Alexy è in negozio da Leigh,- rispose scocciato, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
-Già,- commentai freddamente ragionando sul da farsi. Se fosse venuto a casa mia mio fratello non avrebbe sicuramente gradito, d'altra parte non potevo lasciarlo lì affamato e bagnato ad aspettare che il gemello tornasse dal centro, che era anche piuttosto distante. Presi una decisione di cui ero sicura mi sarei pentita.
-Torniamo sulla bici, vieni a casa mia.
-Non ti preoccupare, posso aspettare qui mio fratello...
-Muoviti prima che cambi idea,- lo interruppi io.
Alla fine la ebbi vinta e  Armin seguì le mie istruzioni fino a casa mia. La seconda parte del viaggio fu decisamente meno rilassante della prima, passai il tempo a pensare a come agire se ci fosse stato Jack e a come organizzarmi una volta arrivata. La pioggia si calmò non appena ci avvicinammo al mio cancelletto, una specie di scherzo del destino. Ad aspettarmi impazienti c'erano un cane e un gatto fradici: a quanto pare non solo Jack non era in casa, ma aveva chiuso fuori il gatto; mi seguirono insieme ad Armin all'interno dell'edificio. Il felino iniziò a strusciarsi contro le gambe del ragazzo, putroppo avevo un gatto con qualche problemino di personalità: faceva le feste agli estranei, ma se questi ultimi provavano ad accarezzarlo li aggrediva con morsi e graffi. E così fece con lo sventurato che, avvicinatosi a lui illuso che sarebbe stato socievole, si ritrovò ben presto a ritirare la mano sorpreso e spaventato, per poi commentare:-Tutto la padrona!
Gli risposi con una linguaccia, senza pensarci su: ero troppo impegnata a guardare per terra lo stato pietoso del pavimento dopo il nostro ingresso.  Mi restava solo da informare Armin su i miei programmi elaborati nel breve tragitto.- Allora dobbiamo entrambi mangiare, cambiarci e farci una doccia. Il problema è che ho una sola doccia, quindi dovremo fare a turno, se non ti spiace vado prima io. Ti va bene una pasta alla "quello che ho nel frigo"?-proposi sperando che il ragazzo non avesse troppe pretese, la mia cucina era quasi sempre mezza vuota e ci si doveva arrangiare.
Il ragazzo rispose con un "Ok" alzando le spalle.
-Allora metto su l'acqua, tu guardala mentre faccio la doccia.
- Che devo fare?
- Secondo te? Guarda l'acqua nella pentola e se bolle butti giù la pasta, non mi sembra tanto difficile,- replicai infastidita dalla sua domanda a dir poco idiota.
Detto questo lo accompagnai in cucina e riempii una pentola d'acqua, per poi riporla sul fuoco, inoltre pesai e disposi la pasta in una fondina. Armin si mise in piedi di fianco ai fornelli a fissare la superficie del liquido, come se dovesse riempirsi di bolle da un momento all'altro. Io corsi al piano di sopra velocissima, avevo intenzione di fiondarmi sotto la doccia a sciacquarmi in fretta, non amavo l'idea di abbandonare il mio ospite in cucina. La mia doccia durò circa due minuti, una volta assicuratami di essere asciutta, entrai in camera mia e decisi di indossare una maglia a casaccio ed un paio di pantaloncini di South Park, in realtà  erano un paio di boxer di simil-seta cuciti davanti che avevo regalato a mio fratello per natale, ma che lui non aveva voluto perché diceva che gli erano scomodi. Coperti in parte dalla maglietta non si notava troppo la differenza da un paio di pantaloncini normali. Ad ogni modo erano  la mia unica alternativa comoda per stare in casa erano i pantaloni del mio pigiama, ma erano troppo imbarazzati per essere visti da membri esterni alla mia famiglia. Prima di raggiungerlo  al piano di sotto nascosi la mia tenuta da notte e tutti i miei peluche sotto al letto, a parte il funghetto di supermario che esposi con orgoglio sul comodino, ero sicura che gli sarebbe piaciuto. Quando arrivai in cucina l'acqua aveva appena iniziato a bollire. Dopo aver buttato giù la pasta lo accompagnai in camera mia dove avevo preparato una maglia e un paio di pantaloni di jack, che gli sarebbero stati larghissimi, sul letto. Gli mostrai il bagno e gli dissi di lasciare fuori i suoi vestiti, così li avrei messi ad asciugare, poi ritornai al piano di sotto. Liberai gli animali, ancora chiusi nello sgabuzzino e tornai in cucina per pensare al condimento della pasta nel frigo c'era poca roba: avrei potuto fare una carbonara con le zucchine invece della pancetta, mi sembrava una buona idea. Scolai la pasta e tornai al piano di sopra, per bussare alla porta del bagno. 
-Va bene uova e zucchine?- urlai davanti alla porta per sovrastare lo scrosciare della doccia.
-No, non mangio verdura di colore verde!- replicò lui a voce alta. 
"Non mangio verdura di colore verde" ma cosa voleva dire esattamente? Cioè, era un'assurdità le verdure verdi non hanno tutte lo stesso sapore. Decisi di smettere di riflettere su questa gigantesca boiata per trovare un'alternativa.
-Ne hai  ancora per molto?- chiesi ad Armin, sempre urlando per farmi sentire, lui rispose affermativamente.  Ritornai in cucina e  mischiai in una ciotola la pasta, mozzarella e pomodori, che avevo tagliato a cubetti, a cui aggiunsi tonno in scatola, per poi riporre tutto nel frigo. Poi presi il mocho dallo sgabuzzino e iniziai a passare sopra le nostre tracce bagnate. Tornai di sopra per accorgermi che la doccia stava ancora andando, presi i vestiti di Armin e mi diressi in taverna nel piccolo angolo-lavanderia di fianco al garage. A quei tempi ero fermamente convinta che mettere qualsiasi indumento nella lavatrice con il "programma camicie" mi impedisse di stirarli. L'unica cosa che non sbattei nell'elettrodomestico fu la sottile sciarpa blu che il ragazzo portava costantemente appesa al collo, non sapevo quante volte Alexy lo avesse implorato di togliersela senza successo, lui diceva di avere freddo al collo senza. Neanch'io la gradivo più di tanto, così la nascosi in un angolino del mobile dei detersivi, pensavo di consegnarla al mio fidanzatino gay per dargli la soddisfazione di bruciarla. Ritornai in camera mia e bussai per chiedere il permesso, il ragazzo aveva finalmente terminato la lunghissima doccia, si era vestito con gli abiti di Jack e si stava asciugando i capelli con una salvietta.
-Rita Levi Montalcini?- mi disse il ragazzo indicando la stampa  che ritraeva la ricercatrice, appesa alla parete, sotto erano scritte le parole "Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare, e non temete niente.”La camera era stata interamente arredata da mio padre come regalo di compleanno, lo adoravo per questo.
-Cosa ti aspettavi?- risposi al ragazzo alzando le spalle, in fondo un po' mi conosceva, non doveva sembrare così strano.
-In una camera di una sedicenne? Tutto meno che la Montalcini. Lo sai di avere un cimitero di pupazzi e uno strano straccio verde sotto al letto?- sgranai gli occhi e arrossii, per poi riprendermi dopo poco. Aveva proprio frugato ovunque, meno male che non si era accorto che lo “strano straccio verde” era una divisa da sala operatoria, che usavo come pigiama, già mi aveva presa per pazza per la Montalcini. 
-Andiamo giù va,-dissi facendogli cenno di seguirmi, lui ripose la salvietta sopra al mio letto.

Arrivati in cucina il ragazzo si sorprese di quella che, a suo parere, era un quantitativo di pasta da esercito e mi chiese se stessi preparando le provviste per barricarci in casa in caso di invasione zombie. Io avevo fatto, come al solito, 360 grammi pensando che tutti I ragazzi mangiassero 280 grammi di pasta come mio fratello, almeno era pasta fredda e l'avrei potuta riciclare il giorno dopo. Fu solo quando la tolsi dalla ciotola che mi accorsi che la mozzarella si era fusa intrappolando nella sua morsa le penne, che si erano ipercotte, avendo il formaggio  trattenuto tutto il calore. Persino I pomodori erano diventati mollicci e un po' cotti, l'unica cosa rimasta intatta era il tonno, il resto formava una massa informe e compatta che sembrava potesse prendere vita da un momento all'altro.
Gli misi davanti un piatto pieno e lo guardai,  con tutto quel trambusto non mi ero accorta che non si era neanche asciugato i capelli. Però era carino coi capelli bagnati, anzi era proprio molto attraente...
Mentre facevo questi pensieri lui rivolse i suoi occhi azzurri verso di me e io diventai bordeaux, vergognandomi come se potesse sentire i miei pensieri.  Mi lasciai cadere pesantemente sulla sedia e puntai il mio sguardo al piatto, avrei voluto sotterrarci la faccia come uno struzzo.
Da quello che ricordavo dell'espressione del ragazzo intuivo che neanche lui doveva essere entusiasta della cucina, per troppa fame o per educazione iniziò a mangiare senza lamentarsi.

-Eri tu quella nella foto di sopra?
Annuii con la bocca piena, per poi deglutire faticosamente nel caso ci fosse qualche domanda più complessa, fui quasi tentata di staccare lo sguardo dal piatto, ma ricordai la figura appena fatta.
Mio padre nell'arredamento della camera aveva aggiunto la stampa di una foto di una me undicenne durante un saggio di latino americani, per fortuna ero riuscita a togliermi dalle sue grinfie e smetterla di sgambettare, almeno per un po'. La cosa che più odiavo del corso è che mi facevano sempre fare la parte maschile perché me la cavavo a guidare ed eravamo quasi tutte donne, questo comportava che quando mi trovavo davanti a un ragazzo non facevo che pestargli I piedi.
-Balli?
-Ballavo, salsa principalmente. Per fortuna non mi hanno fatto continuare contro la mia volontà, ma mio padre mi trascina a qualche serata per ballare con lui, adesso che mia mamma non può... E' un piccolo sforzo da fare per renderlo contento. Sai, viste le sue origini, mio padre ci teneva parecchio che imparassimo, anche se non sono mai stata a cuba.
-Sei di origini cubane?-chiese il ragazzo stranito, in effetti il mio aspetto non aveva niente che lo suggerisse, ma almeno dal cognome avrebbe potuto intuirlo.
-Solo da parte di mio padre, che comunque era di una famiglia ricca di coloni che ha perso tutto col comunismo, a quanto ne so, avevano la pelle piuttosto chiara.... Comunque, il cognome Herrero non ti ha mai minimamente suggerito che io avessi origini ispaniche?
-Non ho mai saputo come facevi di cognome,-disse il ragazzo alzando le spalle, per poi trangugiare a fatica un altro boccone- comunque so come ti senti, io e la mia famiglia prima vivevamo in montagna e I miei hanno provato per anni a mettermi sugli sci, ho fatto un po' di snowboard, ma appena acquistato il pensiero indipendente mi sono barricato in casa.
In effetti non mi sarei mai immaginata Armin sulla neve o a fare qualsiasi sport, a meno che il suddetto sport non fosse sullo schermo di un videogioco. Ormai era arrivato a metà pasto, decisi di terminare il suo supplizio, aveva già pagato abbastanza per lo spavento che mi aveva fatto prendere quella mattina.
-Fa schifo vero?- dissi al ragazzo che rimase interdetto.
-Manca un po' di sale, ma accettabile.
-Te lo prendo o butto via?
-Naaa, se lo prendi la mangio,-rispose inclinando il capo e sorridendomi, dopo la manfrina delle verdure verdi non mi aspettavo certo che fosse di bocca buona. Corsi di sopra a prendere il sale nella “cassaforte delle schifezze” , in camera di mio fratello, e tornai in cucina. Il ragazzo mi guardò ancora più confuso.
-Ma dove diavolo tieni il sale? Più passo il tempo qui più accadono cose strane.
-Noi non lo mangiamo, mia mamma non può... Così nascondiamo tutte le cose poco salutari.
-Come mai non può?
-E' ipertesa, soffre di ipercolesterolimia e ha avuto qualche infarto, adesso però la situazione è totalmente sotto controllo: è dimagrita, il colesterolo va bene e ha fatto un intervento che le ha fatto quasi sparire le aritmie.

Non amavo parlare di quello che era successo, ma era stato quello che mi aveva spinto a voler fare medicina, in particolare il giorno in cui era andata in arresto cardiaco davanti ai miei occhi di ragazzina impotente.
Mia mamma aveva già avuto infarti in precedenza, ma non ce ne eravamo mai curati trascurando la cosa, in fondo finché tornava a casa sorridente dopo qualche giorno per noi godeva di ottima salute. Pensare di averla persa mi aprì gli occhi, anzi lo fece a tutti, ma mentre mio padre entrava in depressione e mia sorella maggiore fuggiva in America col chirurgo che l'aveva operata, io iniziai una vera battaglia contro il suo stile di vita a rischio. 
Non mi ricordo quante volte avevo fatto falò di formaggi in giardino o l'accoglievo con un panetto di burro  intimandole “mangialo e crepa” per farla sentire in colpa. 
Avevo vinto la mia battaglia, ora era dimagrita 20 kg, la pressione era sotto controllo e stava piuttosto bene, non alzava più un dito in casa: facevamo tutto io, Jack e papà a turno.
All'inizio mi odiava con tutto il cuore, si sentiva invalida e non voleva cambiare in nulla, diceva che non era più “vivere” se aveva troppe limitazioni e non sopportava che la figlia cercasse di scavalcarla.
Almeno avevo avuto l'aiuto di Jack e papà, anche se quest'ultimo all'inizio parteggiava per lei, e l'indispensabile sostegno di Richard, ormai avevo anche smesso di chiamarlo per cognome. Il dottore mi aveva sempre sostenuto e davanti a lui mia madre si sentiva insignificante, naturalmente la seguivo ad ogni visita.
-Sai è stato Richard, il cardiologo di mia mamma, ad avvicinarmi alla medicina, mi faceva leggere le ecg, mi ha insegnato ad ascoltare I toni cardiaci e mi chiama “piccola collega”. E' sempre un piacere andare alla visita se c'è lui, poi ho anche assistito all'intervento che ha fatto mio cognato su di lei: sono entrati dalla vena femorale, hanno reciso il nodo del seno, poi hanno collegato il pacemaker....-mentre parlavo osservai Armin che giochicchiava con la pasta costruendo torri filamentose con il formaggio fuso -Ok, non te ne frega niente. Chiudo,-continuai.
-No è che tanto non ci capisco.. Ma continua era divertente, avevi la faccia da invasata,-commentò lui ridendo. “Faccia da invasata, eh?” me l'ero a dir poco presa, come se il signor Videogame non avesse un'ossessione, anzi ne aveva e anche di stupide.
-Parla quello che “mangio solo verdure di colore verde”,- gli rimandai ironica- che poi me la devi spiegare questa cosa, cioè se hanno lo stesso colore non hanno anche lo stesso sapore e....
-E' che mi sanno troppo di natura,-rispose lui stizzito. Rimasi alquanto perplessa, mi sporsi all'indietro per afferrare una zucchina che era rimasta sul piano della cucina dal mio precedente tentativo di condimento.  Una volta afferrata gliela lanciai contro, evidentemente non se l'aspettava perché non reagì e la verdura lo colpì in testa, il che mi fece scoppiare in una risatina.
-Ma perché!?
-Sei un verdurazzista!-gli dissi incrociando le braccia-non ti hanno insegnato che non è carino discriminare le verdure dal colore della buccia.
-Ma ahia...-si lamentò lui toccandosi il punto in cui l'avevo colpito.
-Andiamo! Ti ho lanciato uno zucchino non un martello.
Il ragazzo assunse un finto broncio e io decisi di farmi un caffè: accesi la macchina, presi il barattolo del caffè e tentai invano di aprirlo.
Mio padre aveva la bruttissima abitudine di stringere tutti i tappi fino allo sfinimento, solo mio fratello riusciva a vincere a quella stretta.
Provai per due o tre volte, anche passando il coltello appena sotto al coperchio per far passare un po' d'aria, potevo sentire chiaramente Armin ridere sotto ai baffi.
-Vuoi una mano?
-No, ce la faccio da sola grazie. 
-Sicura?
-Sì è una questione d'orgoglio, se lo apri tu non lo bevo, e dato che il caffè è il mio unico sostentamento durante la giornata morirei. E così mi vuoi uccidere?- gli risposi stizzita mentre continuava a ridere, io ero stanca, andai a prendere l'apriscatole in un cassetto, con l'intenzione di fare un buco in quel dannato tappo.
-Ferma così lo rompi!- Armin scattò in piedi e mi prese il vasetto dalle mani, per aprirlo circa in mezzo secondo.
-”So aprire i barattoli da sola e tutto il resto” indovina di chi è la citazione?- mi sbeffeggiò lui porgendomi il caffè, io lo afferrai bruscamente, un po' irritata.
-Quando vivrò da sola non ci sarà nessun uomo che stringe esageratamente i tappi.
-Un Grazie no?- disse mentre riempivo la macchinetta.
-Grazie,- bofonchiai incrociando le braccia,-ma ce l'avrei fatta da sola.
-Avresti un barattolo in meno.
-L'avrei ricomprato.
Bevvi il mio caffè e decidemmo di andare in sala, lo sguardo di Armin fu irrimediabilmente attratto dal mobile delle console. Eppure tutti i fili erano stati accuratamente nascosti da quel perfezionista di mio padre, il ragazzo doveva avere uno strano e quasi sinistro fiuto per queste cose.
-Posso?
-Fai fai, sono tutte cose di mio fratello, ma si possono usare.
Armin aprì l'anta nera e rimase estasiato, come se avesse appena raggiunto il nirvana. 
In effetti mio fratello aveva speso parecchio dei suoi soldi di dubbia provenienza in videogiochi, mi aspettavo che gli mettessero un bel paio di manette un giorno, ma questa è un'altra storia. 
Armin si mise a passare con le dita tra i videogiochi, probabilmente in quel momento né io né il mondo circostante esistevamo più.
Qualche manciata di secondi e svariati mormorii dopo ritornò sul pianeta terra.
-Hai un fratello?
-Sì, ho un fardello maggiore che si chiama Jack, ma dimenticati il suo nome perché è meglio se non lo incontri, fidati... Vuoi giocare?- era una domanda stupida dalla risposta ovvia.
-A cosa?
-Tutto tranne Call of Duty,- ero sempre stata inspiegabilmente impacciata a quel gioco, non mi ritrovavo coi controlli e finivo sempre per guardare il cielo mentre i nemici mi sparavano.
-Vada per COD allora,- disse il ragazzo estraendo il videogame, non feci in tempo a replicare che lo aveva già infilato nella console. Ero sicura che non fosse sordo e che lo facesse apposta.
-Ma...
-Dai, è divertente vederti in escandescenze quando non ti riesce qualcosa.
-Proprio le parole giuste per convincermi.
Nonostante tutto feci un tentativo, ma dopo la terza volta che lui mi ricordava che “Non è un attacco aereo, i nemici sono in basso” e la seconda volta che commentavo che preferivo i giochi di guerra dove potevo fare il cecchino, mi stancai, anche perché il mio personaggio era morto, e mi allungai verso il mobile per  provare a spegnere la console. 
Lui mi bloccò la mano, inutili e goffi anche i miei tentativi di rubargli il joystick visto che non volevo e non potevo avvicinarmi troppo a lui, che continuava imperterrito a giocare, un lampo di genio mi fece notare il telecomando della televisione.
Lo afferrai con prontezza e spensi, Armin mi guardò con disprezzo come se avessi appena ucciso un cucciolo di foca a sangue freddo.
Dopo che ebbe realizzato si alzò intimando di riaccenderla e iniziò a inseguirmi per prendere possesso dell'oggetto e riaccendere la televisione, io mi rifugiai in piedi sul divano, non poteva battermi avevo esperienza di anni e anni di lotta al telecomando con un ragazzo che era quattro volte me.
Poi una voce interruppe il gioco, purtroppo era quella di mio fratello, tornato dall'università, o da qualunque posto spacciasse per l'università, prima del solito.
-Schiforella sono a casa!
Entrò e si accorse della presenza di un altro ragazzo  non eravamo neanche vicini, ma per me era come se ci avesse beccato in una posizione compromettente.
Non importava che io e Armin non avessimo una relazione, c'era un ragazzo in casa e questo era troppo, già per Ken camera mia era diventata un tabù dopo i dodici anni.
Iniziai a pregare sottovoce che mantenesse la calma e controllai le vie di fuga più probabili, ma lo potevo chiaramente sentire sussurrare tra sé e sé “Non posso picchiare minorenni, non posso picchiare  minorenni”. Armin sorrideva e gli aveva porto la mano per stringergliela, forse non aveva abbastanza informazioni per rendersi conto della gravità della situazione.
Jack gliela prese e gliela stritolò, in una più che vigorosa stretta di mano, tanto che il ragazzo, che aveva aperto la bocca nel tentativo di presentarsi, riuscì a pronunciare solo -Ahia..
Le prime parole di mio fratello invece furono:- Quanti anni hai detto che hai?- in quel momento aveva un sorriso a dir poco inquietante.

 
  
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