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Autore: Majic    06/04/2008    4 recensioni
"Lo potevi vedere, nelle prime tiepide giornate di primavera, tutto solo, sulle panchine del parco comunale. Sceglieva sempre la panchina che voltava verso il sole, e guardava per ore un lontano orizzonte, che andava oltre le case di cemento o le macchine che passavano veloci sulla strada. E pensava."
Matt desiderava davvero cambiare il mondo. Lo voleva con tutto il cuore...
Chi lo crede pazzo, chi ride di lui. Chi, forse, vuole davvero comprendere il ragazzo che pensava di poter cambiare il mondo.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per,

 

Per Me,

e il vecchio saggio,

che vive sulle nuvole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Ragazzo che pensava di poter cambiare il mondo.

 

 

 

Lo potevi vedere, nelle prime tiepide giornate di primavera, tutto solo, sulle panchine del parco comunale.

Sceglieva sempre la panchina che voltava verso il sole, e guardava per ore un lontano orizzonte, che andava oltre le case di cemento o le macchine che passavano veloci sulla strada. E pensava.

Sguardo fiero verso l’infinito, sempre il solito auto-ironico sorriso sul viso, e un paio di occhi luccicanti e vuoti. Il vento, che percuoteva i suoi capelli come fossero grano maturo, non lo scalfiva, ne gli faceva distogliere lo sguardo da quell’ orizzonte così lontano.

Il ragazzo si chiamava Matt, ma la pungente ironia della gente aveva storpiato il suo nome in “Matto”. Lo guardavano con gli stessi occhi con cui un politico guarderebbe il suo alleato che lo tradisce, uno sguardo che preserva, nella più nascosta parte dell’ iride, una punta di disprezzo, celata da un filo ingannevole di compassione.

Anche i bambini piccoli, che si trovavano a giocare al pallone, si permettevano di guardare Matt, con aria di superiorità.

Matt, però, non era né matto né stupido, era solo un ragazzo che pensava di aver capito qualcosa in più dei suoi coetanei, un ragazzo che stava solo, non perché nessuno lo voleva, ma perché a lui andava bene così.

Io lo vedevo sempre, quando portavo i miei figli al parco, e rimanevo sempre incuriosito da questa persona, tanto che un giorno mi decisi ad avvicinarmi a lui, giusto per scambiare due parole. Come ogni giorno, mi stavo mangiando una barretta di cioccolato.

Mi sedetti al suo fianco, e girai timidamente il capo verso di lui, quasi a catturare il suo sguardo, così misterioso e sconosciuto a tutti.

“Ne vuoi un po’?” chiesi, porgendogli la cioccolata.

Si girò lievemente, pensò un po’ e poi disse con tono di superiorità misto ad una sincera gratitudine: “No, grazie”

“Ok” risposi, “sicuro?”richiesi.

Ci pensò di nuovo e disse sorridendo: “Ma si, dammene un pezzettino”

Lo sapevo che il tono di superiorità della risposta precedente era solo una difesa alla sua fragilità.

Sorrisi anch’io e gli porsi la cioccolata.

“Tieni”

Ne staccò un pezzo quasi invisibile, e ringraziò. Rimasi quasi sbalordito, ma felicemente soddisfatto. Da quel gesto si capiva bene che Matt, era un ragazzo buono e gentile; molti altri, con il pretesto di un pezzo di cioccolata, avrebbero staccato mezza barretta.

Matt teneva agli altri molto più che se stesso.

Così, dopo aver rotto il ghiaccio, iniziammo a parlare.

“Beh, dimmi ragazzo, come ti chiami?” Chiesi.

“Matt” rispose.

“Piacere Matt, io sono Davide” Nemmeno gli porsi la mano, era tanto fragile, che anche un semplice contatto mi pareva un dispetto nei suoi confronti.

Ripresi a parlare: “Quanti anni hai?”

“Venti” rispose.

Non era un tipo di molte parole, ma mi affascinava e mi affascina tutt’ora, tant’è che mi decisi ad arrivare subito a chiedergli ciò che più mi premeva.

“A cosa pensavi prima?”

“A niente” rispose sogghignando come un bambino che nasconde un lecca lecca dietro la schiena. Rimasi un po’ scosso, ma avevo già immaginato che non mi avrebbe rivelato nulla, così non mi scoraggiai e ripresi: “E tu, mi dici che tutte le mattine che vieni qui, te ne stai seduto immobile, e non pensi a niente?”

“No, ma adesso non stavo pensando a niente…” cercava di riparare un po’ dov’era possibile.

E tutti gli altri giorni a cosa pensi?”

“A tante cose...”

“Ad esempio?”

“E’ inutile che te le dica, tanto non mi capiresti”

“So che ti sembrerà strano, ma ciò che passa per la tua mente quando guardi l’orizzonte mi interessa molto… Sono fatto così” Sorrisi. “Coraggio, dimmi a cosa pensi, e vedrai che capirò” Dissi quelle parole come un buon padre che cerca di farsi raccontare le ultime marachelle dal figlio. Sfoderai tutta la fiducia che potevo trasmettergli.

Sorrise e scosse la testa dicendo: “E’ una storia lunga Davide… Lascia perdere”.

Ma io non sono il tipo che si lascia sfuggire le occasioni, anche piccole, e sapevo  che Matt sarebbe stato disposto a raccontarmi tutto, semplicemente ci girava un po’ attorno, ma con un po’ di pazienza si sarebbe arreso.

“Ho molto tempo sai? Dimmi forza…”

Se proprio ci tieni tanto ti racconterò tutto, ma solo perché sei l’unico che dopo un anno che frequento questo maledetto parco, si è degnato di sedersi accanto a me… Quindi te lo meriti”.

Dissi un sincero: “Grazie”.

E iniziò a raccontare.

 

 

 

Poco più di un anno fa, ero un ragazzo come tutti, uscivo la sera, andavo a ballare… Si viveva felici. In fondo avevo degli amici, una ragazza, andavo bene a scuola, ero libero da ogni ansia e mi sentivo sereno. Non avevo motivi per non esserlo. Poi, piano piano, quella felicità iniziò a starmi stretta. Vidi, e pensai cose che non vidi e pensai mai prima d’allora.

Una mattina, mentre tornavo a casa da scuola, mi imbattei in un barbone, che stava seduto all’incrocio di due vicoli della cittadina. Era vestito di stracci, barba incolta, e una cuffia lisa in testa. Pensai che dovesse essere lì da molte ore… Aveva freddo, coperto solo da una trapunta da bambino. Aveva perso una gamba, non sapevo in quale circostanza, ed ora era li, uno storpio fra i tanti a non viver la vita, con una stampella sulla destra, ed una ciotola vuota nella mano. Quel barbone, lo avevo visto molte volte, quella strada la facevo tutti i giorni, ed era sempre lo stesso, sempre i soliti stracci, sempre la solita stampella, sempre a solita ciotola, sempre vuota.  Come sempre, tirai diritto per la mia strada senza curarmi di lui, fingendo di non avere soldi in tasca, tanto questo è ciò che fa la maggior parte delle persone. Perché non farlo anch’io?

Così aprii le braccia come per dire: “Hey, amico, guarda che anch’io non ho soldi, proprio come te, e non posso farci niente”

Eppure quella volta notai qualcosa che non avevo mai notato prima d’allora. I suoi occhi erano lucidi, sembrava che piangesse davanti ai continui “No” della gente, e la ciotola era ancora vuota. Voltai l’angolo, e intento pensavo ai suoi occhi, e non seppi resistere… Tornai indietro…

Estrassi dalla tasca qualche monetina, il minimo, monete che noi neanche consideriamo. Le poggiai sulla ciotola. E… cosa dire? I suoi occhi sorrisero, mi guardò come ti guarderebbe un bambino cui doni una caramella. Tornai sui miei passi, sicuramente più felice di prima…

Anche i giorni seguenti gli diedi l’elemosina. Ormai era diventato un dovere nei suoi confronti.

In un giorno grigio, bagnato dalla pioggia, tornavo a casa dopo una pessima mattinata a scuola. Il destino non mi dava pace, ero triste… Passai sempre per le solite stradelle, e rividi il solito straccione, seduto al solito posto, trafitto dalle lame pungenti della pioggia. Mi fece pena, con quegli occhi persi nel vuoto. Gli dissi quasi urlando: “Hey! Cosa ci fai sotto la pioggia?! Vieni via che ti ammali!”

“Faccio finta di vivere” disse ironicamente “Non ho soldi, non ho una casa… non potrei essere da nessuna parte se non qui”.

Sotto quella pioggia però non ci poteva stare, si sarebbe ammalato subito. Scavai un poco nel mio cuore e dissi”Vieni con me, ti porto a un bar a bere qualcosa di caldo…”

E risponde: “No, guarda come sono ridotto, bagnato fradicio, sporco, ogni bar mi caccerebbe fuori senza nemmeno guardarmi in faccia!” Da questa risposta si capiva la sua grande dignità.

“Non ti preoccupare” dissi “c’è a due passi il bar di un mio amico, Joe è un tipo alla buona, vedrai che ci saranno problemi”.

Mi avvicinai a lui, tendendogli la mano. “Forza” dissi. Sorrise e afferrò la mia mano, poi si avvicinò affannosamente alla stampella, la afferrò, e ci incamminammo.

Il bar era davvero vicino, qualche svolta per i vicoli e già ci trovammo da Joe.

Aprimmo la vecchia porta cigolante ed entrammo. La luce era fioca, dentro al locale, e Joe, se ne stava dietro al bancone, a pulire il piano sporco di birra.

Alzò lo sguardo e ci vide: ”Ciao Matt, come va?” mi disse con sguardo incredulo. In effetti, era da tanto che non frequentavo quel posto dimenticato da Dio.

“Tutto bene!” risposi “Tu?”

“Si tira avanti”(diceva sempre così).

“Beh, e lui chi sarebbe” mi chiese indicando il barbone.

“Lui?” ero sulla difensiva… dovevo trovare la risposta adatta. Avevo paura che dicendo”è un mio amico” mi avrebbe fatto fare brutta figura, così ripresi: ”E’ il barbone che sta vicino alla piazza, piove, non potevo certo lasciarlo sotto l’acqua e in balia del vento” (sapevo che anche se usavo il termine –barbone- non si sarebbe arrabbiato, era ben consapevole di esserlo e lo accettava).

“hai fatto bene a portarlo qui” disse, poi si fermò un attimo, e chiese: “Cosa prendete?”

“Bevi il caffé?” Domandai al barbone.

“Due caffé allora” ordinai a Joe sorridendo.

Intanto ci sedemmo a un tavolo, il bar era deserto e non fu un problema trovare un posto libero. Non ho mai capito perché, ma il bar di Joe è sempre stato vuoto, pensavo di essere l’unico, in tutta la città a conoscerlo. Solo Dio sa come faceva a vivere con quell’attività…

Aspettammo i caffé in silenzio, un po’ di riposo era più che meritato.

Joe, finalmente ci portò i caffé, ringraziai.

Mi voltai verso il barbone e chiesi: “Hai famiglia?”

“Sì” rispose.

“Hai bambini?”

“Sì, due, gli voglio bene, se non fosse per loro, non starei tutti i giorni a fami prendere per il culo dalla gente che passa”.

Perché ti prendono in giro?”

“No, peggio”

Cioè?” Chiesi incuriosito.

Quando una persona passa vestita con la pelliccia, e poi mi racconta di non avere soldi, non lo sopporto, quando la gente fa così, è peggio di una presa in giro”. Si fermò e riprese: “Tutti ricchi, nel portafoglio, ma quando si tratta di essere ricchi nel cuore e aiutare, guarda caso,  perdono tutti i soldi che hanno.”

“Ti capisco” dissi.

“Oh, no… Non è facile capire credimi”.

Era molto triste pensare a ciò che era costretto a fare per vivere, chiedere l’elemosina non gli piaceva nemmeno un po’.

Perché non cerchi un lavoro?”

“ E secondo te non ho già provato?” disse il barbone con rassegnazione.

Nemmeno lavorano i laureati, figurati me: uno storpio, nero, e ignorante…Se solo avessi ancora gli arti a posto” Disse con auto ironia.

Perché hai perso la gamba?” chiesi un po’ spaventato da ciò che avrebbe potuto rispondermi.

“E’ una storia brutta e lunga” Fece una pausa, sbuffò e riprese: “Qualche anno fa, vivevo a Kabul con la mia famiglia poi, un giorno, mentre ero sull’autobus per andare al lavoro, un kamikaze si fece esplodere. Ci furono molti morti: una ventina. Solo io e un altro ci salvammo... ero gravemente ferito, mi salvai, ma la gamba andò inevitabilmente perduta. Non potendo lavorare subito, il mio capo mi licenziò rimpiazzandomi subito.

Mi impoverii, e tentai di forzare il destino venendo qui, in Italia, ma non mi fu di grande aiuto, dato che anche qui,  per pensare di vivere, dovrei compiere un grande sforzo di fantasia.”

Sentendo questa sua storia mi rattristai tanto, che non volli più tornare su quegli argomenti così crudi.

Bevemmo i caffé, intanto fuori il sole stava facendo capochino da una nuvola grigia. La pioggia cadeva sempre più lenta, avrebbe smesso da lì a poco.

Ci alzammo dal tavolino, per avvicinarci al banco di Joe.

“Quant’è?” chiesi.

“Due”rispose Joe

Tirai fuori le monete dalla tasca di sinistra dei jeans e gli diedi i soldi.

“Ci vediamo Joe!”

“Puoi contarci” rispose con tono di complicità.

Presi il resto e uscimmo dal bar. Il sole si fondeva con la pioggia in un fiume di colori incantati, un arcobaleno si stagliava alto nel cielo. Era così bello che per quel giorno non pensammo più a alle bruttezze del mondo, ma ci lasciammo trasportare, come bambini da quell’ arcobaleno, credendo davvero che in punta si nascondesse un tesoro magnifico.

Io e il barbone ci salutammo al punto in cui ci eravamo incontrati. Gli voltai le spalle e me ne andai.

 

 

La settimana che venne, fui tempestato di pensieri scaturiti tutti da quell’incontro così casuale con il barbone di Via Leoncavallo. Ero come in bilico, le mie fondamenta erano state scosse nel profondo, e la mia vita stava sbandando lentamente su una nuova strada.

Pensavo a quel barbone. Pensavo a quanto doveva aver sofferto nella sua schifosa vita. Una vita che ormai era arrivata a dargli solo fastidio, come una zanzara che punge all’orecchio. Una vita che si era presa il suo animo, L’uomo felice che era, morì con quella bomba. Chi si salvò, fu solo un uomo inutile, triste e abbandonato. Un vecchio amico balordo, di nome destino, si era preso beffa di lui troppe volte, per troppo poco.

Ora la sua vita era priva di significato, viveva solo per i suoi figli, appunto, non per se.

La gente continuava a ridergli alle spalle, a trattarlo come un cane, a pensare che vivesse a loro spese. Ma lui, quella gamba non l’ha persa apposta, fu solo l’ennesimo scherzo del destino. Non voleva vivere con l’aiuto degli altri, ma ne era costretto, lo faceva per la sua famiglia.

La gente però, questo non l’aveva capito. Continuavano a deriderlo, ad offenderlo e a mentire. Tutti ricchi, confronto a lui ricchissimi, ma quando si tratta di tirare fuori dalle tasche pochi centesimi di carità, i portafogli si chiudono su se stessi, come per magia. Mi resi conto dopo diciotto anni di vita, di quanto la gente fosse cattiva, non tutti sono malvagi, è ovvio, ma capii che una buona parte, sarebbe disposta ad uccidere, pur di fare i propri interessi. Non so. Quell’ esperienza mi schiarì gli occhi. Da quel giorno, vidi in un modo più vero, più reale, ogni cosa che mi stava attorno. Anche la scuola mi parve diversa. Mi accorsi che sotto ogni sorriso dei ragazzi, si nascondeva un diavolo, tutti uniti nello stesso gruppo, accomunanti dalla stessa voglia di sbranarsi. Mi accorsi che i razzisti, che la “Buona società” considera i cattivi della situazione, e ha cercato di combatterli con celebrazioni come “il giorno della memoria” sono ancora “cattivi” come quelli che si pensava di avere sconfitto tanto tempo fa. Mi sono accorto che chi è diverso è ancora frustrato, deriso, disgregato dai gruppi, che sia per il colore della pelle, l’aspetto, o le idee. Eppure, ho sempre pensato che tutti gli uomini fossero sullo stesso piano, proprio per il fatto che tutti sono uomini… In effetti, dovrebbe essere così, ma a quanto pare, non lo è.

Mi guardai intorno, lessi i giornali, e vidi solo stupri, ladri, assassini e pazzi scatenati… Gente che per un dollaro avrebbe ucciso chiunque.

Tutti quei pensieri macabri(e purtroppo reali), si susseguivano freneticamente, fino a farmi impazzire.

Abbandonai tutto: scuola, amici, compagnie, divertimento, mi chiusi in camera da solo, perché avevo paura di quel mondo in cui ero costretto a vivere e con cui non avevo più nulla a che fare. Durante la solitudine, cullato dal silenzio, ripensai al barbone. Pensai che bastasse veramente poco a rendere felice una persona. Pensai che il mondo non potesse continuare ad andare così. Pensai che se tutti avrebbero dato un piccolo contributo tutto si sarebbe risolto. Pensai che dovessi iniziare per primo a dire ciò che pensavo, riuscendo pian piano a rendere fragile la gente. Pensavo di aver trovato il modo per sistemare tutto. Pensavo di poter cambiare il mondo.

Così, per rendere pubbliche la mia idea e filosofia, pensai di scrivere delle piccole storie, che raccontavano le mie esperienze, nascondendomi un poco dentro ognuna di esse. Così dedicai molto del mio tempo alla scrittura. La scuola l’avevo quasi abbandonata del tutto, mi dispiaceva, ma in quelle storie vedevo un ideale più elevato dello studio fine a se stesso, io studiavo le persone, i loro vizi e le loro virtù, e raccontavo di tutti tra quelle righe, in cui spesso c’erano pezzo di me e della mia vita. Non riuscivo a stare senza scrivere.

Quando riuscii a raccogliere un numero consistente di storie, ebbi la “brillante” idea di pubblicarle in un libro, che con uno slancio di fantasia chiamai: “Storie”.

Lo diedi ad amici, parenti e professori, un po’ a tutti insomma.

Scrivevo bene, mi piaceva farlo, ma in pochi si congratularono, in fondo i fatti raccontati in quelle storie, erano come piccoli aghi, che andavano un poco a pungere il cuore di ogni persona. Questo nei casi migliori.

La maggior parte dei miei coetanei pensavano che scrivere fosse da effeminati, da bambocci deboli e stupidi. Forse non avevano ben capito che in quelle storie non raccontavo di principesse incantate con lunghe trecce bionde che aspettano sedute su un lago fatato l’arrivo del principe azzurro a cavallo di un ippogrifo, non raccontavo storie rosa né favole. Io raccontavo la verità, ma hanno finto di non averlo capito. E’ facile puntare il dito contro un uomo e accusare, e più facile ancora se sono in tanti a puntare quel dito contro la stessa persona.

Così la gente fece con me. Dissero che ero un omosessuale, e lo ero, per il fatto che se anche perseveravo nel negare, nessuno mi stava ad ascoltare.  Ero solo, per il semplice motivo di aver raccontato la verità. Una verità che tra l’altro, è ben visibile ad ogni occhio.

E caddi, nel burrone più profondo, più oscuro. Mi incamminai per la via del non ritorno. Ero solo, nessuno si preoccupava di me, escluso qualche raro falso amico, che ti viene vicino magari sorridendo, e ti chiede i motivi delle tue sofferenze, solo per sfamare la sua curiosità.

Avrei voluto tornare indietro, lasciar perdere tutto e ricominciare da capo, ma le mie idee si erano radicate nel profondo del cuore, e per mia disgrazia, credevo ancora in quello che facevo. Continuai a scrivere, ma non avevo più nessuna voglia di pubblicare.

La scuola ormai stava finendo, e il calore afoso dell’ estate stava bussando alla porta del cielo. Ormai era inutile riprendere a studiare, così mollai tutto e presi la bocciatura con serenità, anche se i miei non la pensavano esattamente allo stesso modo.

Quel periodo fu buio, terribile e iniziai quasi a credere in Dio. Si sa, quando sei solo, quando sei triste, ti aggrappi a tutto pur di non cadere, ed io che fino a qualche anno fa bestemmiavo, da allora, anche se con un po’ di vergogna, nutrivo la mia fiducia verso Dio. Sapevo che almeno lui mi avrebbe capito, e che tutto alla fine si sarebbe sistemato.

E forse Dio aveva molto di meglio da fare, ma un pochetto ascoltò anche la mia flebile voce, e in estate ritrovai un po’ le forze per risalire da quel maledetto precipizio in cui mi ero cacciato. Riprese l’anno scolastico che ero come nuovo. Non avevo perso le mie idee, le avevo solo un po’ accantonate, tenendole per me, senza pretendere di darle agli altri.

Tornai a studiare, ripresi un po’ i contatti col mondo, e sembrava che la mia vita si stesse raddrizzando.

Però le cose belle si sa, non durano mai abbastanza tempo, per riuscire ad apprezzarle fino in fondo.

 

 

 

Un giorno, mentre eravamo in palestra nell’ora di ginnastica, me ne stavo seduto in panchina a riprendere fiato, quando vidi tre ragazzi dirigersi verso gli spogliatoi. Uno di loro era un mio compagno di classe l’anno precedente, ma gli altri non li avevo mai visti in vita mia.

Non diedi molto peso a tutto ciò, tanto sapevo che gli spogliatoi erano chiusi a chiave, e non c’era pericolo. Così rientrai in campo tranquillo. Infatti quando tornammo negli spogliatoi era tutto a posto, la porta era chiusa, tutto perfettamente in ordine. Troppo in ordine. Ad un certo punto sento un mio amico che urla : “Il portafoglio!” tutti ci girammo verso di lui incuriositi.

“Cazzo, non c’è!”

“Come non c’è?!” chiese Giulio, un nostro compagno.

“Non c’è! Me l’hanno fottuto!!!”

Ma è impossibile… la porta era chiusa! Controlla bene…”

“Controlla un corno! Non c’è!”

Ma chi è stato?”

E me lo chiedi pure? Ma che ne so!”

“Piffy, stai calmo, corro a dirlo al prof.”.

Giulio si mise a correre e tornò in palestra.

Dopo un po’ arrivò il prof ansimante e spaventato. Sapeva che per qualunque cosa fosse successa in quella palestra, la responsabilità era sua.

“Pifarelli, che succede”(Pifarelli è il cognome di Piffy).

“Mi hanno rubato il portafoglio”

E al prof si spensero gli occhi.

“Come rubato?! C’era la porta chiusa…”

“Sì, lo so, ma non c’è…”

“Allora facciamo così: per la ricreazione andiamo a denunciare il furto al preside”

“Ok” disse Piffy un po’ sconsolato, tanto sapeva che il dirigente scolastico non poteva fare assolutamente nulla.

Per la ricreazione Piffy e il prof andarono in presidenza. Non so cosa si dissero, ma il preside l’ora successiva venne in classe a farci un discorso.

Disse così tante cose sciocchezze che la mia memoria ha cancellato, disse però, al termine del discorso, che chi sapeva qualcosa riguardo al furto, poteva andare in presidenza a riferire. Giurò che nessuno l’avrebbe saputo.

Io sapevo molto, avevo addirittura un nome e un cognome, ma avevo paura a parlare, pensavo che potessero arrivare a me, e in qualche modo farmela pagare cara.

Andare o non andare? Testimoniare o non testimoniare?

Solo quel pensiero si attanagliò nella mia mente per almeno due giorni. Poi, presi la decisione. Dovevo parlare, dovevo dire ciò che avevo visto. Io che pensavo di cambiare il mondo, sapevo di dover partire dalle cose più semplici, qui in fondo si trattava solo di fare un nome.

Il giorno seguente, durante la ricreazione, mi presentai in presidenza per testimoniare ciò che avevo visto. Feci il nome e me ne andai , cercando di non attirare l’attenzione di nessuno, neanche dei bidelli, che come sempre stavano seduti a spiare chi andava e veniva, quasi fosse un giornale di gossip sempre aperto.

L’unica persona che venne a sapere di ciò, fu piffy, era chiaro che almeno a lui dovevo dirlo, magari anche per rassicurarlo un po’. Mi sentivo felice, sollevato, e sapevo di aver fatto la cosa giusta. Fu come togliersi un enorme masso dalla testa, ma si sa, raccontare è sempre una liberazione, e i segreti non portano a nulla, se non dolore.

Il preside, con gran serietà, si preoccupò personalmente del problema e dopo appena due giorni, riuscì a recuperare il portafoglio e i soldi di Piffy.

Per mia sfortuna, non fu solo il preside ad agire velocemente.

Quello stesso giorno, mentre tornavo a casa, percorrendo i soliti vicoli della città, fui preso con violenza al collo, e portato in un vicolo cieco.

Mi sbatterono a terra, e lì tutte le mie paure si risvegliarono di colpo: quando vidi i volti di quei tre delinquenti, che persino Dio si rifiuterebbe di guardare in faccia.

Hai capito già a chi mi riferisco. Il capo( che era proprio colui che avevo riconosciuto) mi disse: “Vediamo se adesso impari a tenere la bocca chiusa”.

A quelle parole, tutti e tre si accanirono su di me, con ferocia. I calci e i pugno dopo un poco, furono come coltellate al cuore. Sanguinavo a terra, soffrivo, ma non avevo né il tempo, né la forza di reagire.

Dopo qualche minuto di puro terrore, il capo alzò una mano, e i due si fermarono di colpo. Mi guardarono sorridendo, poi il boss mi sputò in faccia, da vero animale, voltò le spalle e se ne andò, seguito dagli altri due. Rimasi lì, accasciato a terra, nel freddo di quel vicolo, tremante e terrorizzato. Fui trovato dopo un quarto d’ora da un vecchio, che voleva  buttare la spazzatura. Mi chiese cos’era successo, poi non ricordo più nulla. Mi svegliai in ospedale.

Il bilancio per avere detto la verità fu:(avevi messo due braccia rotte amore *-* l'ho tolto...credo che più di due non se ne potesse rompere) braccia rotte, occhi neri, qualche ferita ed ematomi su tutto il corpo. Nessun riconoscimento, nessun grazie. Solo dolore per aver fatto la cosa giusta.

Da quel giorno lasciai andare tutto, mi chiusi su me stesso come una rosa, ed abbandonai ogni persona su questa terra.

Era quello il premio per fare del bene? Il bene degli altri si deve pagare così? Io così non voglio più soffrire. E che il mondo vada come vada, tanto a me non cambia niente sai? Niente.”

 

 

 

Rimasi impressionato da quella storia, non immaginavo che dietro ad una persona chiusa come Matt, si potessero celare tanti sentimenti, tanta vita, tante emozioni. Così dissi: ”Matt, mi dispiace. Che Dio ti benedica, hai sofferto troppo, senza nessuna colpa. Mi hai commosso. Al mondo c’è bisogno di gente come te”.

Matt sorrise e ripresi: “Ma… non ho ancora capito una cosa… perché stai sempre al parco seduto e non dici nulla? Non ho ancora capito a cosa pensi”.

Matt rispose: “Beh, vedi quei bambini?” disse indicando i bimbi che giocavano al pallone “Guarda come sono felici, loro non hanno problemi, ridono, giocano, scherzano e a volte mi prendono pure in giro. Ma li capisco sai? In fondo se non mi conoscessi, mi prenderei in giro anch’io. Mi nutro più che posso della loro felicità, e poi penso a quando saranno grandi, cosa li attende. E il cuore si riempie di tristezza. Alcuni diventeranno cattivi, ladri, violenti e magari si arricchiranno facendo il dolore agli altri. Poi alcuni di loro saranno brave persone, che non si schiereranno per non fare torto a nessuno, e vivranno una vita in sottotono, in silenzio, cercando solamente di non cacciarsi nei guai. Altri invece, faranno come me, si accorgeranno delle cose cattive che gli stanno intorno, combatteranno, e verranno sconfitti, come sempre. E magari chissà, si ritroveranno sulla panchina con me a guardare altri bambini che giocano.

In tutti e tre i casi... si prospetta una vita di merda.

Potranno fingere di essere felici, con una famiglia, soldi e salute, ma non lo saranno mai fino in fondo.

I cattivi vivranno con qualche senso di colpa, e moriranno con tanti sensi di colpa. Gli invisibili, vivranno in silenzio, nella media, senza alti né bassi, e moriranno con una certezza: la certezza di non aver fatto nulla nella vita e di essere passati, come un’onda risucchiata dall’onda successiva, senza lasciare segno di se.

Quelli come me, vivranno soffrendo e moriranno felici, con la convinzione di essere arrivati alla porta della felicità, ma di non essere riusciti a girare la chiave. Peccato, ma almeno hanno cercato di cambiare le cose.

Ma… vivere felici nel vero senso del termine, è impossibile. Pensare di poter cambiare questo mondo orribile è un sogno irrealizzabile, e fino ad ora non c’è ancora riuscito nessuno. Vedi una bella società? Io No. Quindi vuol dire che chiunque ha provato a cambiare la situazione fa fatto la mia stessa fine. Per fortuna che il sorriso di questi bambini da un po’ di felicità anche a noi”.

“Ho capito Matt.” Dissi “non ti arrabbi vero, se ogni tanto ti verrò a trovare su questa panchina?”

“No, vieni pure” Sorrise.

“Bene”

Rimasi lì per un’oretta, a pensare alle parole di Matt.

Guarda la fine del ragazzo che pensava di poter cambiare il mondo.

E quel giorno, il mondo morì di nuovo.





Ringrazio tutti coloro che sono arrivati a leggere tutta la storia... se avete qualche complimento da farmi, o non avete capito qualcosa, o avete qualche critica... Mettete tutto in una recensione **Grazie mille a tutti! Ciao!

   
 
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