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Autore: shimichan    13/10/2013    3 recensioni
Sono passati anni e Shinichi è un uomo adulto, che si trova a fare i conti con i propri ricordi.
Attraverso i suoi pensieri, sospesi tra presente e passato, scoprirete cos'è successo e come si è trasformata col tempo la vita di un diciassettenne ormai cresciuto.
Dal capitolo 19:
L'amore è una grande, esigente domanda su di noi, per questo amare è così difficile
Dal capitolo 26:
…il dolore non passa, non passa mai, però col tempo diventa diverso, il suo peso è diverso; ad un certo punto diventa sopportabile, si trasforma in un peso di cui puoi liberarti, strisciando, e che ti porti dietro, in tasca, come un mattone. Riesci addirittura a dimenticarlo, per un po’, ma poi ti metti la mano in tasca per qualche ragione ed eccolo lì…Potrebbe sembrare tremendo, ma è l’unica cosa che hai al posto di tua moglie o di tuo figlio e lo tieni con te, così non se ne va mai…
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Shinichi Kudo/Conan Edogawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buonasera!!! Oggi mi trovate qui sopra per svariati motivi...il primo è scusarmi con tutti voi per questo imprevisto ritardo.
Purtroppo, anche se la storia era bella pronta da Agosto, il mio computer è andato in tilt...l'ho portato a riparare (scheda video andata x__x) e mi hanno detto che sarebbe stato pronto entro quindici giorni...quindi, naturalmente, l'ho riavuto ieri...-__-!
Il secondo motivo, che è quello che mi preme di più, è ringraziarvi tutti, nessuno escluso.
Grazie a chi mi a seguito, mi ha messo tra i preferiti, a chi a recensito.
Grazie per aver sopportato i miei ritardi, il 'mio tirare un pò la storia per le lunghe', per quei capitoli densi di maliconia.
Grazie di tutto, insomma!!! TT___TT
Ed ora....gran finale con sorpresina!!!!

Baci a tutti

Shimichan

 


Epilogo


 











“Ricordati sempre, io ci sarò. Ci sarò nell'aria.
Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte,
chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla.
Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio.
In esso ci ritroveremo, perché nulla è per sempre.
                                             Neanche la morte”
 
 
Ho fatto un sogno, quella notte.
Ero in una stanza, piena di banchi ordinati in cinque file, disposte davanti ad una cattedra.
A giudicare dall’altezza delle sedie, doveva trattarsi di un’aula delle elementari: le mie ginocchia, infatti, superavano abbondantemente gli schienali e li colpivano ad ogni movimento, producendo un rumore metallico che si disperdeva nel vuoto.
Sulle pareti erano affisse alcune mappe geografiche, compresa quella del Giappone, dove un pallino rosso indicava la nostra città, le tabelline numeriche e dei disegni stranamente famigliari.
Mi sono avvicinato ad una finestra, sperando di scorgere qualche elemento che mi aiutasse a capire dov’ero, ma l’unica cosa che vidi fu una luce bianca e fumosa, molto simile ad una nebbia iridescente. Era tutto così reale che iniziai a pensare sul come fossi finito lì, finché la porta non si aprì, spingendomi a voltarmi e ad assumere, d’istinto, una posa plastica, quella che la maestra mi aveva insegnato da bambino.
Sotto lo stipite, c’eri tu. Tu, come ti rivedevo nel mio ricordo più felice, con il vestito senza maniche a fiori gialli e il cappello di paglia dall’ampia falda stretto in mano, con i piedi nudi coperti di sabbia e i capelli scompigliati dal vento.
Ho scoperto di sognare nel momento in cui mi hai sorriso: eri così vera, così viva
“Immagino che abbia un senso, non trovi?”.
Il tuo sguardo ha dardeggiato curioso sulla classe, tornando, infine, a posarsi sul mio, ancora incredulo.
“Oh, Kudo sei il solito! Non te ne sei accorto, vero? È qui che ci siamo conosciuti!”.
Hai mosso alcuni passi, raggiungendo la penultima fila, e hai tamburellato le dita su un banco.
“Tu eri seduto proprio qui!” hai detto col tono tronfio di quando avevi ragione, ma, al contrario di un tempo, io non ti ho contradetto. Sono rimasto fermo a guardati, mentre incrociavi le braccia al petto e torcevi il naso, mentre la tua espressione imbronciata si addolciva ed le tue labbra si appiattivano, mentre con gli occhi mi supplicavi.
“Shiho…”. Sono corso ad abbracciarti ed ho sentito di nuovo il tuo cuore battere contro il mio immaginando come sarebbe stato non svegliarsi più, vivere in quel mondo estraneo alla crudeltà tempo, con Shuichi, con nostra figlia: recuperare quanto era andato perduto e costruire quello che c’era stato rubato. “Shinichi…”.
Hai sfregato la testa sulla mia giacca, posando poi il mento sul mio petto perché potessi incrociare il tuo sguardo.
“…sono morta, siamo morti, Shinichi. Non è una cosa che puoi cambiare”.
“Lo so”.
“Lo sai, ma non lo accetti”. Ti sei scostata per farmi vedere il volto rammaricato.
“Come posso?”
“Ce la farai”.
Ho socchiuso le palpebre, cercando di convincermi che eri solo un frutto del mio inconscio e che le tue parole altro non erano che una rielaborazione di quelle del professore, ma quando le ho riaperte la tua immagine ha accecato la ragione.
Mi hai preso la mano sinistra, accarezzando la fede. “Devi lasciarmi andare”.
“Lasciarti andare?!” ho ripetuto con più enfasi, quasi urlando. “Te ne sei già andata!”.
“Le tue parole e i tuoi pensieri sono discordanti” e ti sei seduta sopra al banco, facendo dondolare un paio di volte le gambe prima di accavallarle. “Ricordi quando eravamo qui? C’erano dei giorni in cui mi dicevi che ero strana ed io ti rispondevo che era solo una tua impressione; era una bugia che tu finivi sempre per smascherare. Credi forse di saper mentire meglio di me?”.
Ho sospirato, senza trovare un’obiezione convincente.
“Smettila di fartene una colpa, di chiederti cosa sarebbe successo se avessi intuito subito a verità. Non serve a nulla”.
Poi ti sei voltata verso l’uscio, come se avessi sentito qualcuno chiamare il tuo nome e ti sei alzata, lisciandoti le pieghe del vestito. “Devo andare” hai sussurrato.
“Di già?”.
Mi hai accarezzato la guancia, annuendo. “Sai. Quel giorno ho provato ad immaginare come sarebbe stata la nostra vita se…avessimo avuto più tempo e l’unica cosa che mi veniva in mente era quant’ero felice con te e con Shu…perciò ho pensato che sarebbe stata semplicemente così: felice”.
Mentre ti avvicinavi alla porta, ho allungato una mano per afferrarti, ma la distanza che ci divideva era divenuta improvvisamente incolmabile, così ti ho chiamata.
“Shiho, io…”. La mia voce suonava strozzata.
C’erano moltissime cose che avrei voluto dirti, eppure non sono riuscito a pronunciare neanche la più semplice, ma tu hai capito e mi hai sorriso –il sorriso della foto, prima di sparire, inghiottita nell’oscurità del corridoio. “Anch’io”.
 
Mi svegliai di soprassalto, accorgendomi di essere andato a letto vestito.
Sapevo che nei sogni si nascondono messaggi del nostro subconscio diretti a noi stessi.
Ma se così fosse, mi chiedevo, perché avevo sognato quella tua richiesta? Forse una parte di me era pronta, voleva cambiare, trasformare il dolore in qualcosa di diverso.
Ancora scosso, nell’alzarmi, non mi resi conto di aver fatto cadere il libro, che la sera precedente non ricordavo aver preso.
Lo trovai solo dopo essermi lavato, aperto sul pavimento.
Era il romanzo custodito nel tuo comodino. Ho finito di leggerlo ieri, ma quel giorno mi soffermai solo sulla pagina d’appendice che, nella caduta, si era stropicciata.
La strappai, cacciandomela nella tasca del cappotto, prima di uscire.
 
 
A quell’ora, il cimitero era deserto, fatta eccezione per il guardiano ed una signora che incontrai all’ingresso.
Stavo fermo sul cancello da un paio di minuti, quando una voce alle mie spalle mi chiese se avessi intenzione di entrare o meno. Mi scostai, addossandomi alle inferiate per lasciarle il passo, ma lei non si mosse.
Guardò il mazzo di fiori che avevo in mano, poi aggrottò la fronte: più che contrariata, però, la sua espressione mi apparve intenerita. “Per un amico?” chiese.
“No. Mia moglie e mio figlio”.
“La prima volta è sempre la più dura” continuò. “Poi s’impara che non sono davvero qui, ma ci si viene comunque. Per abitudine suppongo”.
Non c’era rimpianto nella sua voce, solo una triste nota di circostanza; la stessa che vidi nei suoi occhi acquitrinosi, ma stranamente non mi sentii compatito. Era come se valutasse il suo dolore alla pari del mio, nonostante suo marito fosse morto di vecchiaia, mentre tu non eri arrivata nemmeno a lamentarti delle prime rughe. E scoprii quanto fosse liberatorio incontrare una persona che non vedesse la mia storia, prima di vedere me.
L’aiutai ad attraversare l’inizio del viale, che il ghiaino rendeva instabile per le sue gambe stanche, e ci scambiammo alcuni aneddoti. Aveva vissuto trent’anni con il compagno di banco delle medie che era diventato suo marito, finché un incidente non glielo aveva portato via. “Per anni ho desiderato la morte, ma non sono mai riuscita a compiere quel gesto. E sa perché? Perché così facendo l’avrei ucciso una seconda volta”.
Seguì un lungo silenzio.
“Mi lasci pure, ora. Sono arrivata” annunciò d’un tratto.
Ci salutammo cordialmente, dandoci del ‘tu’ come due vecchi amici.
“Strana scelta, le camelie intendo”.
Fissai il mazzo che tenevo in mano e poi le sue spalle. “Dici?” chiesi preoccupato.
Le avevo scelte, credendo ti sarebbero piaciute, senza pensare al luogo in cui le avrei deposte e la sua sorpresa seminò il dubbio che, forse, avrei dovuto fare affidamento sull’esperienza ed i consigli del fioraio. Un dubbio che svanì quando concluse: “La maggior parte delle persone pensa a quello che non c’è più…è bello vedere qualcuno che ricorda cosa c’è ancora”.
 
Le tombe di Akai e di tua sorella si stagliavano luminose sotto il sole del mezzogiorno.
Incassate nel marmo, le lapidi di pietra chiara recavano solo il nome dei loro ospiti e alcune dita di polvere, che conferivano un senso di abbandono, così come le foglie secche sparse attorno al vaso vuoto. Lo riempii io, con un germoglio, sperando di riscaldare l’atmosfera cupa che le circondava. Poi, osservando il mio operato, capii che il candore di un fiore non sarebbe servito a molto: era la crudeltà del loro destino a permeare la pietra, non il grigiore del suo stato.
A pochi passi di distanza, trovai le vostre.
L’incisione dorata scintillava, riflettendosi sul marmo chiaro, dove una piccola cornice ovale mostrava i volti sorridenti di chi non sarebbe mai tornato. Avevano scelto una foto che vi ritraesse insieme: tu, sporta in avanti, che sbirciavi sottecchi l’obiettivo, mentre Shuichi, seduto sulle tue ginocchia, agitava le manine chiuse in un pugno di saluto; entrambi con negl’occhi la gioia ignara verso un futuro che non vi avrebbe mai sorriso come, invece, stavate facendo voi.
Sospirai, mentre il mio cuore iniziava a battere in modo diverso.
In quel momento mi vennero in mente tanti piccoli gesti che mi mancavano.
Il tuo allungare i piedi freddi sotto le lenzuola nelle serate d’inverno, il modo in cui ti muovevi per la cucina, il suono della tua risata che non si propagava mai in tutta la casa, ma restava chiuso nella stanza in cui c’eri tu, come se non avesse il permesso di allontanarsi.
La piega delle tue labbra se qualcosa non ti convinceva, la posa che assumevi quando aspettavi, con le braccia incrociate al petto e la testa leggermente inclinata verso la spalla.
Il tuo modo di pronunciare ‘Shinichi’, sempre flebile alla fine, l’arroganza che mostravi nel sostenere le tue idee e l’imbarazzo di cui si coloravano le tue guance se venivi pungolata sui tuoi difetti, l’aria infantile che ti si scolpiva in viso davanti ad una sorpresa: cercavi sempre di nasconderla...
Mi mancavano certo, ma nessuno me li avrebbe portati via.
Per troppo tempo ero rimasto attaccato alla tua memoria come se fosse la scialuppa di un naufrago: eri diventata un feticcio a cui dedicare le parti più deboli di me stesso. Solo quando ho sostituito la rabbia e la commiserazione con il sentimento della gratitudine, ho cominciato a sentirti di nuovo viva.
Posai le camelie sul marmo e, in una piccola fessura, incastrai la pagina del libro, dove poche lettere erano perfettamente leggibili nonostante l’avessi piegata più volte:
 
L'uomo vede una fine e un inizio,
ma non è così.
La vita è una ruota, dove tutto sempre ricomincia


 
Mentre ascoltavo il viale scricchiolare sotto ai miei passi, mi venne spontaneo sorridere ripensando alle parole della vecchietta che avevo aiutato all’ingresso.
“Perché cos’hanno di speciale le camelie?”
“Vogliono dire: Grazie”.
 
 
 
 
 
 
  
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