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Autore: Dasvidania    20/10/2013    4 recensioni
Cosa fare quando il più putrido dei pericoli si annida nella tua anima?
Slade, dopo la sconfitta di Trigon, ha bisogno un'ultima volta del potere di Raven, ma questa volta unicamente per se stesso.
Si instaurerà così un malato legame tra i due, un legame fatto di fiamme e tenebre, di odio e dipendenza, che potrebbe salvarli tanto quanto annientarli. (possibile RavenxSlade e RavenxRobin, possibile in quanto la storia è ancora in fase di costruzione )
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Raven, Robin, Slade
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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L’urlo di un uomo riecheggiò nella densa oscurità.

La frustrata lacerò la carne della schiena, nuda e orrendamente decorata da lunghe strisce rosse da cui colavano righe di sangue, firme indelebili di dove il nerbo era calato straziando la pelle.

Il corpo dell’uomo ero appeso per le mani, sospeso e con I polsi scorticati dalla dura corda che si stringeva intorno ad essi, spogliato dai suoi abiti e nudo nella propria umiliazione, mentre larghe porzioni di carne erano penose portatrici di profonde ferite.

Il volto dell’uomo si mostrava ricoperto da uno spesso strato di sofferenza, sporco e sudore.

Un’altra sferzata calò su di lui.

Strizzò gli occhi  e  morse il labbro inferiore per trattenere un nuovo gemito, stringendolo fino a sentire il familiare e ferroso sapore del sangue.

Intorno a lui l’oscurità più cupa nascondeva figure ed oggetti, facendo emergere il pallore della sua pelle anemica dai profondi strati di tenebra che lo circondavano: un macabro burattino sospeso, il capo chino in segno di abbandono e disperazione.

Si poteva di tanto in tanto avvertire un brusio di voci maligne, interrotto da risate stridenti e sguaiate che accompagnavo l’apparizione fugace di occhi luminosi e crudeli.

I rantoli dell’uomo si dipanavano perdendosi in un’aria pesante e tossica, che rodeva I polmoni come braci ardenti e si incollava sulla pelle come un velo di spilli acuminati, mentre la gola bruciante non aveva più forza per emettere parole, stanca quasi quanto la sua mente, annebbiata dallo strazio.

Braccia e spalle pulsavano senza sosta, slogate e deformate dal peso che il corpo sospeso esercitava su di loro, troppo a lungo lasciato appeso.

Ogni cosa in quel luogo era dolore e pazzia, non esisteva altro che il tentacolare tormento che attanagliava ogni parte del suo essere, il buio senza confini e quelle inquietanti presenze che in esso si muovevano, torturandolo, pizzicandogli la carne, leccando il sangue che gli colava sulla pelle e fissandolo con atroci occhi privi di pietà.

Era il trionfo della follia, il banchetto dell’orrore.

Decine di mani dalle lunghe dita appuntite lo artigliarono, pungendolo e stringendolo come uno stormo di insetti famelici, e slegarono le corde che lo stringevano, facendolo cadere pesantemente a terra.

Ma non ci fu pace, perchè venne di nuovo stretto in quella morsa di falangi scheletriche che si apprestarono a trascinarlo per terra, conducendolo al pari d’un peso morto o di un agonizzante animale da macellare verso qualcosa che temeva profondamente.

L’uomo si lamentava, troppo prostrato per articolare richieste d’aiuto, mentre stringeva debolmente la terra sotto le sue mani, tentando con disperata irrazionalità di trattenersi ed impedire che lo trasportassero verso l’orribile oggetto che cominciava ad emergere dall’oscurità.

Si delineò una grata di metallo un poco sollevata dalla terra, sotto la quale sfavillavano e sfrigolavano grossi pezzi di braci in fiamme.

La superficie di metallo era d’un rosso vivo, arroventata dal calore emesso dal carbone.

“No…No…NO”

La voce dell’uomo ripeteva con tormentosa ripetitività quella singola parola, sputandola fuori dalla gola con voce roca e flebile come se ogni sillaba fosse di carta vetro e chiodi.

Mani impietose lo sollevarono, calandolo sulla grata e costringendolo a sdraiarcisi sopra, schiena rivolta alle braci, per poi chiudere anelli di metallo sulle sue caviglie e polsi, imprigionandolo alla struttura.

Un nuovo urlo, stavolta tanto forte e deformato da risultare disumano, più simile all’orribile lamento di un animale, scaturì dalla bocca dell’uomo, frantumando l’ovattato silenzio e coprendo lo sfrigolare della pelle nuda che bruciava a contatto con il ferro arroventato.

Il corpo iniziò una istintiva lotta contro la tortura, dibattendosi posseduto da scosse e spasmi.

Il grido cresceva e si espandeva nello spazio vuoto, mentre la pelle bruciata si ricopriva di bolle ed ustioni e le membra si contorcevano inutilmente tentando di sfuggire all’orribile ordalia del fuoco.

Altre risate si alzarono dalle tenebre e qualcuno iniziò a gettare sale addosso al corpo martoriato, come crudeli fiori buttati sul cadavere di un volto dimenticato.

Slade poteva avvertire l’odore acre della sua stessa pelle venire cotta e deturpata, il raccapricciante fetore della carne bruciata a impregnargli le narici di un nauseabondo profumo di morte.

Mentre il suo grido non accennava a scemare, sentì la propria sanità mentale scivolare fuori dalla gola insieme ad esso, svuotandolo completamente.

 

Aprì gli occhi e l’urlo che gli vibrava in gola si spense nel medesimo istante.

Slade era sdraiato nel letto, ricoperto dal proprio sudore e immobilizzato dal terrore.

Non riuscì a muoversi per parecchi istanti, gli occhi sgranati fissi al soffitto e il corpo teso che rifiutava di abbandonare il proprio immobile panico.

Le immagini dell’incubo si riflettevano nei suoi occhi e la scia di orribile sensazioni che aveva provato indugiavano ancora nel suo corpo, strisciando sulla sua pelle come una schiera di viscidi serpenti.

Ancora una volta aveva fatto quell’incubo, ancora una volta il suo sonno era stato il palcoscenico di orribili torture e disumane atrocità che lo vedevano come indiscusso protagonista, nonchè vittima.

La infinita varietà di abusi che ogni notte gli venivano riversati addosso all’interno di quei sogni morbosi non smetteva di atterrirlo, tanto quanto il realismo agghiacciante che li permeava.

Si massaggiò I polsi, come per dimostrare a se stesso come la pelle fosse integra e liscia e nessuna corda l’avesse lacerata.

Allora si passò le mani sul viso, tergendolo dal sudore e sperando di togliere con esso il velo di angoscioso panico che lo avviluppava ad ogni risveglio.

Sospirò pesantemente, trattenendosi dall’emettere un altro urlo, benchè stavolta di rabbia e frustrazione.

Il momento del riposo da troppo tempo stava diventando un odioso appuntamento con sogni fatti di sangue e tenebra, tremende visioni che lo stava lentamente logorando.

S’alzò, appoggiandosi pesantemente a un mobile e riflettendosi nello specchio appeso sopra di esso.

Guardò il proprio viso, osservando un volto che riportava I segni di quel sonno disturbato.

La pelle pallida brillava nel buio di tinte malsane, mentre gli occhi erano cerchiati da profonde occhiaie violacee e conservava una eccessiva lucidità, facendolo apparire malato ed esausto.

Non era solo la sua mente a risentire di quegli incubi, ma il suo aspetto rifletteva gli effetti che poche ore di sonno disseminate di terribili esperienze gli stavano causando.

Digrignò I denti con rabbia e strinse I pugni, furiosamente sfinito.

Da troppo tempo quella situazione non aveva un fermo, il fatto di non aver alcun controllo su quel male che lo stava divorando lo riempiva d’una collera cocente quasi quanto  il ferro che nell’incubo l’aveva orribilmente ustionato.

Afferrò la maschera appoggiata sul mobile e la indossò, urlando il nome di un suo sottoposto.

“Portala nell’arena.” Sibilò con fredda ira alla comparsa di quest’ultimo, continuando a fissare il proprio riflesso, dove la maschera ora nascondeva le tracce del cancro onirico che lo stava consumando.

 

Per quanto le fosse difficile misurare lo scorrere del tempo chiusa in quella cella, Raven era piuttosto sicura che fossero passati due giorni dal suo sequestro.

Due lenti giorni in cui non le era stato concesso nè cibo nè acqua, nessuna assistenza, ma solo silenzio, timore e l’inquietante spettatore nero che la osservava a intervalli irregolari.

Ancora non sapeva nulla di ciò che l’attendeva, poichè Slade non era più ricomparso dopo averle lanciato quegli enigmatici indizi privi di reali conferme o smentite circa le teorie che aveva potuto formulare.

Non si sarebbe mai aspettata di desiderare la ricomparsi di quell’uomo, eppure ora avrebbe accolto positivamente l’idea di vederlo riapparire oltre quell’odioso vetro pur di rinunciare a un poco dell’incertezza che avvolgeva la sua prigionia.

Per quanto riguardava I lati psicologicamente snervanti dell’accaduto, era riuscita a mantenere la sua mente sommariamente insensibile all’anomala situazione, appellandosi al suo autocontrollo e al distacco dai bisogni attraverso la meditazione, attingendo dalla propria freddezza ciò che le serviva per non lasciarsi prendere dal panico.

Aveva vissuto tante brutte esperienze, talvolta peggiori di quella attuale, e ne era sempre uscita integra grazie alla misura e all’autodisciplina, perciò sapeva di avere gli strumenti necessari per non perdersi d’animo nè rovinarsi con le sue stesse mani.

Nonostante ciò, il suo fisico stava risentendo parecchio della situazione: prima stressato dal trasporto dentro al cerchio demoniaco, poi debilitato dal digiuno.

Se la sua mente era forte, il suo corpo era spossato e privo d’energie.

Forse fu anche per questo che per gli automi di Slade fu semplice metterla fuori gioco: entrarono nella cella senza preavviso, puntandole contro un’arma dall’aspetto poco ordinario.

L’escalation di eventi fu veloce, e non le lasciò tempo di pensare.

Un anomalo proiettile le si conficcò nel collo, e tutto divenne sfocato, prima di sparire in un incosciente oblio.

Quando si risvegliò, la testa dolente e gli arti pesanti, era in un ambiente nuovo: la sala era molto grande, ma ripetitiva nell’assoluta mancanza di arredi o decori.

Era un’altra stanza dalle pareti metalliche e dal pavimento freddo, uguale a tutte quelle che aveva visto finora in quel luogo sconosciuto, e stranamente non sembrava aver porte d’entrata o d’uscita.

Mugugnò fra sè, sollevandosi appena da terra e interrogando il proprio corpo: era intorpidito dalla sostanza che le avevano iniettato, reduce dal breve coma in cui l’aveva indotta, mentre I suoi pensieri si stiracchiavano confusi e assonnati.

Con lentezza inebetita notò altri simboli grezzamente inciso sulle pareti, ma differenti da quelli presenti nella sua cella.

Improvvisamente si sentiva più leggera, come se pesanti catene si fossero sciolte, lasciandola libera: I suoi poteri scorrevano di nuovo con indipendenza nella sue vene, non più limitati da oscuri sigilli demoniaci.

Era il momento di fuggire.

Le bastarono pochi secondi per decidere di agire: il suo corpo venne interamente coperto dal suo nero campo d’energia e la sua figura si trasformò in quella d’un corvo che sfrecciò verso il portale che aveva creato nella parete più vicina.

L’ impatto col muro fu violento e inaspettato, la sua magia si dissolse e Raven cadde a terra, incapace di penetrare il gelido metallo.

Gemette toccandosi la spalla contusa, capendo la sua ingenuità: sebbene I suoi poteri fossero privi di vincoli, I simboli sulla parete erano una barriera che le impediva di trapassare le mura e fuggire.

“La fretta è una cattiva consigliera, mia cara” la voce di Slade le carezzò le orecchie, facendo eco a ciò che le aveva già detto al loro precedente incontro.

Una porzione della parete, con uno scatto meccanico, s’era rivelata una serranda attraverso cui l’uomo aveva avuto accesso, chiusasi immediatamente alle sue spalle con un tonfo metallico.

Raven si voltò verso di lui, sentendo nuovamente la rabbia pizzicarle le viscere, umiliata dalla pietosa scena di stupidità a cui s’era prestata.

“Sto iniziando a stancarmi di questo gioco.” sibilò, alzandosi e dedicandogli uno sguardo d’odio.

“Presto capirai che non è nemmeno cominciato” con questa frase Slade si lanciò contro di lei e la colpì in pieno viso, facendola sbattere contro il muro e cadere nuovamente a terra.

Non le lasciò il tempo per rendersi conto dell’accaduto, che l’afferrò per l’abito e la scaraventò lontano.

Raven rovinò sul pavimento, ma ebbe la prontezza di rialzarsi e portare le mani di fronte a sè  creando un nero scudo contro cui si infranse il nuovo assalto di Slade.

Non aveva il tempo per pensare, per giustificare razionalmente il fatto che ora Slade sembrasse intenzionato a farle del male, poteva solo pensare ad un modo efficace per renderlo innocuo.

Era tremendamente debole, priva d’energie, e quella stanza era vuota di qualunque oggetto potesse servirle per colpire il suo nemico.

Un pugno frantumò il suo scudo, troppo flebile per resistere, e l’urto la colpì in pancia facendola piegare sotto una fitta di dolore.

Con una gomitata le colpì la schiena, facendola piegare nuovamente a terra.

Raven non perse tempo, ignorando il dolore rotolò sul lato e si rialzò, mentre le sue mani si ricoprivano di nera energia sotto forma di artigli rapaci.

Si buttò contro Slade, e I suoi artigli ferirono profondamente la carne delle braccia, poste di fronte al corpo in forma di difesa.

Tentò d’infliggere un nuovo colpo, ma venne schivato, e le mani dell’altro la afferrarono, facendola girare su se stessa.

Raven in meno d’un battito di ciglio si trovò scaraventata contro la parete, I polsi immobilizzati dietro la schiena dalle mani di Slade ed il suo corpo a premerla contro la parete, rendendole impossibile I movimenti.

“Non essere patetica, Raven” le sussurrò all’orecchio, malignamente.

“Sei un vigliacco” sputò fuori dai denti le parole con malcelata rabbia “Mi hai drogata e lasciata senza cibo.”

La risata di gola dell’uomo vicino al suo viso la fece rabbrividire.

“Vedi ciò che voglio mostrarti?” chiese con candore l’altro “La tua parte umana è fragile, inerme di fronte a semplici ostacoli come questi.”

Con un ringhio di rabbia un nuovo scudo si creò fra i loro corpi ed esplose in frammenti di buio che sbalzarono Slade lontano da lei.

Allora si girò, unendo le mani e lanciandogli contro un dardo d’energia nera che lo colpì in pieno petto, facendo cadere indietro con un lamento sorpreso.

Quando si rialzò, gli ci vollero pochi secondi di tornarle addosso, colpirla duramente con calcio sul viso, afferrandole poi la testa e sbattendola con violenza contro la parete metallica.

Raven non resistesse, non ce la fece, prostrata dalla stanchezza e dal dolore, accentuato dall’urto che le aveva quasi fatto perdere I sensi.

Sentì un viscido rivolo di sangue colarla sul lato del viso.

S’accasciò, gemendo sconfitta.

Slade l’afferrò per I capelli, sollevandola.

“Sei debole, Raven.” Mormorò con soddisfatta cattiveria avvicinando I loro visi “Ma se mi ascolterai, tutto questo cambierà. Tornerò da te e finalmente potremo discutere del futuro, potrai accogliere il progetto di cui farai parte e dimenticare ogni inutile fantasia di fuga o libertà.” 

La voce dell’uomo le arrivò distante e confusa, mentre I suoi occhi vagavano sconfitti e dolenti sui contorni della sala.

Sentì il suo corpo cadere nuovamente a terra, e i passi di Slade che s’allontanavano.

Braccia forti e fredde la trascinarono via, le braccia degli automi dell’uomo che così l’aveva ridotta, e ben presto le forme sfocate della sua cella tornarono ad essere il miserabile sfondo di quella confusa agonia.

--- Nel prossimo capitolo ci saranno finalmente delle risposte, grazie a tutte per le recensioni e spero che sia valsa la pena di leggere.
  
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