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Autore: whitemushroom    25/10/2013    4 recensioni
Alcuni anni prima delle vicende di FF IX, Kuja si trova per conto di Garland in una missione in apparenza semplice. La realtà è molto più complessa, perché l'osservatore stellare ha già iniziato a far girare la ruota che condurrà l'angelo della morte a trionfare su tutta Gaya. L'ignaro Jenoma scoprirà che i mostri peggiori sono quelli contro cui non si può combattere, ma farà anche un incontro che cambierà per sempre il suo destino...
Questa storia può essere letta in modo totalmente autonomo ma può anche essere considerata come il seguito della one-shot "Non un Jenoma"
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Kuja
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Non un Jenoma - e altri racconti.'
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Capitolo II

Ma non avevo creato un’illusione per allontanarli da qui?
Almeno venti burmesiani erano comparsi nella galleria, frapponendosi tra lui e l’uscita. Erano tutti più alti di lui, e sebbene i loro disgustosi musi da topo fossero nascosti sotto i cappelli dalle larghe falde era certo che tutti i loro sguardi fossero fissi sulla sua figura. Un muro di lance era schierato per sbarrargli la fuga, e cinque soldati si erano fatti avanti per affrontarlo; l’arma che gli stava punzecchiando il petto era impugnata da una burmesiana all’apparenza molto giovane, con un vestito rosso troppo grande per lei ed un cappello dello stesso colore.
“Arrenditi e metti le mani bene in vista!” squittì lei nel suo scarso Comune per farsi comprendere. I suoi compagni si limitarono a fare cenni di assenso ed a stringere le fila, mentre dalle loro spalle veniva il suono di ulteriori rinforzi. “Seguici senza opporre resistenza ed il nostro Re si mostrerà generoso con te, umano!”
Generoso …
La parola rimbombò nella su mente, ma con la voce di Garland. Una voce che gli diceva di considerarsi fortunato, perché un creatore meno generoso di lui lo avrebbe privato dell’anima al primo accenno di ribellione. E lui era un creatore generoso, perché preferiva correggere le sue mancanze piuttosto che incenerirlo e ricominciare tutto il lavoro dall’inizio.
Generoso.
Un re generoso. Come Garland.

Il cuore iniziò a battergli all’impazzata. Una soluzione. Doveva trovare una soluzione.
Doveva trovare subito una soluzione o il re generoso avrebbe appeso il suo teschio nella caverna insieme a quelli dei draghi. Guardò prima la burmesiana infuriata, poi i suoi compagni e la punta delle lance. Le parole della creaturina rossa gli suggerirono una possibile via di fuga, anche se …
“Credo siate in errore …” disse, sollevando le braccia. Parlò in burmesiano, scandendo bene le parole di quella lingua rozza e disgustosa che aveva studiato solo perché aveva già imparato tutte le altre a disposizione –e non avrebbe pronunciato una sola parola nell’idioma dei Qu nemmeno sotto tortura-. I topi giganti lo fissarono incuriositi: nessun umano conosceva la loro lingua.
Ed ottenne l’effetto desiderato.
Guardarono il suo viso e, per un solo istante, ignorarono le mani. “… non sono un umano”.
Quando l’incantesimo di luce abbagliò tutta la stanza iniziò a correre. I burmesiani mandarono delle urla, temporaneamente accecati, ma Kuja si lanciò giù per la caverna senza nemmeno pensare. Non aveva alcun modo di superare quel manipolo che bloccava l’ingresso alla superficie, quindi percorse la caverna nella direzione opposta. Iniziare uno scontro frontale con quei sorci di fogna era fuori discussione: non solo erano dannatamente resistenti alla magia, ma lo avrebbero sopraffatto con la forza del numero e non esistevano, né su Tera né su Gaya, lancieri migliori di loro.
Avrebbe potuto trasformarsi di nuovo …
A quel pensiero riprese a correre con maggior forza.
La geometria delle grotte di Gizamaluke era discutibile, e sottoterra il suo senso dell’orientamento non era eccellente. Ad un bivio prese una direzione a caso, le urla dei burmesiani di nuovo alte alle sue spalle. Cercò di tenere a mente i tunnel che aveva percorso, ma dopo una decina di svolte si rese conto di non avere la più pallida idea di come tornare indietro, a parte il fatto che stava andando verso i livelli inferiori e l’illuminazione del tunnel era sempre più fioca. Nella foga inciampò su un carrello minerario, scivolò sulle rocce e si rialzò di corsa, senza perdere nemmeno tempo a rimarginare le piccole ferite.
Quel posto era un labirinto. I burmesiani avevano scavato in quelle grotte e ne avevano ricavato una città sotterranea che era grande almeno dieci volte la loro capitale, Burmesia, che sorgeva sulla superficie bagnata da piogge eterne. L’umidità sembrava la vera regina di quel posto, e si posava sulle scale di marmo bianco che salivano e scendevano; l’acqua colava dal livello superiore, ed una goccia gelida gli scese lungo la schiena proprio quando si appoggiò ad una parete per prendere fiato e capire dove andare. L’eco gli portò il suono di un centinaio di piedi che avanzavano a ritmo serrato, ma per quanto guardasse non riusciva a capire da dove i maledetti topi di fogna sarebbero sbucati. Cercò di pensare lucidamente, ma il suo cuore non cessava di battere all’impazzata, gli martellava dentro la testa chiedendogli battaglia, morte ed altro sangue di drago.
Imboccò un corridoio dalla parte opposta rispetto a quello da cui era entrato e riprese a correre.
Doveva seminarli.
Anche per poco tempo.
La cosa orribile era la sensazione di scendere, scendere, scendere fino al cuore della terra. Lentamente la maestà delle grotte venne meno: le decorazioni erano sempre di meno, le scale erano intagliate nella roccia e non nel marmo, le gallerie che prima ospitavano anche sei persone vicine adesso si restringevano. Buon per me.
Stava per accucciarsi e riprendere fiato quando vide la guardia. Era alta, armata, immobile.
E sola.
Oltre la figura del burmesiano il cunicolo proseguiva. Non riusciva a vedere cosa ci fosse, eppure sentiva dell’aria provenire proprio dalle spalle della guardia. Aria calda, umida e stantia. Ma pur sempre aria. Un’uscita …
La prospettiva di rivedere la luce del sole gli mise una strana euforia. Si appiattì contro la parete, lontano dagli occhi del nemico, e sussurrò le parole magiche. L’incantesimo volò dalle sue labbra, attraversò i pochi metri che lo separavano dalla creatura e poi la avvolse; sentì la resistenza dell’avversario, la percepì nell’aria mentre cercava di scontrarsi contro la sua magia. Il soldato si accorse che qualcosa non andava e strinse la lancia: prima che potesse gridare aiuto, Kuja spinse con violenza l’incantesimo dentro di lui, attraversando la pelliccia, la pelle ed i muscoli con una potenza che non aveva mai sperimentato. Il nemico si contrasse in modo innaturale, emise un solo squittio e cadde a terra. Solo quando fu certo che la magia avesse davvero seguito il suo corso, si avvicinò al corpo e lo osservò. Il topo non si sarebbe destato da quel sonno per le prossime cinque ore, ma a lui sarebbero bastati cinque secondi. Appoggiò la mano al petto del nemico, ed in quell’istante sentì il cuore pulsare proprio sotto le sue dita.
Vide se stesso piantare le unghie in quel corpo, aprire in due la gabbia toracica e divorare l’interno in una fioritura di sangue.
Prima che quella visione si realizzasse mormorò un secondo incantesimo, ed i polmoni del nemico si riempirono d’acqua. Niente sangue. Niente urla. Niente piacere. Solo morte.
Il protocollo delle missioni era chiaro. Niente sopravvissuti, a meno che non fosse strettamente necessario il contrario.
E Garland non avrebbe tollerato un errore nel protocollo. Non quando si sarebbe presentato con quella forma incompleta, con il potere dei draghi nemmeno a metà.
A differenza delle altre volte, la sentì distintamente.
Gli sembrò di vederla. Scintillava. Danzava.
Uscì dal corpo del burmesiano come un leggero velo, una lieve increspatura colorata nell’aria illuminata da due piccole candele. Kuja fissò l’anima, ipnotizzato.
Non riusciva a darle una forma, ma era lì, proprio davanti a lui. Avvicinò la mano, ed il tenue baluginare gli scintillò tra le dita, avvolgendole di uno strano calore; con l’altra mano cercò di acchiapparla, ma quella si dissolse in decine di fili invisibili che scivolarono tra le sue unghie e risalirono verso l’alto, quasi a prendersi gioco di lui. L’anima gli danzò intorno alla testa, e per un attimo fu certo di sentire dei suoni meravigliosi, simili a decine di passerotti in coro, mormorare proprio intorno alle sue orecchie. Ma fu solo per un istante, perché quando voltò la testa per osservare meglio il debole gioco di luci, quello scomparve. Si allontanò da lui, disegnando un sottile filamento d’argento: salì verso il soffitto, attraversò la roccia e svanì.
Kuja sapeva benissimo dove stava andando.
Quella era la sua prima anima. La prima anima catturata dall’angelo della morte.
La prima anima che avrebbe riempito il petto di uno stupido Jenoma qualsiasi, ipnotizzato per bene dal cristallo azzurro di Branbal; il primo passo che avrebbe portato a termine il piano del suo creatore.
Sapeva che quel momento doveva arrivare.
Avrebbe dovuto immaginarselo quando Garland gli aveva promesso che in quella grotta avrebbe trovato il potere che gli serviva. In fondo aveva ucciso tante volte prima di quella missione, eppure non aveva mai percepito nemmeno un alito di anima, né l’osservatore stellare aveva detto nulla a proposito.
Ma adesso il Flusso era iniziato.
E lui era incompleto.
No.
Si alzò di scatto, dando le spalle a quello che restava della vittima. Il desiderio di quelle uova lo prese di nuovo, elettrizzandolo fino alla punta della coda.
Basta.
Prese fiato e si gettò di nuovo nel corridoio, la sua mente proiettata verso l’uscita. Se era bastato un solo uovo per permettergli di percepire un’anima e mandarla da Garland … Non osava pensare cosa sarebbe successo se avesse assecondato i suoi istinti e avesse divorato tutta la nidiata. Forse non sarebbe stato in grado di riprendere il controllo di se stesso.
Forse era proprio quello che il suo creatore voleva.
Trattenne le lacrime e avanzò ancora nel buio più totale. Si girò solo per un istante, quando si accorse con orrore che le voci dei suoi inseguitori erano comparse per incanto, sempre più forti, e l’eco dei loro stivali stavolta proveniva proprio dalle sue spalle.
Il suo piano di disperdere i burmesiani e poi riprendere la via verso la superficie era evidentemente da rivedere, visto che le alte creature conoscevano quel posto meglio di lui. Dandosi mentalmente dell’idiota andò avanti, inspirando l’aria umida. Quando mieterò le anime di Gaya voi sarete i primi, ratti schifosi …
Qualcosa, forse un soffio d’aria più forte del solito, lo fermò appena in tempo.
Il cunicolo era buio e stretto, ma retrasse il piede proprio quando questo non trovò più roccia. Un paio di sassi scivolarono giù, in una voragine nera che si apriva in modo del tutto inaspettato. Altro che uscita.
Riprese fiato e guardò. Prima di partire aveva studiato qualcosa sulla geografia delle grotte di Gizamaluke, ma si era interessato soltanto alle vie di entrata ed uscita collegate alla superficie e soprattutto alla sala delle uova. Se vi erano faglie, voragini o burroni le aveva semplicemente ignorate, ma anche se avesse saputo tutto sul baratro che aveva davanti l’unica cosa fondamentale era che questo non conduceva all’uscita. Non riusciva a vederne il fondo. Le uniche sagome che spuntavano erano i fusti e le foglie di qualche rampicante che era cresciuto in quel posto buio sfidando qualsiasi legge naturale. Oltre la voragine vi era una parete di roccia, compatta e liscia: accarezzò l’idea di lanciarsi su di essa e muoversi lungo il costone, ma il salto era perfino oltre le sue capacità e soprattutto si sarebbe perso definitivamente.
Inoltre sul fondo c’era qualcosa, riusciva a percepirlo, e non era affatto certo che si trattasse di una creatura amichevole.
“Fine della corsa, umano!”
Di voi non rimarrà nemmeno un cucciolo …
Si voltò, e vide di nuovo i suoi inseguitori. Stavolta però il loro numero occupava tutto il tunnel, e considerata la grossa voragine senza fondo alle sue spalle decise ti tirare fuori la carta della diplomazia. Sfoderò il sorriso delle grandi occasioni, quello che aveva fisso sulla faccia quando doveva ascoltare le chiacchiere delle vecchie baronesse di Toleco. “Signori, per …”
“TACI!”
“Sono certo che …”
“TI HO DETTO DI TACERE, MAGO!” disse la stessa burmesiana di prima, la topolina con il vestito rosso e l’arma facile. Si era fatta avanti con altri cinque grossi soldati alle spalle, e questo la rendeva piuttosto baldanzosa “Altrimenti la prossima parola la pronuncerai sulla mia lancia!”
Io avrei un paio di idee su dove mettere la tua lancia …
Stavolta l’arma lo punse alla base della gola. Fece per scansarsi, ma i piedi trovarono il vuoto.
Ok, carta della diplomazia andata a quel paese …
Dalla schiera si fecero avanti due burmesiani, e nelle mani reggevano una catena di un materiale che non aveva mai visto, bianco e scintillante anche nella semioscurità. Si avvicinarono a lui, e prima che potessero avvicinargliela ai polsi lanciò un incantesimo di fuoco per tenerli lontani. La burmesiana spinse la lama contro di lui, ma con un guizzo si piegò, scivolò di lato ed evitò l’affondo; la creatura stava per perdere l’equilibrio se non fosse stato per la prontezza di un suo compagno, che la acchiappò per il mantello prima che precipitasse nell’abisso.
L’attimo dopo gli furono tutti addosso. Evitò un secondo fendente, e spezzò l’asta di una terza lancia quando un soldato cercò di stordirlo; prima che quello si riprendesse dallo spavento lo acchiappò per l’abito e lo scaraventò di sotto. Lanciò una sfera di fuoco nel mucchio, senza nemmeno guardare, mandando al diavolo quelle bestiacce così resistenti. Provò a creare un muro di ghiaccio che li tenesse lontani anche solo per riprendere fiato, ma l’incantesimo delicato gli richiese un secondo di troppo; quattro soldati gli vennero addosso e lo trascinarono a terra, la sua testa riversa nel baratro. Usò tutte le forze che aveva in corpo per divincolarsi, con il risultato che altri tre ratti accorsero in loro aiuto e lo inchiodarono sulla roccia. Uno di loro avvicinò la catena ai polsi per ammanettarlo: Kuja si sentì avvolgere da un dolore insopportabile che si irradiava dal metallo bianco senza che questo lo avesse nemmeno sfiorato. Gli sembrò che il polso venisse trafitto da sottili spine di ghiaccio, ed il freddo si irradiasse lungo tutto il braccio fino al cervello.
Un re generoso …
Ogni fibra del suo corpo lottò al pensiero, e l’effetto fu istantaneo e inarrestabile. Perse il controllo, travolto dall’implacabile risposta del suo stesso sangue che iniziò a bruciare come mille torce. Ansimando, la sua schiena si arcuò, e mentre la magia si muoveva il suo aspetto cambiò.
Fermati, ti prego …
Il potere bruciava dentro di lui: febbricitante, lo spogliò del suo aspetto e del suo odore, del pensiero, della paura. Iniziò ad emettere un suono lugubre, un misto da un grido, un ruggito ed un pianto, certo che dall’altra parte della grotta le sue uova, le sue piccole, tenere, dilette uova stessero vibrando, chiamando solo lui. La trasformazione si produsse in un istante, la magia corse dentro di lui e schiacciò Kuja.
Al suo posto comparve di nuovo l’angelo della morte, rosso e furioso, ed il primo burmesiano che lo stava trattenendo morì sul posto, il petto trapassato dal suo artiglio. Il cambiamento fu così inaspettato che gli altri assalitori indietreggiarono sorpresi, e quello fu il loro primo errore. I loro cuori battevano per il terrore, li sentiva, così come sentiva l’anima appena catturata fuggire via; si rialzò in fretta, soffiando minacciosamente, col pelo ritto e la criniera di piume in fiamme, e passò gli occhi su quei piccoli topi che lo sfidavano mostrando le lance, spaventati per il suo potere. Soffiò e sbuffò, in preda ad una rabbia incontenibile. Dove erano le sue prede? Dove erano le anime? Già si sentiva in bocca il sapore del sangue.
Sollevò una mano, e la magia bianca rispose alla sua chiamata come mai aveva fatto. La luce scese in quel luogo dove fino a quell’istante avevano regnato solo le tenebre: sfondò il tetto della grotta, centinaia di metri più in alto, lacerò l’aria intorno a lui e lo avvolse del suo potere bianco. Il suo petto vibrava in un unico desiderio: azzannare ed uccidere chiunque gli venisse incontro. I burmesiani squittirono, non abituati ad una luce così violenta, e solo pochi riuscirono a ritirarsi quando l’incantesimo di luce sacra si abbatté su di loro, attraversando il tunnel. I più fortunati finirono carbonizzati. La maggior parte fu invece investito da quell’onda candida, scagliata contro le pareti: le lance, gli abiti, le pellicce, tutto iniziò a bruciare di un fuoco incantato che nulla aveva in comune con gli incantesimi di fuoco che era abituato a scagliare. Con gioia sovrumana si lanciò su di loro, uno dopo l’altro, dilaniandoli, congelandoli, unendo quella meravigliosa forza fisica alla magia che gli aveva donato il sangue di drago. Le anime si sollevarono intorno a lui e lo circondarono: le vedeva nettamente, minuscole sfere azzurre nell’aria che non aspettavano altro che lui, il loro dio, le guidasse. Le fece danzare con lui mentre tingeva il corridoio di rosso, aumentando il loro numero mentre con pochi balzi catturava i nemici in fuga e li finiva. Sentiva le voci dei soldati fischiargli nelle orecchie, ma erano un coro che osannava il suo potere. Se ne andarono una per volta, sospinte dalla magia del suo corpo, dirette verso Tera.
Garland poteva distruggere tutta Gaya, ma non poteva fare quel miracolo: non poteva prendere le anime, non poteva incanalarle, aveva bisogno di lui. Di lui. Di lui. Di lui.
Di chi?
Fu quella domanda a scuoterlo. Digrignò i denti, per qualche istante dimentico dei nemici in fuga. In mezzo a quella massa di corpi gli sembrò di vedere la figura di Garland, la pelle incartapecorita e l’armatura nera, e stavolta era lui ad impugnare la catena bianca che gli aveva fatto tanto male. Fu un semplice guizzo, ma il lieve barlume di consapevolezza lo scosse e lo costrinse a torcersi su stesso, guardando di sfuggita la piccola burmesiana dal vestito rosso ed una manciata di compagni svanire nei corridoi. Puntò i piedi, combattendo contro il desiderio di farli a pezzi.
Adesso basta.
Si morse come aveva fatto nella stanza delle uova, alla ricerca del dolore, ma stavolta subì l’effetto contrario: il sangue aveva un sapore meraviglioso, e zittì quella parte di lui che urlava per lo strazio. Le sue piccole prede pelose se ne erano andate, ma adesso le sue uova erano lassù, e si sarebbe fatto strada disintegrando le rocce pur di averle. Ho detto di no.
Non riusciva a ritornare come prima. Non dopo quel bagno di sangue. La bestia sembrava schernirlo da dietro la sua stessa mente, sfidandolo ad opporsi. E lo fece.
Spinse i suoi passi all’indietro, ignaro di tutto il resto. Tornò dove tutto era iniziato, proprio verso l’abisso, sfiorando il piacere dello spettacolo di morte che aveva appena seminato e la spaccatura nel soffitto molto più in alto. C’erano altri esseri viventi fuori dalle grotte di Gizamaluke, e la mera idea di tutte quelle anime in attesa di un dio gli fece schioccare la coda in aria.
Ma soppresse l’euforia. Nonostante il piacevole calore del sangue si rese conto che poteva ancora provare disgusto e una grande collera per ciò che aveva fatto. No, si corresse, per ciò che sono stato costretto a fare. Era sopravvissuto, ma il prezzo non gli piaceva. Aveva di nuovo fatto il gioco del suo creatore. Si era esposto al vero potere della sua stessa natura e, anche se l’ammissione lo spinse a piangere dentro di sé, temeva di non poter mai più tornare indietro.
“Hai visto che bello spettacolo ho messo su? Sono stato un bravo burattino?” disse, guardando la voragine senza fondo, giocando con i piedi con un sasso sul margine. Anche la sua voce non aveva più nulla di melodioso. “Spero che ti sia piaciuto …”
Gli rispose solo un debole eco, ma poco importava se la persona a cui erano rivolte quelle parole non era lì. Ormai non lo riguardava nemmeno più.
“… perché non ho alcuna intenzione di ripeterlo. Trovati un’altra marionetta”.
L’attimo successivo si gettò nel vuoto.
  
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