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Autore: Deceptia_Tenebris    31/10/2013    4 recensioni
Conoscete quel gioco che si chiama "Morte"?
No? Molto bene, ve lo spiego io.
Allora questo gioco permette di parlare con i morti, più che altro con il diavolo. Dovete avere un foglio bianco molto grande e in esso ci deve essere scritto Begnino e Maligno -buono e cattivo- e le parole devono essere cerchiate. Dovete chiedere al demone con cui parlate se è buono o cattivo. Se è buono potete fargli delle domande, nella quale lui vi risponde o Si o No o Forse.
Se invece è cattivo dovete fare una preghiera e bruciare il foglio.
Se non ha funzionato la preghiera? Siete fottute.
Bhe una cosa molto simile è successo a tre semplice ragazze, che per curiosità o semplice follia, hanno fatto questo gioco nella notte di Hallowen, il giorno in cui il filo che separa il mondo dei morti e quello dei vivi, diventa più sottile. Il giorno in cui il diavolo diventa più irrequieto e più selvaggio che mai.
Genere: Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Benigno o Maligno?

 

 

Il più grande inganno che il diavolo
ha fatto all'uomo
è fargli credere che ne esista
solamente uno.

 

 

«Laura, ma dove cazzo sei?!» sbraitai su tutte le furie al cellulare.
Rivolsi un rapido sguardo all'orizzonte per vedere una figura che corresse o che almeno camminasse, ma niente. Non c'era anima viva e quello fu un dettaglio che m'infuriò più del dovuto.
«Sono quasi arrivata, un attimo!» ribatté l'altra con respiro affannoso dall'altro capo del telefono.
Sbuffai spazientita e rivolsi gli occhi al cielo, invocando pazienza.
«Okay a fra poco, e muoviti!» la incitai, enfatizzando con vigore l'ultima parola. Non solo m'innervosivano i ritardi, ma mi metteva pure a disagio rimanere sola come un cane nel mezzo della notte, in un posto dove passavano tranquillamente drogati e teppisti.
«Sì sì» replicò frettolosamente, come se avesse fretta nel chiudere la conversazione. Il nervosismo aumentò quando udii la risposta pigra e con un moto di stizza spensi la chiamata.
Un venticello gelido soffiò e mi strinsi forte a me il giubbotto, rabbrividendo dalla radice dei capelli alla punta dei piedi.
Ero seduta su una delle panchine del parchetto vicino casa mia e il luogo d'incontro era poco più in là, lontano solo una decina di metri da dove ero io. Con la luce dei lampioni a colpirla, la casa in costruzione aveva un'aria inquietante e quella sensazione mi fece sorridere. Oltre a essere costruita solo per metà, era un po' sfasciata ma per nulla pericolosa, poiché ero entrata al suo interno praticamente ogni giorno per poi uscirne senza l'ombra di un graffio; fortunatamente, la casa era praticamente stata abbandonata, i lavori non andavano più avanti da quasi otto anni e di lì non ci passava mai nessuno. In poche parole, era perfetta.
Sbadigliai e mi sembrò d'ingerire ghiaccio.
Per essere ottobre, la temperatura si era orrendamente abbassata e sembrava quasi già di essere in inverno, con quel freddo che mi artigliava la pelle. Decisa a non diventare una statua di ghiaccio, mi alzai e mi sgranchii un po' le gambe che avevano incominciato a formicolare e mi accostai un po' di più a quella casa dall'aria lugubre e sinistra.
Ero un curiosa ed elettrizzata per la stupidaggine che stavo per compiere assieme alle altre, e siccome ero la tipica ragazza che non stava molto spesso fuori, avevo colto l'occasione e mi ero buttata sulla situazione senza neanche troppo ripensamenti.
Un altro di soffio di vento umido mi sferzò in faccia e con un sbuffo, spostai i lunghi capelli biondi dal viso. Tirai fuori il telefono per poter leggere l'orario e impallidii: le 23.18.
Imprecai. Cazzo, fra poco sarebbe stata mezzanotte e non era ancora venuto nessuno?! Sbuffai per l'ennesima volta e sbattei il piede ritmicamente, sentendo che il nervosismo e la tensione crescevano ad ogni attimo che passava. I miei occhi saettavano da una parte all'altra, alla ricerca di qualcosa in movimento che venisse verso di me. Casualmente il mio sguardo cadde di nuovo sul luogo d'incontro e potei giurare a me stessa di aver visto una strana ombra. Osservando con occhi vuoti quello stesso punto, ripensai a quel momento in cui la Reika ci aveva proposto tutto questo...

Stavamo sedute sulla panchina, ad osservare tutte le altre che stavano giocando a pallavolo. Quel giorno non facevo ginnastica perché avevo dimenticato “accidentalmente” la borsa a casa, quindi sarei dovuta rimanere immobile a non fare niente e a girarmi i pollici. Ovviamente la situazione non mi dispiaceva affatto, la voglia di fare attività fisica era sotto zero; anche la Laura era nella mia stessa situazione e finse di aver dimenticato la borsa anche se ce l'aveva dentro lo zaino.
E così anche la Tosca.
Così ci ritrovammo nella stessa panchina a fare due chiacchiere.
In realtà non ci parlavano granché nell'arco di un anno.
La Tosca (o Reika, si poteva chiamarla anche in questo modo) era la classica ragazza popolare che aveva un grande mania di protagonismo, era l'amata e la disprezzata e tutta la scuola riconosceva il suo volto o il suo ghigno; io e la Laura eravamo quelle escluse dal gruppo, quelle ch'erano solo un paio ombre che giravano per la classe e che qualche volta venivano ricordate come persone o semplici esseri umani in caso di necessità. Ma non eravamo sfigate, quello no.
Le sfigate erano altri soggetti, disprezzati dalla Reika e presi in giro quasi ogni giorno. Noi eravamo solamente più solitarie, quelle che si facevamo i cazzi loro e che non andavano a spettegolare di ragazzi e di numerose chat immaginarie con ragazzi che ci correvano dietro che non avevamo.
Quindi la Tosca ci rivolgeva tranquillamente la parola, anche se qualche volta ci lanciava qualche occhiata altezzosa mentre parlavamo. Ai suoi occhi doveva essere praticamente un “onore” per le sottoscritte che lei ci degnasse di qualche attenzione, ma in realtà a noi non ci cambiava granché la vita, non faceva né caldo né freddo. Rimanemmo indifferenti, ma parlammo lo stesso con lei piuttosto che annoiarci. A un certo punto la Reyka tralasciò un discorso di cui nemmeno tenevo conto e tirò in ballo un nuovo argomento, catturando così finalmente la mia attenzione:
«Conoscete il gioco del “Morto”?» ci domandò.
I suoi occhi era illuminati da una luce ambigua, le iridi feline color verde-oro brillavano iridescenti in quel volto affilato e beffardo.
Annuii con una punta di serietà, trafiggendola con un'occhiata e curiosa di dove voleva andare a parare.
La Tosca mi rivolse un sorrisino, compiaciuta di avere tutta la mia attenzione su di lei e con un gesto secco ravvivò la capigliatura biondo -caramello , lanciando un rapido sguardo alle sue amiche e al campo di pallavolo. Nel frattempo la Laura guardò entrambe senza comprendere e svoltando destra e sinistra la testa nel tentativo di catturare i nostri sguardi e farsi spiegare la faccenda.
«Di che parlate?».
Stizzita, la ignorai senza tante cerimonie e tentai di continuare il discorso con l'altra. «Perché questa domanda?».
Le avevo rivolto il quesito con un sopracciglio inarcato, diffidente dell'espressione frizzante che aveva assunto il volto della Reyka. Infatti quest'ultima era conosciuta non solo perché aveva un umorismo pungente o perché era divertente e letale, oppure perché aveva un certo carisma oppure un certo tasso di odio e antagonismo intorno a lei; era conosciuta anche per l'audacia di alcune sue idee, per l'arroganza con cui l'esponeva e con la spavalderia che usava come maschera.
Nel frattempo la diretta interessata mutò leggermente espressione: era pur sempre beffarda, ma nelle pupille brillava un po' di serietà, di compostezza. «Per fare qualcosa ad Hallowen» mi rispose, come se fosse una specie di ovvietà. Si morse le labbra, tradendo un sorriso che tentava di soffocare. «E poi non c'è giorno migliore».
Annuii, sebbene non credessi affatto a sciocchezze simili.
Hallowen per me non era altro che una festività inutile, che aveva perso ogni valore e significato, continuata ad usare solo per accalappiare qualche dolcetto e montagne di caramelle, e per travestirti come un'idiota come ad esempio in uno zombie o una strega o un vampiro. Tutti i bambini e adolescenti sfruttavano quella festività per divertirsi, svagarsi, fare gli idioti, prendere valanghe di dolciumi e travestirsi. Ma non per altro.
Io non credevo nei fantasmi o nei vampiri che uscivano per uccidere o per andare a trovare i loro parenti, perché ero logica e sapevo ch'erano cazzate. E nonostante la mia natura molto superstiziosa, comprendevo perfettamente che quelle erano baggianate, che con il tempo l'uomo aveva rovinato irreparabilmente la festa e il suo significato.
«Tu domani sei libera?» mi domandò improvvisamente la Tosca, distraendomi dai miei pensieri.
Il tono era serio, ma percepivo che c'era sotto qualcosa e non ci voleva un genio per capire il fine di quella domanda.
Annuii seriamente. «Tua madre ti permetterà di uscire di tarda sera?» continuò più insistente.
Quella volta sollevai gli angoli della bocca, distesi le labbra piene e carnose in un sorriso scaltro, che sapeva il fatto suo.
«Certo...se non lo sa».
Mia madre era un'accanita lavoratrice, singol e divorziata, che cercava di tirarmi su con le sue forse facendo vari lavori, ricevendo un discreto aiuto finanziario da parte di mio padre che non si sprecava mai. In quei tempi stava lavorando in un ristorante abbastanza in voga e ricordai con un certo compiacimento che il giorno dopo, siccome era Hallowen, ci sarebbe stata la serata a tema e che avevano abbastanza prenotazioni da farla tornare a casa alle tre di mattina.
I miei pensieri furono nuovamente interrotti, ma questa volta dalla Laura che non la smetteva d'infastidire e chiedere spiegazioni.
«Ma di che state parlando? Ohh, mi spiegate si o no?» domandò, innervosendosi di brutto e contraendo nervosamente la mascella.
Con un gesto frettoloso della mano, gli intimai di starsene in silenzio ma invece di dare importanza al mio gesto, continuò a domandare incamminandosi nel cammino della sclerazione. «Che cazzo, mi volete spiegare?».
L'ignorai infastidita, ma non senza prima rivolgerle un'occhiata glaciale. Non avevo nessuna voglia di ascoltarla o di farle capire la situazione che aveva creato la Reyka, perché in quel momento ero decisamente più curiosa di sapere che cosa avesse in mente invece che aprire bocca e parlare con l'amica.
Intanto la Tosca, con una calma che le faceva onore, spiegò alla Laura e sintetizzò il tutto.
«Questo gioco permette di parlare con i morti».
La Laura sbatté con finta innocenza i suoi grandi occhi scuri e quando le sue iridi brillarono di comprensione, assunse un'espressione da ebete, la classica reazione di quando c'erano situazioni simili. «Oohh, quindi potrei parlare con mio nonno?» scherzò con voce da bambina, per poi ridacchiare. Ovviamente non la prese con serietà e le lanciai un'occhiataccia, soffocando un sorriso e una breve risata. La Reyka sorprendetemene non si scompose, anzi divenne più seria che mai.
«Si potresti, s'è morto» puntualizzò.
L'espressione della Laura divenne meno divertita e confermò: «Il mio è morto».
«Pure il mio» m'intromisi con un sorriso perfido.
Non che m'importasse seriamente di parlare con mio nonno -tanto non l'avevo mai conosciuto e non potevo provare nessuna affetto per un fantasma che non aveva mai condizionato la mia vita-, ma l'idea di parlare con un morto mi elettrizzava. Certo, era un'idea impossibile, improbabile, folle e forse un po' malata, ma era divertente. E io ero quel genere di persona che se trovava qualcosa di divertente e folle, l'afferrava al volo; in poche parole, ero affamata di situazioni stupide, superficiali e incoscienti ed era normale per una ragazza che vede la luce del sole solo quando deve andare a scuola oppure fare la spesa ed era considerata il pupillo della maturità ad appena quattordici anni. Notai che la Reyka accostò la mano al rosario di legno che portava da un po' di tempo e lo strinse a sé. Il motivo del perché lo portasse? Non me l'ero mai chiesto e infondo non m'importava.
Erano affari suoi.
«Allora, come si gioca?» domandò la Laura incuriosita, passandosi distrattamente la mano tra i capelli bruni e lisci. La sua pelle, di solito marmorea, aveva preso sulla gote una delicata tonalità di rosa, i grandi occhi brillavano.
Colsi dai quei dettagli, che non ero di certo l'unica affamata di situazioni stupide ed elettrizzanti.
La Tosca guardò entrambe e sospirò. «Prima di tutto, ci servono...» e incominciò ad elencare tutto l'occorrente.
Sia la Laura che io, l'ascoltammo interessate...”

 

Sentii di colpo delle mani sulle spalle e quel contatto mi riportò brutalmente alla realtà. I muscoli s'irrigidirono, il sangue mi si gelò nelle vene e con il cuore che palpitava a mille, mi voltai di scatto. Mi scontrai con il viso della Reyka, che mi osservava interessata e con un certo compiacimento curvargli le labbra. Inizialmente il sollievo m'investì e mi misi una mano sul cuore, temendo che potesse uscirmi dal petto, dopodiché respirai profondamente e l'irritazione sciolse le mie articolazioni ed ebbe la meglio su di me.
Con un strattone l'allontanai e le lanciai un'occhiataccia.
«Salutare no eh, Tosca?» replicai acidamente.
Lei soffocò una risata ma non abbandonò il sorriso divertito e beffardo che le illuminava il volto. «Ti ho spaventata per caso?» domandò canzonatoria. Mi rivolse la domanda come se fosse retorica e il suo sguardo suggeriva una risposta affermativa. Non aveva bisogno che rispondessi, ma lo feci lo stesso forse per sfida o semplicemente perché m'irritava quel suo atteggiamento.
«No, mi hai solo colto di sorpresa» ribadii glaciale e severa.
Il suo sorriso divenne più esteso e sembrava che volesse deridermi, un dettaglio che mi fece ribollire il sangue e che colorò di un tenue rosso le mie gote. «D'accordo, se lo dici tu...» dichiarò.
Sorrisi freddamente, mettendo un muro tra me e e lei. Non era né luogo né momento per mettersi a litigare e di certo non volevo farmi rovinare la serata da una ragazzina che mi aveva spaventata cogliendomi alla sprovvista. Inspirai profondamente e finalmente udii l'adrenalina scorrermi nelle vene. Intensa, travolgente, struggente come mai mi ricordavo. Riscaldò il mio corpo in una maniera incredibile, ogni cellula del mio organismo era avvolto da un calore bollente, le ginocchia mi fremevano per l'eccitazione così come le mani. Tentai di darmi un contegno, di frenare tutta quell'eccitazione ma invano. Il tremore era diminuito, ma dentro di me sembrava che l'adrenalina volesse trascinarmi in un baratro senza ritorno.
Nel frattempo la Tosca cambiò discorso e mi riportò al presente.
«Dov'è la Laura?» domandò infastidita.
«Sta arrivando» ribadii con noia. Scorsi un pizzico di furore oscurare il suo sguardo e sentii un certo compiacimento nel notare che quello spirito vivace si stesse oscurando. «Pensavo che venisse prima di me» sibilò freddamente.
«Arriverà a momenti» la tranquillizzai annoiata e spazientita. «Più che altro hai preso tutto?» domandai impaziente.
Con un sorriso trionfante, annuì e mi mostrò un sacchetto di plastica che teneva in mano. «Foglio bianco, pennarello nero, candele, accendino e una moneta da cinquanta centesimi» mi elencò come se stesse recitando l'ave Maria a memoria.
Stiracchiai le labbra in un sorriso soddisfatto. «Molto bene».
Per un attimo mi accorsi che una parte di me stessa si era pentita della decisione che avevo preso e se ne stava pentendo; ma sta di fatto che ormai ero là e non me ne fregava delle conseguenze stupide, perché ero lì, immersa nel buio della notte e non potevo di certo tirarmi indietro per una stupida sensazione d'inquietudine e perché avevo paura. Ma se questo lato di me replicava orgogliosamente quei sentimenti, quello che si pentiva non riusciva a non domandarsi il perché di quella pazzia, perché mi fossi catapulta in quella proposta folle e incoerente. Curiosità? Tentazione? O semplice follia?
Non riuscivo a comprenderlo e sinceramente non volevo indagare affondo sulla mia scelta, né le ragioni per cui l'avevo fatta anche se ero consapevole che sulle cose non si scherzavano affatto se fossero vere o meno. Respirai affondo e tentai di distarmi dai miei pensieri ignorando palesemente la Reyka e scrutando l'orizzonte in attesa della Laura che se la prendeva con molta comodità.
E mentre i miei occhi ispezionavano rapidi ogni minimo movimento fuori posto, scorsi infondo alla strada e sotto la luce color ocra dei lampioni una figura minuta che correva velocemente, con fare stanco ed esausto. Non potei non alzare gli occhi al cielo nel vedere tutta quella scena. “Laura Laura” pensai esasperata, battendo ritmicamente il piede per il nervosismo e il fastidio. Era la solita e io dovevo portare paziente per il suo atteggiamento svogliato.
Un pensiero passeggero mi distrasse momentaneamente e mi domandai come fosse riuscita a correre per tutto il tempo con quel buio nella quale fra poco non si vedeva nemmeno il proprio naso, siccome il comune non si disturbava ad aggiungere più lampioni per le strade. Guardai un attimo il cielo e analizzai di più l'oscurità che mi circondava: il parchetto che distava poco più a casa mia e ch'era anche il nostro luogo di appuntamento, alla luce de sole era innocuo, innocente, persino un po' povero ma adatti a dei bambini; mentre con il buio e l'aria gelida che tirava, il parchetto sembrava il perfetto set di un film dell'orrore e l'unico lampione che illuminava il centro non smorzava di certo l'idea. La notte quella sera era priva di stelle, non si scorgeva nemmeno l'ombra di una nuvola, era petrolio fuso nel cielo e solo la luna infrangeva quell'integrità oscura con il suo bagliore, dirompente e facendo bella mostra di sé.
Ma con il passare degli attimi, notai una cosa che m'inquietava e che mi fece aggrottare le sopracciglia per la perplessità: il satellite che stava illuminava il cielo, non era solitamente bianca come il latte, anzi possedeva una tonalità scarlatta, sanguinolenta e sembrava essersi ingigantita. Rabbrividii involontariamente e distolsi lo sguardo da lì, consapevole che mi ero incantata e mi concentrai sulla mano che afferrò saldamente la mia spalla, senza lasciarmi prendere dal panico. «Tutto apposto?» le domandai per sapere se stava ancora sopravvivendo. Lei grugnì ma non parlò, cercando di riprendere fiato e la Tosca s'intromise irritata, punzecchiandola spietatamente:
«Ma quanto ti ci voleva, ci hai fatto aspettare!».
Stavo per ribattere stizzita un commento del tipo: “Ehm, cocca sono io che sto aspettando entrambe da un bel pò”, ma rimasi in silenzio e frenai la lingua, continuando ad osservare le due che si battibeccavano. «Fatti te mezz'ora di corsa da casa mia!» tuonò la Laura acidamente. La Reika la scorse con lo sguardo affilato, lampeggiante e spietato.
«Oh, poverina!» la sbeffeggiò con voce ingannevolmente dolce, per poi replicare con durezza, «Dai, che un po' di attività fisica non ti farebbe altro che bene!».
La Laura si alzò velocemente e aprì bocca per ribattere per le rime con altrettanta durezza, ma m'intromisi più rapidamente non avendo l'umore di sopportare nessuna delle due oppure di patire una loro discussione quando avevo i nervi a fior di pelle. Non avevo nessuna intenzione di perdere tempo e non avrei permesso che quelle due mi avrebbero reso più irritata e nervosa di quanto non fossi già.
«Okay, okay. Time-out» frenai entrambe con freddezza, «Non ho tempo per i vostri battibecchi, per quelli esiste la scuola. Dobbiamo muoverci, abbiamo perso fin troppo tempo». Il tono che avevo utilizzato era imperioso, irremovibile e inflessibile, centrava fin troppo con il mio vero carattere e che cercavo di celare agli altri; di solito la smorfiosetta autoritaria era la Tosca, ma incredibilmente mi osservò silenziosa e con un cenno della testa annuì, dandomi ragione. Era un fatto talmente talmente straordinario, che me lo segnai mentale come un giorno da non dimenticare. Mi diressi verso la casa in costruzione con passo rapido e raggiunsi il ricinto di metallo che impediva ai curiosi di passare oltre, ma non mi feci molti problemi. Arrampicarmi era una dote eccezionale che possedevo fin da bambina e mi era sempre piaciuto, quindi non mi scatena tutta quella preoccupazione. A inquietarmi erano le altre due, così mi voltai verso di loro e osservai con un sopracciglio inarcato.
«Voi ce la fate?».
Entrambe annuirono e la Laura aggiunse levando gli occhi al cielo per l'esasperazione: «Madonna, non farti le solite pippe mentali» mi supplicò quasi con fastidio. Le rivolsi un'occhiata fredda, però non replicai e mi voltai verso il mio obiettivo, riflettendo però nel frattempo su una cosa: era una cosa strana per me. Quando ero a scuola ero sempre solitaria, quando mi capitava di rivolgere raramente la parola a qualcuno ero -o almeno mi convincevo- ch'ero simpatica e cordiale, certo sempre se non mi rivolgevi la parola per poter litigare con me perché in quel caso sarebbero stati cazzi amari. Mentre quella sera facevo scorgere con maggiore chiarezza del solito un lato del mio carattere che conoscevo fin troppo bene: la freddezza, l'indifferenza.
Diedi la colpa sia al mio nervosismo e all'eccitazione di tutto ciò che stava per accadere, sia alla mia mancanza di autocontrollo e mi rimproverai severamente del mio atteggiamento, intimandomi di darmi una calmata. Mi arrampicai nel frattempo sopra il recinto di metallo con facilità, ringraziando una volta tanto le gambe lunghe per cui tanto ero caratterizzata e piegando di poco le ginocchia, feci un salto uscendo indenne.
Le altre due, essendo di statura decisamente più bassa, ebbero un po' più difficoltà della sottoscritta ma ce la fecero lo stesso con egual modo. Quando ci ritrovammo tutte e tre di fronte all'abitazione in costruzione, l'adrenalina salì alle stelle e sovrastò tutte come un'onda potente che fece fremere il nostro corpo. Un sorriso strano, dalla piega folle, increspò lentamente le mie labbra e non avevo bisogno di voltarmi e guardarle, per sapere che il medesimo sorriso marcava i visi delle altre due mie compagne di classe. Entrammo nella casa con passo attento e vigile, attente a non calpestare cose strane o a spostare gli attrezzi ch'erano sparsi sul pavimento polveroso. Fortunatamente, trovammo un angolo vuoto e intatto illuminato dal pallore rossastro ch'emanava la luna.
Ci guardammo attentamente negli occhi e capimmo ch'era il tempo di agire.

 

Accesi l'ultima candela e osservai la fiammella tremolare, danzare libera nelle tenebre emanando un bagliore pallido e innocuo. Eravamo in piedi davanti al foglio nella quale c'era scritto in mezzo: Benigno, Maligno, Sì, No e Forse. Tutte le parole erano cerchiate.
Ai margini del foglio bianco c'erano scritte le lettere dall'A alla Z e nell'altro margine c'erano scritti i numeri dall'1 al .
Ci mettemmo in triangolo e poi ci sedemmo nel pavimento, polveroso per via dei lavori ancora in corso. Ci guardammo di nuovo negli occhi e interpretai l'espressione delle due: la Tosca era elettrizzata e con un velo di timore ad oscurargli lo sguardo, mentre la Laura aveva le iridi scure ardenti di un'eccitazione infantile. L'unica ovviamente ad essere seria era la sottoscritta e con un solo una lieve eccitazione a incurvarmi le labbra. L'atmosfera era silenziosa e lugubre, una strana tensione gravava l'aria. Si poteva udire ogni singolo rumore e appena udivo anche un lieve scricchiolio o il movimento del vento che soffiava nell'erba alta, scattavo come un felino pronto all'attacco. Come se qualcuno mi avesse interpretato i miei istinti, si sentì un miagolio docile e mi voltai di colpo verso la direzione del suono. Un gatto appoggiava pigramente nella finestra vuota, con il folto pelo nero che si arruffava con il movimento del vento e gli occhi gialli mi stavano soppesando con attenzione. Anche nel buio si potevano scorgere le sue pupille dilatate paurosamente.
Mi voltai dall'altra parte, riportando la mia attenzione sul “rito” che stavamo per compiere e ignorai l'animale che ci osservava assorto, mentre la Laura sembrò essere incantata dalla creatura felina che non ci staccava gli occhi di dosso. Riflettei pigramente sul fatto che quel gatto nero le potesse rievocare il suo, di gatto, che indovinata un po' come si chiamava? Nero. L'originalità di quel nome mi spiazzava ogni volta. Con un distratto movimento della mano cercai di attirare la sua attenzione e quando il suo sguardo si scontrò con i miei occhi gelidi e severi, la vidi socchiudere di poco i suoi, levargli al cielo e infine svoltare la sua attenzione sul foglio e le candele.
Presi il cellulare e guardai l'orario: le 23.58.
Feci un bel sospiro profondo per infondermi un po' di calma.
Era il momento.
Misi la moneta da 50 centesimi sopra il foglio, in un lato neutro e bianco, attesi una decina di secondi che sembravano durare un'infinità. Quando contai 10 con labbra mute, iniziai a cinguettare con voce neutra e ferma: «Spirito satanico, vieni da noi».
Lo ripetei per tre volte di seguito e dovetti ammettere a me stessa, che mi sentivo una stupida e un'idiota di prima categoria, e avrei mollato di colpo tutto se un vento più glaciale di prima ci sferzò sulle schiene attirando la nostra attenzione. Tremai e mille brividi percossero la spina dorsale, riportandomi attenta e vigile.
Forse era solo una coincidenza, ma qualcosa mi suggeriva di andare avanti e di non prendere il gioco sotto gamba.
«Ci sei?» mormorai con voce bassa e, purtroppo per me, timorosa.
Attesi un secondo e poi accadde.
La moneta che stava esattamente al centro, nel bianco, iniziò a spostarsi lentamente verso le parole cerchiate ch'erano messe l'uno di fianco all'altra, in riga. Il cuore incominciò a battere fortissimo, così forte che divenne un rumore sordo che palpitò in ogni del mio corpo. Guardai sbalordita le altre due mie compagne di classe. Avevano gli occhi sgranati, spalancati, le labbra serrate e assottigliate e tutte osservavano pietrificate la moneta che si muoveva di sua volontà. Nel volto della Tosca il timore e il pentimento delineava i suoi tratti affilati, mentre la Laura sembrava entusiasta e impaurita allo stesso tempo. Ci guardammo negli occhi con quest'ultima e lei li spalancò quando si scontrò con i miei. “Cazzo, ma le sue pupille sono giganti” udii nella mia testa, una voce ch'era tutto tranne che mia. Aggrottai le sopracciglia e la fronte, smarrita. Attesi un attimo per elaborare il fatto.
Quella era la voce della...Laura? Cosa? Me l'ero immaginata o...?
“Laura, sei te?” pensai titubante. Mi sentivo un'idiota.
Laura sgranò di nuovo gli occhi, ma questa volta per il vero e proprio stupore che percepì a sua volta nel sentire la mia voce nella sua testa e lo sbalordimento invase la sua espressione e la sua mente. “Sì, ti sento” mormorò poco dopo, con voce più flebile eppure anche più frizzante, elettrizzata e non c'era traccia della paura che doveva sorgere in quel momento per l'anomalia di quell'evento. Cercai di rimanere composta e strinsi solamente le labbra per esprimere sia il mio disappunto che la mia perplessità.
“Com'è successo?” pensai rivolgendo la domanda non solamente a me stessa come avrei fatto normalmente, ma anche alla mia amica che in quel momento, purtroppo, poteva percepire i miei pensieri.
“Non ne ho la più pallida idea, ma è una figata assurda” rispose di rimando con voce vivace, come se l'appellativo 'figata' smorzasse la situazione adir poco assurda in cui eravamo immerse e udii, con mia sorpresa, l'entusiasmo irrefrenabile e il pizzico di terrore che le scorrevano nel sangue all'idea che quel 'gioco' aveva funzionato e l'adrenalina era talmente intensa in lei che le faceva tremare leggermente il corpo, che di tanto in tanto aveva degli schizzi che probabilmente nemmeno lei si accorgeva di avere .
Incuriosita da quella nuova capacità e piuttosto avida di sapere quali pensieri e sentimenti le passeggiassero per la testa, tentai di scovare un po' nella sua mente e di scoprire qualcosa di più dietro la classica maschera che indossava ogni giorno, a scuola: come un pugno nell'occhio, percepii nella mia pelle come ondate di vento caldo e freddo, le primarie sensazioni che sentii, che furono un'inaspettata innocenza, l'ingenuità tipica della nostra età, l'entusiasmo che l'anima in quella situazione e scavando ancora più a fondo percepii come mille aghi che pungevano nella mia pelle, il dolore, la sofferenza.
E poi udii un caldo afoso e soffocante avvolgermi attorno quando sentii la rabbia e poi ancora più intensamente l'odio.
Frenai di colpo la mia ricerca, anche perché ero stranamente esausta sia fisicamente sia mentalmente da quella ricerca e poi perché sinceramente la mia curiosità era improvvisamente scemata in picchio; volevo concentrarmi sulla situazione, sulla moneta e percepire le sue emozioni era strato troppo, come se mi avesse buttato addosso un secchio di ghiaccio e di lava e non riuscivo ad assimilare la situazione. Respirai profondamente, strizzai gli occhi nel buio e continuai a seguire con lo sguardo la moneta, che incominciò a muoversi sempre più rapidamente verso il “sì”. Il cuore incominciò a battere a battere con così tanta intensità che sembrava volermi uscirmi dal petto e andarmi in gola, e percepii i palpiti frenetici scandire dentro tutto il mio corpo, nelle gambe che improvvisamente erano divenute di gelatina e traballanti e le orecchie bruciare per l'emozione; persino le labbra ardevano da quella sensazione sconosciuta e cercai di fare un respiro molto profondo per non lasciarmi guidare dall'istinto ma dalla logica. Rapidamente, riordinai i miei pensieri e mi preparai psicologicamente per la prossima domanda che avrei rivolto: «Sei Benigno o Maligno?».
Avevo avuto una voce roca, incredibilmente stabile ma udii la testa girarmi appena rividi nuovamente la moneta spostarsi davanti ai miei occhi per rispondere alla mia domanda. Speravo, m'illudevo con il cuore che diveniva sempre più incalzante che non fosse Maligno, che quella serata si sarebbe conclusa velocemente per poi non rivolgere più la parola sia alla Laura che alla Reika, ritornando felicemente alla mia esistenza in cui mi facevo gli affari miei.
Oh, il cuore mi batteva con talmente tanta forza e vigore che pareva essere un corpo a sé stante, una forma di vita in cui il mio corpo si era aggrappato disperatamente e che subiva i suoi colpi; lo stomaco si distorceva in modo così raccapricciante che pensavo che un qualche essere invisibile avesse ficcato la sua mano nel mio ventre e afferrando le budella, le girasse lentamente concedendomi una lenta agonia. A momenti, incominciavo persino a pregare, a pregare cavolo!, cosa che non facevo da almeno dall'inizio dell'elementari, ma c'era una sorta di cruda disperazione che mi animava in modo angoscioso; ama quando vidi la moneta che si dirigeva verso la scritta “Maligno”, il cuore mi sembrò che stessi per vomitarlo assieme allo stomaco.
No, per favore, iniziai a pensare con il labbro inferiore che fremeva leggermente come se a momenti stessi per scoppiare a piangere. Ma ero persino troppo terrorizzata per piangere, il labbro tremava per esprimere l'orrore che mi tendeva i nervi.
No, per favore. Per favore. Non farci questo.
Alzai lo sguardo dal foglio per incontrare gli occhi delle altre, forse anche per cercare un minimo di conforto che potesse non trascinarmi nel baratro della disperazione in cui mi sentivo vorticare; ma appena notai i loro visi le mie ultime speranze si spensero come le candeline della torta di compleanno. Gli occhi della Reyka, solitamente luminosi di un bagliore vivace, spiritoso e impertinente, erano spalancati e spenti con le pupille che seguivano la moneta con la sua stessa velocità, e nella luce fiocca della candele notai la sua pelle coperta da un sottile strato di sudore; mentre negli occhi della Laura l'entusiasmo era scomparso sostituito da un paura incontrollabile, simile alla mia, e m'accorsi anche del suo pentimento di essere lì in qual momento.
Sudavo freddo, troppo freddo, la pelle sembrava essere allo stesso tempo incandescente e freddissima e le gelide gocce di sudore scendevano lentamente in contrasto con il discreto calore delle candele. E poi il momento arrivò, con un leggero soffio di vento.
Volevo non guardare, ma non potevo e i miei occhi erano incollati solamente sulla moneta.
Maligno.
Era esattamente su Maligno. Quella parola mi rimbombò nella mente, nel sangue, nel cuore che non smise di battere se non per un singolo attimo appena assimilai la drammaticità della situazione. Avevo paura, era impossibile ignorare quella realtà.
Avevo, anzi no avevano, davvero paura, dell'ignoto, di qualcosa di più grande di noi. Una sensazione primordiale, non superficiale e momentanea come la paura di un insetto o di un attimo di nervosismo, ma era una cosa radicata, viscerale, che rese lucidi i miei occhi e mi seccò la bocca, serrata eppure...fremente. Eravamo in una situazione grottesca ma troppo potente, e noi eravamo state troppo sciocche sia ad ascoltare la proposta ed accettarla, sia ad applicarla. La mia espressione, n'ero certa, era vuoto di orrore quasi quanto le mie due compagne e sebbene il mio corpo smascherasse le mie reali sensazioni, dovevo per forza mantenermi composta per almeno l'ultima domanda. L'ultima nostra salvezza.
«Possiamo lasciare il gioco?» domandai con voce neutra, mentre avevo mantenuto a stento l'angoscia che mi divorava.
Questa volta la moneta si mosse con maggiore velocità, come se fosse impaziente di nutrire le mie speranze o di ucciderle completamente. E rese chiara la sua intenzione.
No.
Era andato su 'No'. Il mondo mi crollò momentaneamente addosso, smisi di vivere per un secondo e nella mia mente, inaspettatamente, vissi un ricordo che non riuscii a comprendere la sua utilità in quel momento:

Guardai Reyka, circospetta e sospettosa e per niente convinta dalla sua storia, nonostante l'idea era decisamente interessante.
«Sei sicura di quello che dici? Ce l'hai mai fatto?» specificai più risoluta. La diretta interessata evitò i miei occhi e scosse la testa, mantenendo lo sguardo basso oppure distratto dalle persone che giocavano a pallavolo o a basket. «No, ma l'ha fatto mio cugino» disse come per giustificarsi a voce abbastanza bassa che quasi non la sentii. La guardai storto, ma non feci un fiato sebbene tutto questo, dopo quella frase, peggiorò di molte le cose ai miei occhi. Dentro di me avevo una sensazione per niente piacevole che mi frenava, mi tratteneva nel compiere quella stupidaggine come se qualcosa sarebbe finito male. Ma ignorai la sensazione e alla fine accettai la proposta con i miei dubbi.”

Ritornai alla realtà come un morto che veniva trascinato nel mondo dei vivi, sfiancata e risucchiata dalle energie. Non seppi s'era per il ricordo inutile oppure per uno strano impeto di voglia di vivere, ma udii una fiammella coricata al cuore che si sciolse piacevolmente nel sangue e m'inebriò con quella sensazione meravigliosa, calda, come il calore di un fuoco benefico e pulito che non bruciava e distruggeva, ma donava e alimentava. Volevo vivere.
Era questo il mio unico pensiero e mai mi ero sentita in quel modo così vitale, così intenso facendomi rendere conto che nella mia vuota e spenta vita c'era un barlume di luce che mi poteva animare. Con il calore che riportava alla realtà anche il mio corpo, facendomi recuperare il rapporto che avevo con ogni singola terminazione, guardai le altre due persone ch'erano rimaste immobili, pietrificate, gli occhi persi come se fossero immerse nella loro testa con niente che provenisse dall'esterno che potesse scalfire quello stato di concentrazione. Ne rimasi in parte inorridita: quanto tempo siamo rimaste così? Ero anch'io in quello stato, qualche attimo fa? Per quanto veloce sia stato il ricordo, è passato più tempo?
Erano domande che sorgevano naturali ma alla quale non potevo rispondere in assenza di tempo per pensare ma solo per agire: con tutta la forza del mio pensiero cercai di ristabilire quello strano contatto telepatico che avevano e urlai nelle loro teste:
“Reika, Laura! Svegliati cazzo, svegliatevi subito! Dobbiamo passare al piano B, forza!” e gridai quel pensiero finché entrambe le ragazze rinsavirono dal loro stato e appena percepirono con la loro mente collegata alla mia, lo strano calore che avevano dolcemente ogni membra del mio corpo regalandomi un nuovo impeto di speranza, loro in preda atto di sopravvivenza, si lasciarono contagiare e annuirono all'unisono, comprendendo ciò che dissi.
Così tirammo fuori dalle nostre magliette nere, una colonnina con la croce che avevo avuto per tutta la serata e iniziammo a pregare con forza, sentendo una strana fede -o una nuova forma di disperazione mischiata a sofferenza- invaderci e renderci più forti grazie alla nostra unione. Pregavamo con la parola, con la mente e con il corpo, uno pieno di stato di concentrazione in cui nessuno, apparentemente, si lasciava distrarre da una sensazione viscida e fredda che agiva alle nostre spalle e aggrappandoci al calore che ci aveva fatto sentire in qualche modo protette.
Ma una cedette. Una, sorprendentemente cedette e ci abbandonò, causando una forte spaccatura nella nostra 'connessione' e che c'indusse a spostare l'attenzione sulla persona che ci aveva abbandonato. Era la Tosca.
Quella che consideravamo -e si considerava- la più forte di tutte noi, aveva ceduto. Miseramente, senza neanche aver lottato fino alla fine. E fu in quel momento che compresi, che ogni cosa ai miei occhi ebbe un senso: ogni sua azione, la sua voglia costante di attenzioni, nell'avere sempre accanto qualcuno, l'incapacità di starsene da sola e di mortificare chi le dava fastidio con atteggiamento prepotente e carismatico. Ogni cosa parve mettersi nel posto giusto, come un puzzle che finalmente era stato ricomposto e capii che in realtà la Tosca era la più debole, la più gracile. Era impertinente come poche, sveglia e tutto ciò che volete, ma fingeva di essere forte, di essere superiore a tutti noi forse perché, siccome non poteva assumere quell'atteggiamento nella sua famiglia, lo faceva con gli amici, con le persone, con la scuola. Dopotutto, sembrava nata apposta per andarsene a scuola sennò crollava con ciò ch'era.
E così era successo. Ci abbandonò, crollò in sé stessa.
E poi di colpo si alzò, infrangendo le regole a cui ci aveva avvisato di non contrastare mai e tentando di andarsene, con posa rigida, lo sguardo morto verso la porta come se fosse divenuta un'autonoma.
Fu in qual momento che udii con maggiore intensa quella sensazione raccapricciante che accarezzò la mia schiena provocandomi un conato di vomito ma inducendomi allo stesso tempo di rimanere rigida; era come se la forza maligna fosse proprio dietro di me, a sussurrami all'orecchio e accarezzarmi la schiena e quella visione mi rese ancora più disgustata e tesa.
Pensi di farcela mia cara?
Sussultai e allo stesso tempo boccheggiai per l'impatto della sorpresa. La voce che aveva parlato era così...perfetta. Così sublime, meravigliosa, che pareva puro miele per l'udito, dolcissima e fiduciosa, calda come mai ne avevo sentite e che, sebbene sapessi a chi appartenesse con la poca ragione che mi rimase, ne conoscevo il proprietario. Strinsi i denti con sofferenza, cercando di scordare le note della sua voce che riecheggiavano ancora beffarde nella mia testa. Capivo, ora, il perché di quello che aveva fatto la Reika: quel tono così...melodioso, soave ed accarezzevole t'induceva ad alzarti ed a raggiungere la persona che possedeva una voce così musicale e ne ebbi io stessa quella tentazione amabile che indeboliva la mia coscienza e la mia logica, promettendomi rose e seta e causandomi un dolore intenso nel cercare di oppormi a quel tono, strinsi i pugni e ficcai le unghie nella carne, cercando di riacquistare un po' di rabbia verso me stessa per riacquistare velocità.
Sentii ridere con più cattiveria e nonostante la voce avesse assunto una tonalità più ruvida e fredda, rimaneva comunque incredibilmente...impeccabile. Così perfetta da rimanere comunque ferita da tale perfezione cercando di non lasciarti trascinare da esso.
Sì, lei ha ceduto. Mi assicurò. Così come farà la tua amica e come farai anche tu. Tu pensi di avere le possibilità di batterti con me, ma sappiamo bene che non è così. Mi cercò di ammorbidire con tono accarezzevole, per poi aggiungere con fredda cattiveria:
Oh, voi siete carni fresche, succose e piene di vita. Ho voglia di sentire la vostra pelle sotto i miei denti, voglio che la vostra anima, la vostra sofferenza e le vostra urla più disperate. Voglio che il peccato vi sporchi, vi affoghi e vi soffochi e che la luce divina vi rifiuti come ha fatto con me. Voglio assaggiare il vostro corpo e il vostro sangue, con quest'ultimo che mi sporchi le mani; voglio leccare il vostro sapore metallico e dolce, che le mie mani siano tinte del vostro sangue, che vi strappiate le carni mentre vi squartate a vicenda. Non resistermi, se ti abbandoni a me vedrai che non sentirai nulla.
Fa come ha fatto la tua amica, Sofia.
Ebbi un sussulto intenso quando pronunciò il mio nome e non mi ero nemmeno resa conto che aveva tremato per tutto il suo discorso che sembrava appena uscita da uno di quei film horror che tanto mi piacevano. Il mio corpo voleva cedere, lo percepivo chiaramente, voleva arrendersi e togliersi di dosso il problema e il mio corpo tentava di conseguenza la mente indebolita, anche se in realtà per nulla al mondo volevo darmi per vinta al diavolo.
Resisti, resisti. Mi dicevo con tono spezzato, perché non volevo cedere ma allo stesso tempo non potevo. Riflettei, rievocai quell'impeto di calore che precedentemente mi aveva investito e che oramai era divenuta una flebile fiammella che si spegneva piano piano; ma appena cercai di concentrarmi su quella emozione, a canalizzarmi cercando di rievocarla, invece di divenire un ricordo sempre più spento, quella voglia i vivere, quel calore m'investì nuovamente, il calore si riaccese e di nuovo mi invase come un fuoco pulito che rianimava il mio corpo e mi tenni stretta quella sensazione, ignorando il freddo viscido che solleticava la mia schiena. Oppure la sua voce che parlava nitidamente nella mia testa.
Rise. Smettila di combattere, non ti servirà a molto. La tua amica sta per cedere e ben presto farai la loro stessa fine.
Spiazzata da quelle parole, guardai la Laura e notai con orrore che il suo sguardo diveniva lo stesso che aveva la Tosca, che gli occhi scuri piano piano smettevano di brillare diventando più opachi, spenti nonostante la luce delle candele.
Come se stesse morendo lentamente.
Stava cedendo, realizzai inorridita. Cazzo, stava cedendo! Non ora, non lei! Doveva resistere e mettersi in contatto con me, un contatto che non arriva con l'avanzare degli istanti. Ad un certo punto, non reggendo più la situazione, tentai di rivolgere la sua attenzione sulla sottoscritta così che potesse rinsavire nella realtà.
“Laura! LAURA! Rispondimi, cazzo! Devi...combattere! Fallo per qualcosa, fallo per vivere madonna! Fallo per qualcuno!” le urlai disperatamente e con tenacia, e sebbene non ricevessi nemmeno un flebile bisbiglio di una risposta non persi le speranze e ignorai la risata agghiacciate, fredda e ardente come ghiaccio sulla pelle nuda che risuonava nella mia testa e mi faceva quasi piegare il corpo per il dolore per la pura cattiveria che risiedeva nella sua voce. Continuavo a chiamarla, a persuaderla, prima con delicatezza e poi con più severità, tanto che alla fine persino la voce nella mia testa era smorzata da un tono angosciato che non riuscivo a reprimere.
Ma lei continuava a non rispondere.
“Reagisci, reagisci! Se hai sofferto così tanto e t'illudi di essere più forte di me, vedi di tirare fuori le palle e di reagire! Non cedere alla tentazione, chiaro? Chiaro?!” pensai con più rabbia, cercando di smuoverla toccando il suo orgoglio e farle provare quell'antipatia verso i miei confronti che la portava a reagire contro di me e di mettere sempre il becco contro di me, pur di dirmi qualcosa dietro.
Ma inaspettatamente, udii un sussurro che sembrava accompagnato dal vento che intonava una cantilena che sembrava sciocca e semplice, ma che bruciavano la mia pelle come se fossero fuoco tanto che ad un certo punto pensai che l'odore di carne bruciata fosse solamente uno scherzo della mia immaginazione. Ma niente lì era immaginazione.
Pioggia di nero colore, domate la mente e portate con voi il dolore.
Era questa la frase che udivo, continuamente senza mai frenarsi, che diveniva sempre più intensa e forte man mano che la mia mente s'indeboliva per via del dolore che non mi abbandonava.
Non dovevo cedere, non dovevo...
Misi la mano sul cuore, ormai certa che stessi per morire da un momento all'altro ma nel palmo della mano invece di percepire la consistenza della maglietta oppure della pelle fredda, udii il crocifisso ch'emanava un calore tenue, confortante, simile a quello che avevo percepito dentro di me e che assomigliava ad una stretta di mano fraterna. La croce era stata immersa nell'acqua santa e ricambiai la stretta con ancora più forza, nonostante la cantilena continuava che aveva perso gradualmente il suo effetto e cercai di trasmettere quella forza, quel calore attraverso la Laura, sperando in effetti positivi che non si fecero attendere, fortunatamente.
Essendo ancora connesse, percepii immediatamente con la mia mente la sua che pian piano si stava diradando, che la sua coscienza veniva riportata in superficie e acquistava di nuovo dinamicità e potere per pensare, e la confusione e smarrimento inizialmente che si pronunciarono in un fiacco: “Cosa-a è successo? Dove mi trovo? Sofia...” venne subito messo a tacere dalla sottoscritta, nonostante tutto sollevata che la luce di vita riapparisse nei suoi occhi, con un secco: “Zitta e prega”, neanche fossimo in una sottospecie convento.
Nella sua testa lentamente si riordinarono i fatti ch'erano accaduti come brevi abbagli di ricordi che vennero subito riordinati come puzzle e non gli ci volle molto a fare due più due e a fare quello ch'era ovvio fare. E sebbene pregare non fosse nelle nostre attività primarie appena ci svegliavamo la mattina, lo facemmo in modo talmente sublime e partecipe che potevamo essere pronte per il voto di castità. C'era infondo solo un pensiero che ci legava più dei legami di sangue, che ci rendeva così forti e intoccabili nonostante il freddo viscido che continuava a solleticarci nella schiena come piume bagnate. La sopravvivenza.
Eravamo come un unico corpo, un'unica mente mentre c'era quell'unico pensiero fisso che ripetevamo all'unisono:
Tu non ci avrai.”
E ogni volta che ripetevamo quella frase, ogni volta che le mani si stringevano più saldamente fra di loro, man mano che la forza che si scioglieva nelle nostre vene con sempre più veemenza, un sibilo glaciale, freddo come il ghiaccio sulla pelle nuda, sibilante come il cristallo rimbombava nelle nostre teste e ci costringeva a tremare, a fremere anche appena siccome non eravamo creature intoccabili dal suo potere superiore, ma solo misere creature umane dotate di momentanea e preziosa forza. Non c'era un suono simile a quello della rabbia che percepivo nella nostra pelle e nella nostra mente, pareva acido che le consumava deliberamene per indebolire.
Ma quando l'ennesimo sibilo venne respinto dalle nostre preghiere, ormai continue, costanti, che s'interrompeva a intervalli minimi, udimmo per l'ennesima volta quella voce. Quella maledetta, sudicia, seducente, meravigliosa voce.
Molto bene. Replicò freddamente, come se fosse offeso ma anche in qualche modo eccitato. Se non posso avere anche voi per questa notte, almeno avrò lei. Ribadì beffardamente e ci volle meno di un istante nel rievocare la Reika, di cui ce ne eravamo scordate la
presenza per egoismo e l'avevamo lasciata in disparte, con gli occhi vuoti e morti, il volto esangue e la figura leggermente incurvata come quella di una marionetta che non veniva ancora utilizzata.

Mi alzai di colpo con accanto a me che la Laura non la smetteva di mormorare le preghiere inginocchiata, per non spezzare la forza che ci aveva legate e prima che me ne rendessi conto, urlai disperata:
«Reika...NO!».
Parve perfino che si prendesse gioco di noi.
Gli occhi ormai vitrei della Tosca sorvolarono appena verso la mia direzione, l'ultimissimo bagliore abbandonare il suo sguardo per sempre e mentre le fiammelle delle candele tremolavano e io allungavo la mia mano per incitarla a ritornare nel triangolo che l'avrebbe di nuovo potuto salvare, lei allungò la propria ma per ragioni ben diverse.
Tutto sembrava crollare e disconnettersi nelle classiche regole della logica, per frantumarsi di fronte i nostri occhi in quell'istante.
La moneta distesa nel foglio, si alzò lentamente per posizionarsi verticalmente e iniziare a girare con una velocità inaudita, tanto che a momenti sembrava scomparire, un vento freddo come l'anima del male avvolse e congelò ogni nostra cellula, rendendoci simili a statue di ghiaccio; ma tutto questo era in secondo piano ai miei occhi, ormai sgranati e paralizzati dall'orrore, puntati fissi sulla Tosca. Nell'altra mano, stringeva saldamente un chiodo arrugginito sparso nel pavimento, lo impugnava con talmente tanta forza che a momenti pensavo che si fosse rotta le nocche, e lentamente -come per farmi pregustare il mio momento d'impotenza- se lo posizionò all'altezza del polso e il suo sguardo brillò di follia.
Oddio no, pensai raccapricciata. Fermati, fermarla!, supplicai inutilmente con voce spezzata gli occhi che bruciavano non per le lacrime ma per l'angoscia che sgorgò violentemente quando udii quella risata piena di derisione e di potere echeggiare nella mia testa, mettendo in chiaro la situazione. Lui non l'avrebbe impedito e noi non potevamo impedirlo.
Semplicemente non potevamo.
L'egoismo era troppo, l'amor proprio con l'istinto di sopravvivenza ci impediva di muoverci e ci permetteva solamente di assistere alla scena che assistemmo impotenti e inutili. Con un urlo agghiacciante provenire da parte della Laura e le preghiere di supplica da parte mia, la Reika prese ad incidersi con forza sul polso, con una lentezza straziante e quel costante sguardo vuoto da bambola, con il sangue vermiglio che scendeva lungo il braccio sporcando per terra. Non c'era espressione né suo viso né nei suoi occhi, se non per il lieve sorrisino storto che le pronunciava le labbra, deridendoci.
Il chiodo affondava nella carne con profondità, il sangue sgorgava a fiotti sporcandola e imbrattando il liquido denso e salato nei suoi abiti, con delle gocce che avevano raggiunto il mio viso profanandolo.
Ogni incisione, ogni affondo si scolpiva nella mia mente come se l'avessero incisa nella mia pelle a fuoco e quello shock, quel trauma assurdo dettato da una follia indegna da una mente malata mi strappò solamente un gemito. Un gemito che bastò a far cedere il mio cuore. Ma come se tutto questo non fosse abbastanza, come se non avesse dimostrato abbastanza il proprio potere su lei, la portò a prendere il chiodo e a squarciarsi la gola, con tagli lunghi e profondi che danneggiavano il muscolo, che dilaniava la sua pelle come se fosse carta usata e a dirigere l'arma anche verso il petto, alla quale riservò un trattamento non migliore di tutto il resto mentre un abito di sangue la rivestiva.
Dobbiamo... dobbiamo fare qualcosa” pensò improvvisamente la Laura con voce disgustamene calma, segno che lo shock non doveva essere tanto migliore dal mio ma che mi aiutò a spostare lo sguardo e ad attaccarmi alla realtà, sollecitandomi a pensare rapidamente per una soluzione applicabile che ci levasse di torno.
Poi, contemporaneamente, riflettemmo sulla stessa cosa: Accendino. Se bruciavamo il foglio il gioco...tutto questo, sarebbe terminato, si sarebbe finalmente fermato quell'incubo.
Mi chinai a prenderlo più velocemente possibile e accessi l'accendino, pronta ad utilizzarlo una volta per tutte; ma non tutti erano di questa idea. Con solo pochi centimetri di distanza a separarci l'uno dall'altro, il gatto nero che dapprima stava pigramente alle nostre spalle mi si accostò minacciosamente, soffiando furioso e le pupille spaventosamente assottigliate, facendo risaltare gli occhi non più gialli ma rossi come il sangue. Spalancò la bocca facendo scorgere i denti acuminati e ruggì con tono innaturale e umana: «Non osare».
Lo scorsi per mezzo secondo, gli occhi intenti a fissarlo intensamente e quasi sfidandolo, lanciai addosso quell'accendino bruciandolo vivo assieme al foglio, ma non prima di essermi beccata una zampata che parevano più simili ai tagli del diavolo, che mi squarciarono mezza mano procurandomi un dolore indescrivibile ma da cui stranamente non usciva sangue, come se fossero bruciate.
Ma nonostante questo, la fortuna mi assisté.
Il gatto, essendo stato sopra il foglio, incominciò a bruciare assieme a lui e nonostante le urla agghiaccianti e infernali che lanciava, che non aveva niente a che fare con qualcosa di animale ma più simile alle urla strazianti di un demone, non staccammo lo sguardo dalla fuoco nero finché non consumò le ossa dell'animale e gli ultimi angoli del foglio, che si disintegrarono immediatamente alla prima soffiata di vento. E fu quando le ultime scintille si spensero e non udii più quella dannata voce nella mia testa, che mi concessi quel minimo di sollievo che mi sormontò come un'onda e lo stesso sollievo non fece altro che duplicarsi con la Laura, in sinonimo con il mio. “Non abbassare comunque la guardia, continua a tenere la croce” l'avvertii severa con tono leggermente più ammorbidito dalla vaga speranza che avevamo di fronte ai nostri occhi e la Laura non poté che annuire a sua volta, molto seria in viso.
Respirai profondamente, accumulando tutto l'ossigeno possibile nei polmoni e alzai lo sguardo anche verso la Tosca, che veniva illuminata dal pallido raggio rossastro della luna, e lo spettacolo raccapricciante che ebbi di fronte ai miei occhi, mi gelò il sangue.
Il suo corpo non era accasciato a terra con naturalezza, era una posizione distorta che nessun contorsionista avrebbe mai potuto fare: la schiena era talmente piegata da sembrare spezzata e la testa raggiungeva il fondo schiena mentre gli arti sia inferiori che posteriori erano girate a rovescio, come se fosse una sottospecie di bambola Barbie e la bambina dispettosa e annoiata l'avesse costretta a girare le gambe e le braccia al contrario. Il volto era rivolto verso in alto, talmente raccapricciante da provocarmi persino un conato in gola e delle vere onde di paura che si manifestarono in brividi incontrollabili: la bocca era socchiusa, le labbra parevano consumate e marcite e tra di essi fuoriusciva talmente tanto sangue che allegava il pavimento; gli occhi erano sgranati in modo innaturale, neri e persi come quelli di un scarafaggio, compresa la cornea che non era più bianca ma era divenuta esattamente l'antiposto. Era un qualcosa...che non si poteva descrivere. Non c'erano parole per spiegare le sensazioni che provavi di fronte ad una scena così concreta, da sembrare un film.
Il cuore pulsava frenetico e impazzito, quasi temevo un infarto e in cerca di conforto, presi la croce al collo e la strinsi con talmente tanta forza da spezzarmi le nocche della mano e poi mi accostai lentamente. Non riuscivo a credere che stavo compiendo un gesto simile, eppure i passi esitanti non si arrestavano e nonostante la radicale paura che mi ricopriva di sudore e mi faceva tremare come una foglia, volevo sapere...qualcosa. Nemmeno io sapevo cosa.
«Tosca-a?» bisbigliai con voce perita, impaurita.
Ci fu il silenzio, non rispose neanche con un fiato, pareva morta con quell'assenza di suoni che veniva colmata solamente dai battiti ritmici e iperattivi di due cuori portati già all'esaurimento.
Ma con un scatto improvvisamente si alzò con un orribile suono e lo spavento fu tale che feci un salto all'indietro, pronta a scappare da un momento all'altro; lei sembrò non badare alle nostre presenze e camminò all'indietro verso il muro più vicino e iniziò a vomitare sangue denso e caldo su di esso, ma nella quale comparvero solamente quattro parole, una frase sola e chiara:
Andatevene via da qua”.
La Laura non se lo fece ripetere due, infondo non potevo biasimarla e l'istinto di sopravvivenza prese un tale potere su di lei mescolata all'adrenalina che se ne andò subito, correndo a perdifiato come solo lei poteva fare con la croce stretta in pugno mormorando parole di supplica e di aiuto che, dedussi, avrebbe mormorato interrottamente per tutto il tragitto e tutta la notte. Ma io, per quanto volessi andarmene da lì, per quanto il desiderio di mettermi in salvo fosse intenso quanto al mio, non riuscivo a muovere nemmeno un muscolo, come se una forza sopranaturale mi costringesse a vedere l'ultimo trauma della mia vita, l'ennesimo spettacolo che avrei sognato per sempre nei miei incubi peggiori rammentando quella notte finché avrei vissuto: quel corpo che tempo avevo definito con il nome di Reika, cadde per terra senza vita e chinata sulle ginocchia come se stesse per vomitare, lentamente dalla sua bocca assieme al sangue seguirono pezzi di carne che dovettero essere qualche organo interno; con sempre lo stesso chiodo di prima, si aprì lo stomaco con la bocca deformata e famelica divorò le sue budella per poi rigettarle e vomitarle. E così continuò a vomitare organi e sangue, nelle gambe e braccia rovesciate la pelle si consumò come se fosse arsa viva e le ossa si polverizzarono ben presto facendo la stessa fine, e riempiendo l'aria dell'odore di carne e polvere carbonizzata.
A quel punto il mio corpo non poté sopportare più un simile affronto: vomitai anch'io, mentre le lacrime mi solcavano incontrollate per lo shock e l'angoscia il volto ormai stremato e prima che scappassi anch'io, scavalcando il recinto e correndo verso casa mia, non potei non udire l'ultimo suono smorzato, soffocato che emise quel corpo morto. Non rivolsi un ultimo sguardo alla casa, non ne avevo davvero più la forza e la mia forza di volontà venne accentuata dal fatto che ormai quello era un luogo proibito, inaccessibile, che nessuno ci sarebbe mai più potuto entrare senza capitargli qualcosa. E mentre continuavo a correre con tutta l'adrenalina che mi bruciava in corpo, dietro di me in una sottospecie di sibilo maligno, il vento freddo sussurrò una frase che non mi sarei mai potuta scordare per tutta la mia vita, che mi avrebbe perseguitato con la risata beffarda a tenermi sveglia la notte: Lei ora è mia Sofia. Fra poco la raggiungerai anche te.

 

   
 
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