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Autore: kenjina    02/11/2013    4 recensioni
- Betulla sequel -
«Vedo che anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro, piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle, con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.

(tratto dal secondo capitolo)
Genere: Avventura, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Buon sabato!

Vi lascio alla lettura, perché urgenti testi in svedese mi attendono per essere tradotti! Anche se ammetto che la prima parte di questo capitolo mi impensierisce parecchio. :/

Ringrazio, come sempre, i fedeli lettori e lettrici che continuano a seguirmi (o iniziano l’avventura or ora).

Grazie!

Un abbraccio e buona lettura!
Marta

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

15.

20 Settembre 3019 T. E.

 

 

Thorin osservò con ansia i fuochi di Amon Dîn divampare contro il cielo azzurro e osservò la cresta della catena montuosa, finché non intravvide un bagliore di luce tra le vette innevate. Sospirò con pesantezza, sperando che quel sistema di comunicazione fosse veloce ed efficace, poiché il loro tempo pareva accorciarsi sempre più celermente. Aragorn ed Éomer avevano organizzato un nuovo esercito con i soldati rimanenti in città, e il Re dei Rohirrim assicurò tutti loro che i suoi soldati sarebbero arrivati entro tre giorni, cavalcando velocemente ma senza stancare troppo i propri destrieri. Avevano intenzione di marciare in prima fila sulla vecchia capitale per cacciare gli invasori, ma erano comunque in minoranza. La loro speranza era quella di ritorcere loro la propria tattica e accerchiarli a loro volta: la difesa sarebbe giunta dalla città stessa, dal Sud e presto anche da Ovest. Neanche lui riusciva a pensare ad una tattica migliore, in effetti.

Il Nano si passò una mano in viso. Tre giorni, per attendere l’arrivo dei Rohirrim, erano tanti e chissà in che condizioni sarebbero giunti. L’unica notizia che lo aveva rasserenato un poco fu quella che gli diede Trán, che aveva sforzato la vista per dirgli con gioia di un buon numero di Nani che stava scappando da Osgiliath, per mettersi in salvo tra le mura della bianca città degli Uomini. Sperò solo che Minas Tirith non rimanesse sguarnita del tutto di difese, anche se era altamente improbabile che qualcuno osasse attaccare i suoi robusti confini. Il Rammas Echor era ben protetto e nuovamente funzionante. Avrebbero avuto almeno una settimana di protezione prima che qualcuno tentasse di oltrepassarlo con la forza.

Aragorn, che era imbardato della sua migliore corazza Gondoriana, gli si avvicinò prima di lasciare la città.

«Mio signore, permettimi di scendere in battaglia con te.» disse ad Aragorn, porgendogli la sua ascia in segno di profonda alleanza. «Laggiù ci sono anche i miei Nani, oltre ai tuoi Uomini. È mio dovere difenderli.» Dwalin e Balin, con i nipoti, lo imitarono, ma il Re degli Uomini scosse il capo.

«Amici miei, apprezzo molto la vostra offerta e ne serberò memoria per sempre. Ma nel momento in cui vi ho invitati qui, nel mio Regno, mi sono anche preso la responsabilità di proteggervi; e giacché vi sono numerosi vostri uomini in pericolo, entro i confini delle mie terre, non posso permettervi di accompagnarmi. Ma vorrei che facciate comunque una cosa per me.» L’Uomo posò una mano sulla spalla di Thorin, che annuì solennemente, in attesa. «Lascio la protezione della mia città nelle vostre mani e in quelle della mia Regina. Tu, Thorin Re Sotto la Montagna, sarai responsabile della difesa e gli Uomini che rimarranno qui obbediranno a te e te soltanto.»

Il Nano gonfiò il petto di orgoglio e si chinò profondamente. «Sarà un onore per me, Aragorn figlio di Arathorn; e ti prometto su tutto ciò di più caro che proteggerò la tua gente come se fosse la mia.»

Il Ramingo lo abbracciò, cogliendolo di sorpresa. «Avrei voluto trascorrere il mio tempo con voi diversamente; spero di poterci rivedere tutti, alla fine di ogni cosa.»

Non vi furono parate, né feste per i due Re che partivano verso l’ennesima battaglia; dovevano muoversi in fretta per raggiungere il campo di combattimento. L’intera città era caduta in un terribile mutismo e osservava in silenzio il suo sovrano allontanarsi sui Campi del Pelennor. Arwen salutò suo marito dalla vetta della cittadella, poggiata sulla punta estrema della chiglia di pietra mentre cantava un antico poema elfico che raccontava di speranza.

Il primo ordine di Thorin fu quello di proseguire il lavoro alle fucine, per velocizzare la costruzione del Grande Cancello. «Per il momento noi siamo ancora al sicuro; utilizziamo il tempo che abbiamo per migliorare l’unico punto debole della città.»

«Fantastico: il giorno di riposo ce lo possiamo scordare.» mormorò con tono melodrammatico Káel alla sorella, per tranquillizzarla un poco.

I Nani si diressero di gran carriera alle fucine e lavorarono duramente fino a tarda notte; tra loro persino Trán, che strinse i denti nonostante la stanchezza e le parole del fratello che la esortava a ritirarsi per dormire.

«Finché avrò forze, allora non mi tirerò indietro, Káel. Un braccio in più può fare la differenza, e per poco che sia il mio contributo, io voglio darlo.»

Non si accorse di Thorin, alle sue spalle, che aveva udito la determinazione delle sue parole e sorrise, fiero della sua tempra. «A quanto pare le armi dei Rohirrim dovranno attendere.» le disse, facendola sobbalzare.

Lei si asciugò il sudore dalla fronte con la manica della camicia. Stava soffocando dal caldo e il bicchiere di acqua fresca che il Re di Erebor le stava porgendo fu ben accetto. Gli sorrise grata e bevve, assetata.

Káel parve confuso. «Quali armi dei Rohirrim?»

«Eri troppo ubriaco, ieri sera, per ascoltarmi e ricordarti ciò che ti dissi.» lo rimbeccò la sorella. «Re Éomer mi ha affidato il compito di dar lustro alle armi della sua scorta.»

Gli occhi dell’altro sgranarono, ma sorrise, abbracciandola e baciandola sonoramente su una guancia. «La mia famiglia è la migliore che ci sia.» decretò il giovane Nano. «Mio padre è il miglior carpentiere che il mondo Nanico abbia mai conosciuto. Mia madre la sua eroina che ha cresciuto ben cinque figli come noi. E mia sorella è il fabbro di fiducia di un Re degli Uomini. Ah!»

Trán divenne più rossa dei suoi capelli, ma ridacchiò tra le lacrime. Perché sì, la sua famiglia era davvero la migliore che esistesse in tutta la Terra di Mezzo. E lo avrebbe gridato al mondo e a chiunque avesse osato contraddirla, se avesse avuto sufficiente fiato in gola.

Thorin chinò il capo. «Non mi scuserò mai abbastanza per ciò che pensai e dissi sulla vostra famiglia. Ma sono felice di avervi incontrato e di avermi fatto cambiare idea. Non è qualcosa che succede spesso.»

La Nana annuì. «Riuscire a far cambiare idea al Re di Erebor è quasi come insegnarmi a cucinare.»

«Il ché è tutto dire.» aggiunse Kili, ridendo, che aveva origliato la discussione e aveva colto la palla al balzo per infilarsi.

Fili, ovviamente, non si tirò da parte. «Praticamente un caso disperato.»

«Disperato dovrei esserlo io, che ho dovuto ingurgitare la peggior specie di cibo in tutti questi anni!» esclamò Káel, inorridito. «Non oso immaginare in che condizioni verta il mio stomaco.»

«Ah beh, sicuramente è abituato a mangiare di tutto. Quindi è più forte del mithril, amico!» Kili gli strizzò un occhio, mentre Trán s’imbestialiva e Thorin si allontanava per nasconderle l’ennesimo ghigno di divertimento e non imbarazzarla più di quanto non fosse.

«Suvvia, ragazzi. Lasciate la fanciulla in pace, per la barba di Durin!» Balin sorrise bonariamente alla Nana, che lo ringraziò con lo sguardo per l’unico aiuto che aveva ricevuto.

Trán si sentì decisamente meglio, dopo quello scambio di battute. L’ansia che aveva accumulato quel giorno sarebbe bastata per un’intera vita, e come sempre suo fratello – e ora anche i nipoti del Re – erano riusciti ad alleviare il suo pessimismo; persino Thorin sembrava più rilassato, per il suo stupore.

Proseguirono il lavoro per un’altra ora, finché tutti non furono distrutti abbastanza e affamati come delle bestie a digiuno da giorni. Purtroppo si era fatto troppo tardi e le cucine della mensa erano già chiuse da un pezzo.

«Dove è finito Bombur, quando più ne abbiamo bisogno?» si lagnò Dwalin, e con lui anche il suo stomaco, che brontolò rumorosamente per sottolineare il suo disappunto.

Balin ridacchiò. «Credo che potremo arrangiare qualcosa per cena anche senza l’aiuto di un cuoco provetto.»

«E senza il mio.» borbottò Trán.

«Ah, ma quello era ovvio, sorellina.»

La Nana saltò sulle spalle del fratello con l’intento di picchiarlo, ma lui se la sistemò come un sacco di patate e, incurante dei pugni che lei gli tirava alla schiena, iniziò a correre e a ridere, come facevano da piccoli, dimenticando per un attimo della guerra alle porte, né preoccupandosi dell’ora tarda.

«Thorin, perché non li riprendi come fai con noi?» domandò il minore dei nipoti, sentendosi in difetto. «Insomma, è come se sentissi già la pesantezza della tua mano sulla nuca, al solo immaginare me e Fili che ci mettiamo a fare tutto questo baccano, nel bel mezzo di una notte silenziosa e di una città che non è la nostra.»

Ma lo zio non ebbe il cuore di fermare la loro gioia. Era una tale rarità vedere il sorriso in quel viso femminile per farlo sparire con un rimprovero; e le loro risa stavano allietando anche i loro animi, il ché era un bene in vista dei tempi bui che avrebbero dovuto affrontare molto presto. Così Thorin passò un braccio sulla spalla del nipote, mentre camminavano verso i loro alloggi. «Loro non sono gli eredi al trono di nessun regno. Non hanno un titolo da difendere e da onorare.»

«Ma uno di loro due potrebbe diventare una Regina, un giorno.» Kili ghignò. «E non mi riferisco al maschio.»

Thorin lo fulminò con il solo sguardo e sentì le orecchie andargli a fuoco al solo pensiero.

«Che ne sappiamo?» continuò Fili, con fare casuale. «Magari il figlio di Re Dáin, che guarda un po’ il caso si chiama come lo zio, potrebbe innamorarsi di lei, la bella figlia del grande carpentiere dei Colli Ferrosi.»

«Oppure uno di noi due, fratello. Dovremmo giocarcela a duello, però.»

«Non sarebbe valido, Kili, sono nettamente più bravo di te.»

Ma Thorin non stava più ascoltando l’assurdo dibattito dei nipoti. La sola idea che qualcuno potesse seriamente corteggiare Trán lo colpì come un pugno sullo stomaco e gli lasciò un retrogusto amaro per il resto della nottata. Ella era bella e dal forte carattere – forse anche troppo, delle volte; e non dubitava che, così come fosse riuscita a catturare la sua attenzione, anche qualcun altro dotato di occhio critico avrebbe potuto notarla a sua volta. Il solo pensiero gli fece rivoltare la bile.

Non si accorse dei nipoti che seguirono i gemelli, con il chiaro intento di intrufolarsi nelle cucine chiuse e recuperare qualcosa di commestibile per una cena veloce.

Mentre Balin apparecchiava il tavolo nella loro personale sala comune, notò il suo sguardo crucciato, e Dwalin, seduto accanto al caminetto acceso con la pipa tra le labbra, borbottò qualcosa contro la cattiva influenza della femmina.

Così, essendo ben lontani da orecchie indiscrete, l’anziano Nano parlò. «Cosa ti affligge, ragazzo mio? E ti prego, non parliamo della guerra, poiché ne abbiamo discusso in lungo e in largo per tutta la giornata, e sappiamo entrambi che non è ciò a cui mi riferisco ora.»

Thorin sospirò ma non rispose subito, da una parte maledicendo l’acutezza del suo saggio compagno, dall’altra ringraziandolo per avergli dato una spalla su cui sfogare i suoi pensieri. Accese anche la sua pipa, inspirando una profonda boccata di fumo per pulire i suoi pensieri.

«Si tratta della ragazza e di ciò che hanno detto i tuoi nipoti, vero?»

Il Re si ritrovò ad annuire prima ancora che potesse rendersene conto. «È strano, Balin.»

L’altro si accarezzò la barba, attendendo che proseguisse. Ma vedendo che tentennava ancora una volta, decise di dargli una mano d’aiuto. «Se ti riferisci al fatto che stiamo discutendo – o almeno, tentando di discutere – di una femmina dopo tutti questi anni, sì, convengo che sia molto strano.»

Thorin si fece scappare una bassa risata. «Ammetto che sia un terreno che non conosco molto bene.»

«Non è questo il problema, poiché sei bravo sufficientemente per riuscire a calcarlo con le tue sole gambe. Ma dimmi, realmente cosa ti preoccupa?»

Il Re s’inumidì le labbra, mentre cercava le parole adatte per continuare. «Sento che la situazione mi stia sfuggendo di mano. E io odio non avere il controllo delle cose.»

«Sei sicuro di non averlo?» Balin sorrise. «Io credo, invece, che tu abbia pieno controllo delle tue capacità. E lo noto dal modo in cui ti comporti, e dal modo in cui i tuoi comportamenti influiscano su di lei. Ciò che è interessante, ragazzo mio, è che anche lei ha il pieno potere su di te. È ciò che ti confonde e ti spaventa.»

«Non sono spaventato.» replicò indignato l’altro.

«Lo sei, invece; perché non è tua abitudine dover affrontare qualcuno che riesce a zittirti con poche parole, per esempio.»

Thorin spostò lo sguardo verso le fiamme che ardevano tra la legna annerita. «Cosa dovrei fare?»

«La domanda non è cosa dovresti fare, ma cosa vorresti.» L’anziano Nano gli strinse amichevolmente una mano sul braccio. «Dimmi, ragazzo mio, ti ha turbato maggiormente l’idea di lei al tuo fianco come sovrana di Erebor, o quella di lei come la regina del mondo di qualcun altro?»

«Entrambe le cose, in realtà.» Si stupì della facilità con cui aveva trovato una risposta. Si passò una mano sul viso, accarezzandosi la barba intrecciata, fino a sfiorare la clip in oro che la fermava in punta. «Non ho mai preso in considerazione l’idea di sposarmi, Balin, questo lo sappiamo entrambi. La mia vita mi ha costretto ad occuparmi di problemi ben più grossi, rispetto alla preoccupazione di prendere moglie e dare al mondo degli eredi; soprattutto ora che ne ho ben due, e degni come se fossero figli miei. Ma ora che abbiamo Erebor, che la Guerra dell’Anello è passata e abbiamo ricostruito una vita di prosperità nella nostra montagna... lei demolisce le mie convinzioni. E improvvisamente l’idea che un giorno tornerà ai Colli Ferrosi con la sua famiglia e magari troverà un marito... mi irrita oltremodo.»

Dwalin s’infilò per la prima volta in quel discorso. «Mahal, che mi scenda un colpo se questa non è gelosia.»

«Non sono geloso!» s’inalberò Thorin, rendendosi conto di quanto falso risultasse quel tentativo di difendersi. «Sono solo confuso da ciò che voglio.»

Il fratello ridacchiò, mentre il diretto interessato stringeva il becco della pipa tra i denti. «Ebbene, questa si chiama davvero gelosia. E se non la doserai nella maniera corretta, Thorin, potrebbe ritorcertisi contro.»

Dopo un lungo silenzio, il Re mormorò: «Come?»

«Facendoti dire o fare cose di cui ti pentiresti; e facendoti crogiolare nell’incertezza e nel tormento.»

«Allora dovrei allontanarla, in modo che ciò non accada.» Egli stesso sentì che ogni parola di quella frase fu come una stilettata al cuore. Come avrebbe potuto farlo, se la sola idea di averla lontana lo faceva ammattire?

«Thorin: è esattamente questo ciò a cui mi riferisco. Non rischiare di rovinare ciò che avete costruito con fatica solo perché sei talmente ottuso da non voler ammettere ciò che provi.»

Il Nano sospirò con pesantezza. «E allora, voi che siete i miei più fidati amici e consiglieri, cosa mi suggerite di fare?»

Balin e Dwalin si scambiarono un’occhiata, ma il maggiore dei fratelli sorrise caldamente. «Fai chiarezza con te stesso e parlane con lei.»

«Così sarai sicuro che si spaventerà e scapperà via, risparmiandoti tanti problemi.» aggiunse Dwalin, con un ghigno.

Thorin scosse il capo. Ecco, quella era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare.

Parlarle.

Di cosa, poi? Aveva già trovato immensa difficoltà a parlare della loro amicizia; non voleva immaginare cosa potesse essere discutere di... qualsiasi cosa provasse.

Quando i più giovani tornarono con le braccia straripanti di cibo, Thorin non osò guardarla in viso e si concentrò sui nipoti. «E quella roba da dove spunta?»

Fili ghignò. «Zio, dovremo portarti a fare un giro per le cucine di Minas Tirith. Che posto suggestivo e profumato!»

«Abbiamo trovato un Uomo che si occupa della dispensa, Targon è il suo nome.» spiegò Kili, prima che venissero accusati di furto. «È stato così gentile da riempirci le mani, appena ha saputo che il Re di Erebor e i suoi sottoposti morivano di fame, dopo una lunga e pesante giornata come quella appena trascorsa.»

Thorin sbuffò, non riuscendo a nascondere il divertimento, mentre quelli sorridevano innocentemente come dei bambini. Sarebbero potute passare Ere, eppure quei due non sarebbero mai cambiati. «Ebbene, prepariamo qualcosa da mettere sotto i denti. Il Re sta davvero morendo di fame.» decretò.

«State pure comodi lì, miei signori.» disse Káel, appena vide lui e Dwalin alzarsi dalla loro poltrona. «Lasciate che prepari la cena per la nobiltà di Erebor.»

Il fratello di Balin si risedette con un tonfo. «Beh.» disse. «Spero proprio che non somigli a tua sorella, allora.» Nascose la sua risata con un paio di colpi di tosse, appena sentì gli occhi indignati della Nana, che incrociò le braccia e si sedette impettita, le guance gonfie e rosse per l’ennesimo sbuffo.

A discapito del comune sangue che condividevano, Káel era un ottimo cuoco, oltre che un buon fabbro e combattente; e ricevette i complimenti di tutti appena si sedettero intorno al tavolo e divorarono la cena, senza preoccuparsi di etichette e buone maniere. L’aria che respirarono in quel frangente fu rilassata e paciosa, poiché tutti loro avevano bisogno di lasciare da una parte i loro timori. Il giorno dopo si sarebbero svegliati presto e avrebbero ripreso a lavorare alacremente per concludere il prima possibile i lavori al Grande Cancello. Ora come ora non avrebbero potuto fare altro e non vi era motivo per tormentarsi con le preoccupazioni.

Trán si occupò di sparecchiare e di sciacquare i piatti, e rifiutò l’aiuto di chiunque volesse darle una mano; del resto non aveva cucinato, che le lasciassero almeno riordinare il caos che avevano fatto. Gli altri si sedettero allora attorno al fuoco, per due chiacchierare in tranquillità. Thorin, però, non fu molto partecipe, gli occhi chiari nuovamente persi sul caminetto e la mente lontana chissà dove. Nemmeno si rese subito conto di uno sguardo fisso su di sé per l’ora successiva; ma quando si voltò per osservare uno dei soggetti dei suoi pensieri, la trovò profondamente addormentata sulle gambe del fratello, il viso rivolto verso la sua direzione, e non riuscì a frenare un sorriso. Era così tenera e indifesa, che quasi stentò a riconoscere in lei la Nana battagliera che lo aveva colpito sin da subito. Notò Dwalin e Káel parlottare e vide il suo amico che, con un po’ di impaccio, si avvicinò alla ragazza per sollevarla con attenzione dalle gambe di Káel, ormai intorpidite. Godette appieno della comicità di quella scena: il burbero Dwalin, che a stento ammetteva persino a se stesso di provare un minimo di simpatia per quella stramba famiglia e per la ragazza, si era trovato costretto a trasportarla per ben due cerchi della città e metterla a letto. Thorin si chiese se fosse pesante e rise tra sé e sé ad immaginare la reazione indignata della ragazza se avesse chiesto una cosa simile.

 

 

 

Boromir odiava aspettare. Tutta la tensione che cercava di cacciare lontano dalla mente, continuava ad affacciarsi in quelle ore di assoluto nulla, e si stava spazientendo. Gli Esterling, infatti, si erano fermati non troppo distanti dalle mura della città, lontano dalla portata degli archi, ma abbastanza vicino da poterli distinguere nitidamente l’uno dall’altro. Avevano puntellato le loro tende arancioni e dorate tutt’attorno Osgiliath e lì erano rimasti, cantando di guerra e morte nella loro strana ed aspra lingua, ma senza muovere un muscolo verso le lance e le spade che portavano con sé, per iniziare un attacco. Il Comandante degli Esterling più volte si era rivolto verso di lui, sfidandolo con lo sguardo, con i gesti, con il suo atteggiamento sfrontato; e lui aveva sentito l’urgenza di portare la mano all’elsa della spada, corrergli incontro e fargli pagare tutto il nervoso che gli stava regalando gratuitamente.

La sera era calata con estrema lentezza e con essa un nuovo banco di nuvole che minacciavano l’ennesimo temporale. Si stava stancando anche di quel brutto tempo, il Sovrintendente. L’unico pensiero che lo tratteneva dal sbottare ad ogni parola era la consapevolezza che Aragorn avesse risposto alla sua richiesta di aiuto in tempi strabiliatemene brevi. Il giovane Nano dai capelli rossi, di nome Káir, gli aveva detto di un grande esercito in movimento da Minas Tirith, e persino lui era riuscito a scorgerlo, nonostante la poca visibilità per la mancanza di luce e per la leggera foschia che si era alzata. Probabilmente li avrebbero raggiunti tardi, in quella notte, e Boromir temeva di aver capito cosa gli Esterling stessero aspettando: infatti, non avrebbero permesso all’esercito del Re di Gondor di coglierli di sorpresa prima che potessero muoversi, e il loro intento era quello di attendere la venuta delle tenebre per muoversi con più facilità senza essere visti e colpiti dalle frecce degli arcieri. Essi erano infatti abili interpreti del mutamento del tempo meteorologico e Boromir si chiese se il loro tempismo fosse dovuto alla fortuna o alle loro previsioni.

Quando la notte giunse, accompagnata da una leggera pioggia, gli Esterling fecero la loro prima mossa, e Boromir pregò che Aragorn galoppasse più in fretta. Non avrebbero resistito a lungo, nonostante i Nani che erano rimasti ad Osgiliath avevano tutte le buone intenzioni di scaricare la loro rabbia sul Nemico. Nell’oscurità la luce di alcune fiammelle si fece importante, ma nessuno di loro, Uomo o Nano, riuscì a capire cosa stesse succedendo. Solo i figli di Rulin, grazie al loro sangue Elfico, riuscirono a scorgere le sagome degli arcieri che bagnavano le punte delle frecce prima nella pece e poi nel fuoco.

«Dardi infuocati! Al riparo!» gridò Tarón, mentre la pioggia di acqua venne mischiata a quella delle frecce; alcune non causarono danni, poiché andarono a collidere contro la solida pietra delle rovine, ma altre si conficcarono nel legno delle impalcature, dei tavoli di lavoro, delle baracche costruite in poco tempo come officine e temporanee residenze. E i Nani, che videro i loro giorni di lavoro buttati alle fiamme, strinsero con rabbia le loro asce e gridarono i peggiori insulti in Khuzdul.

Azdor gioì malignamente nel sentire la collera e l’odio provenire da quelle mura distrutte; credevano davvero che si sarebbero ritirati nei loro antri nella lontana terra di Rhûn e non rivendicare ciò che avevano perduto, tra soldati e dignità? Quel giorno Nani e Uomini avrebbero capito che gli Esterling fossero più agguerriti che mai e che non avrebbero abbassato il capo di fronte a nessun Re, se non al proprio. Puntò la sua lunga e dorata lancia verso la città e i mûmakil, ben protetti da giganti corazze di legno e metallo, si mossero in quella direzione. Neppure un esercito di Elfi muniti di tutte le frecce del mondo avrebbero potuto fermarli, ora.

E mentre alcuni soldati tentavano di spegnere le fiamme, Boromir gridò agli arcieri di mettersi in posizione e di puntare alle zampe degli olifanti, laddove non fossero protette; il resto dei combattenti, invece, si preparò lungo le mura, stringendo le proprie armi con determinazione, in caso i mûmakil e i loro cavalieri fossero riusciti ad oltrepassare le deboli mura in pietra e legno. E sarebbe accaduto tra non molto, pensò con angoscia il Sovrintendente.

I mûmakil si mossero dapprima con lentezza, ma il loro passo si fece via via sempre più spedito e giunsero sotto i loro occhi come dei giganteschi sassi scaraventati dalle catapulte. Non bastarono le frecce degli arcieri, né le pietre che lanciarono, per fermarli. Quelle bestie colossali s’infransero contro la fragilità delle mura in legno, schiacciandole con le zampe e spazzandole con le zanne con la stessa facilità di un piede su un formicaio.

E si scatenò il caos.

Quello che era un cantiere animato fino a poche ore prima, si trasformò in un nuovo campo di battaglia. Numerosi Uomini e Nani vennero uccisi immediatamente dalle zanne armate degli olifanti, ma molti riuscirono a schivare la furia animalesca nascondendosi dietro qualche rovina o accovacciandosi al loro passaggio. Dáin gridò l’attacco e i suoi guerrieri corsero verso le bestie, con le asce sguainate e la risolutezza negli occhi. Con colpi forti e ben assestati, tagliarono e ferirono molteplici volte le zampe degli animali, che presero a muoversi freneticamente in preda al dolore e alla paura. Alcuni edifici crollarono sotto il loro peso, vanificando il lavoro dei Nani e facendo sanguinare il cuore di Boromir, che ancora una volta vedeva la distruzione aggiungersi a quella già presente. La speranza di vedere Osgiliath tornare a vivere, prima della fine dei suoi giorni, si affievolì immediatamente e fu preso dallo sconforto.

E dalla rabbia.

Con un grido di immenso dolore e di battaglia, Boromir si lanciò nella mischia: la sua possente spada sulla mano destra e l’immancabile scudo rotondo alla sinistra. L’unico pensiero che lanciò, al mondo fuori da quelle mura di sangue e distruzione, volò verso Brethil e sperò che almeno lei tornasse a casa sana e salva. Gli Esterling rimasero colpiti dalla veemenza dei suoi attacchi e pochi di loro trovarono il coraggio di affrontarlo a viso aperto.

Solo uno di loro mosse qualche passo nella sua direzione e sorrise, quando Boromir si accorse di lui. Afferrò la lancia con entrambe le mani e lo sfidò, puntando i piedi sul lastricato in rovina e mettendosi in posizione di attacco. Il Sovrintendente quasi ringhiò quando lo attaccò; la forza del suo fendente rischiò di spezzare la lancia, se solo fosse stata fatta in semplice legno. Ma quella era resistente, laminata d’oro e d’argento. Ricambiò l’attacco con l’intenzione di colpirlo in pieno addome, ma Boromir si difese con lo scudo, sebbene arretrò di un passo per la violenza della botta. Si studiarono per qualche secondo, girando intorno ad un invisibile centro. Fu il Sovrintendente ad attaccare nuovamente, irritato da quel gioco di sguardi e di attesa; Azdor si difese ancora e con abilità sorprendente - non era certo uno sprovveduto che sfidava il combattente migliore di Gondor. Con un movimento rapido ed efficace, riuscì a colpire Boromir su un ginocchio, facendolo cadere sull’altro, e l’Uomo si morsicò la lingua pur di non gridare dal dolore.

Azdor ghignò, avvicinandosi come un gatto al topo. «Alzati e combatti, Gondoriano

Il disprezzo che impregnò quell’appellativo gli bastò per non farselo ripetere una seconda volta e Boromir fece ricorso a tutte le energie di cui ancora disponeva, per rimettersi in piedi e riprendere il duello.

Dáin combatteva non molto distante da Glóin, entrambi sporchi di sudore, terra e sangue; accanto al loro Re stavano i figli di Rulin e il loro padre, anch’essi ammaccati per l’aspro combattimento ma ancora in piedi sulle loro ferme gambe. Gli Esterling, che sedevano sui dorsi dei mûmakil, erano infatti scesi a terra, per combattere corpo a corpo; credettero di trovare Nani sfiniti e incapaci di combattere, poiché erano carpentieri e artigiani, ma non avevano fatto i conti con la durezza di quella razza che aveva affrontato il fuoco di un drago e non si sarebbe piegata di fronte a dei miseri uomini dal volto nascosto.

Káir affondò le sue due e maneggevoli asce sulla schiena di un Uomo dell’Est che aveva tentato di attaccare alle spalle il fratello, e gridò per il sollievo di averlo salvato. «Tutto bene?»

Tarón annuì, battendogli velocemente una mano sulla spalla e concentrandosi nuovamente sulla battaglia. Il minore dei due si guardò attorno, cercando con lo sguardo il padre, ma non lo vide subito. Lo scorse accanto a Dáin, sempre fedele scudiero che non lo avrebbe abbandonato per alcuna ragione al mondo. Gli corse incontro, facendosi largo tra cadaveri e nemici, per sincerarsi delle sue condizioni e combattere con lui, ma si fermò, paralizzato dalla paura, quando lo vide cadere sulle sue ginocchia, nel tentativo di parare un colpo diretto al Re. Dáin se ne accorse troppo tardi ed uccise con rabbia l’assalitore. Si chinò sul Nano che gli aveva salvato la vita e lo afferrò sotto le ascelle, per trasportarlo in un luogo più appartato e lontano dagli scontri. Káir li seguì entrambi, gli occhi che già pizzicavano per le lacrime.

«Padre–»

Dáin sollevò uno sguardo pieno di rammarico e dolore sul giovane ragazzo, che non osava avvicinarsi più del dovuto. Rimaneva in piedi a pochi passi dal genitore, gravemente ferito, e lo osservava con gli occhi sbarrati. Káir non aveva mai avuto paura come in quel momento. Credeva che il padre fosse invincibile, dopo tutte quelle battaglie, dopo la scomparsa dell’adorata moglie, dopo la perdita del suo occhio; credeva che niente al mondo avrebbe potuto farlo cadere. E invece eccolo lì, che non aveva neppure la forza di alzare un braccio verso di lui per chiedergli di avvicinarsi, almeno per gli ultimi istanti della sua vita.

Káir si sfilò l’elmo, lasciandolo cadere per terra, e s’inginocchiò accanto al Nano, afferrandogli la mano e lasciando sfogare il pianto.

«Ragazzo mio–» mormorò Rulin, abbozzando un sorriso. «Vorrei... vorrei poter avere più... più tempo per–» Tossì sangue e capì che non molto tempo sarebbe passato prima che i polmoni ne venissero sommersi. «–per salutarvi tutti. Siete il mio... orgoglio.»

Il figlio si chinò su di lui, abbracciandolo con forza e chiedendogli di non andarsene, non ancora. Dáin non ebbe il cuore di allontanarlo, anche se avrebbe voluto evitargli l’ulteriore dolore di doverlo vedere morire tra le sue braccia.

«Saluterò la mamma... per voi.»

«Padre!»

Tarón udì il grido straziato del fratello e chiuse gli occhi. Non ebbe il bisogno di voltarsi e cercarlo, per capire cosa fosse appena successo.

 

 

 

Aragorn ed Éomer incitarono i propri soldati a cavalcare più velocemente. I suoni terribili della battaglia e le colonne di fumo che si sollevavano dalla città di Osgiliath erano inquietanti e gli fecero temere il peggio. Il loro arrivo fu una boccata d’aria fresca per gli assediati e gli Esterling, vedendoli giungere al galoppo e armati delle più nere intenzioni, indietreggiarono, fino alla fuga.

Azdor non si fece intimidire da quell’apparente atto di forza; con un ultimo fendente, colpì Boromir al viso, spedendolo in terra quasi senza coscienza, e ordinò la ritirata, sospendendo momentaneamente la battaglia. Sorrise sotto il suo elmo. Tutto andava secondo i piani. Ora dovevano solo attendere.

Boromir si rialzò a fatica, rintronato per il possente colpo. Si tolse l’elmo e si rese conto che stesse sanguinando dalla fronte. Represse un gemito di frustrazione, ma ritirò la spada e, barcollando, si diresse verso il cavallo di Aragorn, giunto in quel momento.

Il Re di Gondor smontò, incrociando il suo sguardo di sollievo; ma non fece in tempo a salutare l’amico e a sincerarsi delle sue condizioni di salute, perché Dáin gli corse incontro. «Mio signore! Rulin il Carpentiere è gravemente ferito! Potete salvarlo?»

Aragorn, allora, rivolse la sua attenzione al Nano e gli fece cenno di mostrargli la strada verso il ferito.

Boromir dovette attendere parecchio prima di poter parlare finalmente con il suo Re.

E, soprattutto, per chiedergli spiegazioni sulla partenza di Brethil.

Lo seguì laddove Rulin giaceva inerme, tra le braccia del figlio in lacrime. Káir alzò lo sguardo solo quando vide un Uomo di una bellezza regale chinarsi dall’altro lato del padre.

«Ragazzo mio, egli è Re Aragorn e si dice che abbia salvato molte vite disperate, in passato.» gli disse Dáin, con una mano sulla spalla per rassicurarlo. «Lascia che si prenda cura di tuo padre.»

Il giovane Nano scosse il capo. «Non c’è speranza... lui–lui sta morendo.»

Aragorn sorrise. «C’è sempre speranza. E farò in modo che anche tu la trovi.»

Káir trovò lo sguardo del fratello, che annuì. Così si allontanò di un passo, senza distogliere l’attenzione dal Re e dal corpo di suo padre. Accanto a lui, Dáin continuava a dargli il suo sostegno con un braccio intorno alle spalle. Káir amava profondamente suo padre per poter sopportare la sua morte, ma era consapevole che quello era un rischio che doveva mettere in conto, essendo un guerriero; eppure, l’unico pensiero che non gli avrebbe dato pace se il padre non avesse superato la notte e quelle successive, fu l’idea di Trán e del dolore che l’avrebbe sicuramente uccisa.

Trascorsero delle ore, prima che Aragorn si rialzasse dal giaciglio di Rulin e si avvicinasse ai due fratelli, sorridendo con stanchezza. «Ha perso molto sangue, e purtroppo la ferita è profonda. Ma è vivo.» Osservò i due correre dal padre, che pareva profondamente addormentato, e sospirò. Guardò Dáin, che essendo sveglio e vispo, aveva colto qualcosa che l’Uomo non aveva avuto il coraggio di ammettere.

«Non si risveglierà, vero?» domandò in un sussurro.

Aragorn scosse il capo. «Io spero di sì, ma temo di no. Il suo corpo ha resistito fino ad ora, ma non so per quanto ancora possa farlo.»

«Ahimè, è colpa mia se egli sia caduto; colpa mia se si trovasse qui, questo giorno.»

«No, amico mio, non addossarti colpe che non sono le tue.» Aragorn gli strinse le mani sulle spalle. «Io vi ho chiesto di giungere a Gondor e mi assumo la totale responsabilità di tutto ciò per non essermi assicurato della vostra protezione. Ma neppure io avrei creduto che avrebbero attaccato in così poco tempo, e con così poco preavviso. La colpa, a ben vedere, non è di nessuno di noi.»

Dáin annuì, sentendo il cuore pesante e la stanchezza sopraffarlo. Così Aragorn lo lasciò per permettergli di riposare e si avvicinò a Boromir, che discorreva tristemente con Éomer, mentre osservavano i sopravvissuti che spegnevano gli ultimi piccoli incendi e spostavano i cadaveri. Diedero alle fiamme quelli del nemico, poiché un atto simile non meritava il minimo rispetto per i caduti: li avevano attaccati nel cuore della notte, nel punto più vulnerabile che stava tentando di rinascere con tanta fatica e sudore, approfittando del fatto che non avessero difese per respingerli. La rabbia e l’odio nei confronti dell’esercito di Esterling era talmente alta che molti Nani furono costretti a restare ai loro posti con la forza,  pur di non lanciarsi in un attacco suicida e prendersi la loro vendetta.

Boromir si voltò appena si accorse della sua presenza accanto e il sollievo di avere i suoi soldati a difesa di Osgiliath fu presto dimenticato da una collera incontrollabile. Lo afferrò per il colletto del mantello e strinse fino a farsi male.

«Boromir!» esclamò Éomer, trascinandolo lontano dal Re con tutta la forza che disponeva. «Sei impazzito, per caso?»

Aragorn non fece niente per difendersi ma annuì. «Avanti, dimmelo.»

Il Sovrintendente strinse gli occhi, poiché la pioggia continuava a cadere ininterrottamente e gli offuscava la vista. Gli puntò un dito contro, tremando per l’ira e la disperazione. «Ti avevo chiesto di tenerla al sicuro, e tu... tu l’hai spedita verso la morte!»

«È stata una sua scelta, Boromir. E non spetta a me decidere per lei.»

«Avresti potuto dissuaderla, Aragorn!» gridò l’Uomo. «Avresti dovuto farlo!»

«Per te o per lei?»

L’altro non rispose subito; si passò una mano sul viso bagnato e scosse il capo. «Sì, sono egoista, Aragorn. Sono egoista perché voglio proteggerla anche quando lei non vuole che lo faccia. Non puoi biasimarmi per questo.»

«E tu non puoi accusarmi di non averla protetta.» replicò il Re. «Perché andare contro il suo volere, significa anche attaccare il suo orgoglio. Boromir–» aggiunse, più dolcemente. «Tu non sai cosa abbia dovuto sopportare in questo ultimo periodo; non hai visto il suo sguardo, lo stesso che vidi tempo addietro quando desiderava solo scappare per la vergogna e i sensi di colpa. Non potevo costringerla a rimanere in una città che non ha fatto altro se non mettere in discussione la sua posizione e le sue capacità. Si sentiva in gabbia e l’ho liberata.»

«E hai preferito mandarla alla guerra sapendo bene che il suo misero esercito non potrà vincere quello degli Haradrim?»

«Brethil è un soldato, come me e te. E nessuno di noi può fare niente per cambiarlo.»

Boromir si lasciò cadere su una rovina, prendendosi la testa tra le mani e reprimendo a stento la voglia di gridare la sua rabbia.

La rabbia per l’ennesimo attacco alla sua città.

La rabbia per aver visto la morte camminare nuovamente tra le sue fila.

La rabbia per la consapevolezza che Brethil era lontana e in pericolo.

Sentiva nuovamente quell’opprimente sensazione che lo aveva colto quando ancora l’influsso dell’Anello lo turbava, il senso di impotenza che lo frustrava. E lei, lei non era lì, a dargli il suo sostegno. Non era lì, dove avrebbe potuto prendersi cura di lui, e lui di lei, come avevano fatto dal primo istante in cui si erano conosciuti. Si erano lasciati con la speranza di rivedersi dopo una manciata di settimane, e ora sembrava tutto un ricordo lontano e sfuocato.

Non aveva neppure potuto dirle addio.

Aragorn gli si sedette accanto, abbracciandolo fraternamente. «Non farti cogliere dalla disperazione, poiché è questo il loro piano. Ci hanno attaccato nel momento in cui siamo più vulnerabili e contano sul nostro sconforto. Non permettergli di vincerti.» Vedendo che l’amico non osava aggiungere altro, Aragorn si alzò con un sospiro stanco e si incamminò per una ricognizione, portando ben presto conforto e speranza con la sua sola presenza.

Éomer lanciò un’occhiata a Boromir, ancora seduto con lo sguardo perso nel vuoto, e gli batté amichevolmente una pacca sulla spalla. «La donna di cui ti sei innamorato va e viene come preferisce, amico mio. Dovresti averlo capito da tempo, ormai.»

Il Sovrintendente rise con tristezza. «Sì. E non l’amerei se così non fosse.»

«Allora mettiti il cuore in pace, poiché ella non ti permetterebbe di piangerti addosso. Vedrai che tornerà.»

«E quando il momento giungerà la legherò come un cavallo in una stalla.»

Éomer rise. «Chiamami, quando tenterai di farlo. Vorrei essere presente quando sarà lei a legare te!»

 

 

 

*

Ohohoh.

Iniziano a cadere le prime vittime.

E Rulin, ahimè, non sarà neppure l’unico.

Ma taccio! *^*

Alla settimana prossima!

Con affetto,

Marta.

 

   
 
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