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Autore: GoldFish27    07/11/2013    1 recensioni
"Coriandoli di cuore" è una raccolta di storielle a tema romantico e sentimentale, malinconiche e gioiose, dolci e divertenti. Ogni storia si sviluppa intorno ad un tema, come la musica, i colori, le stagioni, il mare ecc.
Il mio intento è regalarvi un sorriso, una lacrima di commozione, un'esclamazione di sorpresa. Sta a voi giudicare se ci riuscirò!
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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IL CARILLON
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1.

Non riuscivo a sentire quel carillon.


Il motore rombava sull’asfalto ghiacciato, il vento ululava tra le fessure dei finestrini, l’eco dei tuoni in lontananza era amplificato dal candido silenzio della natura circostante, degli alberi innevati, degli steli piegati dalla brina.
E il carillon suonava. E io non riuscivo a sentirlo.
- E’ rotto, Caroline.
- No, mamma, non è vero. E’ l’auto che fa troppo rumore.
L’ultima cosa che mia madre vorrebbe, al mondo, è ammettere di aver torto. Rallentò finché il silenzio non si impossessò della nostra vettura. Stando attente, avremmo potuto avvertire i passi eleganti dei cervi nei boschi in lontananza.
Un sorrisetto compiaciuto si dipinse sul volto di mia madre.
- Visto?
Il motore riprese a tuonare.
Era rotto. Che peccato. Era così bello, con quelle sfumature amaranto che luccicavano ogni volta che lo esponevo al pallido sole invernale. Adoravo il suo colore. Ricordo ancora quando l’avevo scorto, nel mezzo di un cumulo di neve, al bordo della strada. Chissà chi poteva averlo lasciato lì, abbandonandolo al gramo destino di essere danneggiato dal gelo.
Non avrebbe mai più funzionato, ma non mi importava. Avevo deciso che quella scatoletta amaranto avrebbe decorato meravigliosamente la mia cameretta.
Ogni giorno lo caricavo e lo lasciavo riversare la sua musica fatta di note che non comparivano su nessuno spartito. E ogni giorno, solo per me, il carillon suonava una melodia diversa. Era la melodia del mio cuore, della mia vita, delle mie sensazioni.
Ascoltavo allegre ballate, fughe rocambolesche, raffinati lenti, sinfonie alte o basse, gioiose o tristi, simpatiche o deprimenti … tutto a seconda del mio umore. C’erano poi giorni in cui il vuoto nella mia testa non si traduceva in alcuna musica, e il carillon continuava a girare, muto.

Melodia dopo melodia, passarono i giorni, e poi i mesi, e poi gli anni. La scatoletta amaranto continuava a deliziarmi con la sua musica silenziosa, e il mondo mi pareva tutto un’idillica sinfonia. Ogni persona passava la sua vita su un pentagramma fatto di note che il Tempo suonava con le sue mani svelte e imperdonabili, con una bravura da far invidia al più sopraffino dei musicisti.
Uno sciagurato giorno, però, la sinfonia della mia esistenza giunse ad una nota stonata. Anzi, a dire il vero, parecchie note stonate: quelle dei lamenti e delle grida di mia madre.
Piangeva disperata, alternando il mio nome ad imprecazioni e richieste di perdono.
- Oh, mio Dio! Caroline! Dove sei?! Ossignore!
Per fortuna, quel giorno mi dimenticai di caricare il mio carillon: sarebbe di certo esploso per la quantità di note che il mio cuore stava riversando.


2.

Arrivammo all'ospedale che erano le 6, e il sole era calato da un pezzo.
Mia madre mugugnò qualcosa ai medici del pronto soccorso, che ci indirizzarono verso l'ambulatorio. La rincorsi lungo i muri bianco latte mentre i miei polmoni si abituavano all'odore sterile di quell'ambiente, finchè non raggiungemmo una camera contrassegnata dal numero 69. Entrammo.
Vidi due infermieri fermi davanti ad un lettino, ma non riuscii a scorgere il paziente.
- Come sta? - chiese ansiosa mia madre al primo degli infermieri, che portava due occhialoni grandi quanto arance.
- Bene. Abbiamo interrotto l'emorragia cranica, ma il vero problema rimangono le gambe. Sono state rilevate numerose fratture scomposte e pare che sia stato
compromesso anche il midollo. Non sappiamo quante speranze abbia di poter ritornare a camminare.
Pronunciò queste parole tutte d'un fiato, poi uscì in fretta dalla stanza, chiamato dal lavoro. Il secondo medico rimase in disparte a studiare la lastre a raggi X in controluce.
Mia madre si avvicinò al ricoverato. La imitai, e fu allora che lo vidi, avvolto in una candida coperta, con la testa reclinata su un cuscino imbottito, le flebo attaccate ad un braccio, gli occhi chiusi in un'espressione a metà tra l'incoscienza e il dolore.
Era un ragazzo
.

- Com'è successo? - chiesi a mia madre, che non smetteva di fissare il lettino, muta.
- Ti ricordi di quando abbiamo trovato il carillon?
La domanda mi colse di sorpresa. Cosa c'entrava il mio bel carillon?
- Sì ...
- Be', è avvenuto
esattamente in quel luogo. Non sono riuscita a frenare in tempo.
Il silenzio sigillò quelle parole, così come il gelo sigilla le gocce d'acqua negli involucri cristallini che scendono nelle nevicate. Rimasi a fissare quel povero giovane, e provai compassione per lui.
Il medico notò il mio sguardo triste e mi diede una pacca amorevole sulla spalla, prima di dileguarsi. Probabilmente mi aveva scambiato per una parente, magari sua sorella, dato che avevo quindici anni e il ragazzo non poteva averne più di diciotto.
Scosso da un improvviso fremito, il ragazzo senza nome si svegliò, voltando il viso dalla nostra parte.
Lo fissai negli occhi.
Mi mancò il respiro.
Amaranto, come il carillon.


3.

Quella notte, i miei sogni furono dello stesso colore: sognai il misterioso ragazzo e i suoi occhi amaranto pieni di tristezza, rassegnati agli eventi che gli stavano rendendo la vita un inferno.
Il giorno successivo, alla stessa ora, ero di nuovo là, insieme a mia madre, nella camera 69. Mi feci coraggio e gli chiesi come stava, ma fu come se avessi parlato al macchinario che gli monitorava la pressione sanguigna.
- E' ancora sotto shock - mi spiegò mia madre. Da allora mi limitai a fissarlo, a fissare i suoi occhi e il suo volto, quand'era sveglio e quando riposava, per cogliere ogni qualunque sua sfumatura espressiva. Volevo sapere come si sentiva. Volevo sapere cosa provava.
Non sapendo il suo nome, lo ribattezzai "il ragazzo della camera 69", anche se dentro di me rimaneva sempre "il ragazzo dagli occhi amaranto". E nelle settimane che furono, lo rividi ogni giorno.
La routine era sempre la stessa: arrivavamo alle 6 e ci trattenevamo per mezz'ora. Mia madre passava il suo tempo a discutere con i medici, esigendo (sì, esigendo) i risultati delle ultime radiografie. Io, invece,
mi intrattenevo con il ragazzo senza nome in lunghe conversazioni fatte di sguardi, di cenni del capo e di altri piccoli gesti. Piccoli, ma non insignificanti.
Man mano che il tempo passava, potevo notare di come lui si stesse abituando alla mia presenza. Sempre più spesso, infatti, mi sorrideva. Era un sorriso muto e malinconico, un sorriso vero, che in altro contesto avrei potuto definire addirittura dolce. Lo guardavo mentre sospirava, gettando gli occhi attraverso gli spessi vetri della finestra. Sapevo che avrebbe voluto essere là fuori, a correre sotto i fiocchi di neve, a vivere la sua vita, a respirare l'aria di chi non è costretto ad abitare in un letto. Ogni tanto, poi, i nostri occhi si incontravano, e le mie iridi dorate si specchiavano nelle sue amaranto. Erano incantevoli. Avrei potuto stare ore e ore a fissarle. E ogni volta, nonostante fuori ci fossero dieci gradi sotto lo zero, sentivo il tepore dell'estate accarezzarmi soavemente la schiena.
Con il tempo, la mia affezione nei suoi confronti cresceva, e non solo a causa dei suoi occhi. Ormai il suo volto triste e pacato e il suo sorriso sincero avevano preso ad affollarmi la testa, tant'è che mi dimenticai del mio bel carillon.
Il mio bel carillon che, da quando avevo conosciuto il ragazzo senza nome, non avevo più caricato. Il mio bel carillon che aveva addolcito la mia vita di ogni giorno suonando per me la musica della mia anima.
Adesso non c'era più lui nella mia vita.
Adesso non era più lui a suonare la musica del mio cuore.


4.

La neve continuava a scendere, facendo scomparire tutti i colori con il tocco delicato dei suoi fiocchi. Rimasi ad osservare il cornicione dell’edificio mentre mutava nel bianco più soffice, uniformandosi allo scenario di chiome innevate e nuvole di panna. Mi strinsi nelle spalle per darmi più calore di quanto potesse trasmettermi quella scomoda sedia, di fronte al lettino. Chiusi gli occhi. Sentivo i passi degli infermieri nel corridoio mescolarsi alle loro voci, alle le voci dei pazienti in attesa, al cigolio dei carrelli che trasportavano il vitto degli sfortunati ospiti dell’ospedale. Già, “sfortunati ospiti”, proprio come il ragazzo senza nome che soggiornava in quella stanza. Sentivo i suoi respiri regolari, calmi, sereni. L’immagine del suo sorriso mi balenò in mente, conciliandomi il sonno. E in pochi secondi, la mia mente fuggì via dalla realtà.
Pensai a mia madre, al carillon, alla mia vita, alla vita del ragazzo, al suo volto, al suo sguardo, all’ospedale, agli occhiali di quel medico grandi quanto aran …
- Caroline!
La mia testa scattò in alto. Gettai uno sguardo intorno. Nessuno. Chi mi aveva chiamato? Mia madre? Erano settimane che mia madre non mi accompagnava più all'ospedale, dopo aver cambiato l’orario di lavoro ...
Decisi che la stanchezza mi aveva giocato un brutto scherzo e chiusi nuovamente gli occhi.
- Caroline!
Questa volta avevo sentito chiaramente il mio nome. Qualcuno mi aveva chiamato, ma chi? Non c’era nessuno, nella stanza, oltre a me e il …
Mi alzai in piedi e lo guardai. Aveva aperto gli occhi e mi stava fissando con la sua solita espressione mite. In un centesimo di secondo realizzai che, in fondo, lui la lingua ce l’aveva ancora, e se non fosse stato per lo shock, chissà quante cose avrebbe detto. Ma, a quanto pare, lo shock era passato.
Migliaia di diversi sentimenti ribollirono nel mio stomaco, come migliaia di note suonate a casaccio da mille strumenti diversi. Non avevo la più pallida idea di cosa dire. Sapevo che in casi come questi c’era bisogno di una parola di conforto, di fiducia, di gioia, per ricolmare il vuoto che una persona aveva lasciato durante il suo stato di semi-coscienza. Be’, forse non era proprio quella la situazione, ma era molto simile. E così, prima che potessi svenire dall’imbarazzo, cercai di articolare le prime due sillabe che mi passavano per la gola.
- Che … c’è?
Il ragazzo continuò a fissarmi, senza dire niente. Poi, come per magia, le sue labbra si mossero.
Chissà quale sarebbe stata la sua prima parola, dopo il mio nome. Anzi, a dire il vero, lo sapevo già: mi avrebbe chiesto maggiori spiegazioni sulla mia identità … e poi mi avrebbe chiesto di mia madre, la donna che gli aveva rovinato la vita … poi mi avrebbe chiesto di andarmene … e poi mi avrebbe detto che non mi voleva più rivedere … e poi …
- Grazie.
- Di nulla.
Risposi di getto, senza nemmeno pensarci su, e mi meravigliai della dolcezza del mio tono.
E intanto, fuori dalla finestra, la neve scendeva ancora.


5.

La notizia mi colse impreparata. Perchè adesso? Perchè proprio ora?
Mi sdraiai sul letto. Com'era ingiusta la vita: proprio quando ero finalmente riuscita a parlargli, proprio quando avevo saputo il suo nome, ecco che me l'avrebbero portato via. "Un ospedale più avanzato", dicevano. "Riceverà le cure mediche che gli necessitano". Sì, ma chi curerà il mio cuore?

Guardai il mio carillon che, intanto, assisteva muto al mio struggersi. Avesse funzionato, mi sarei risollevata il morale ascoltando qualche sua allegra melodia, perché adesso in corpo non avevo altro che note talmente malinconiche che qualsiasi strumento musicale si sarebbe rifiutato di suonarle.
Balzai in piedi. Così non avrei concluso nulla. Dovevo affrontare la situazione con decisione, altrimenti i ricordi mi avrebbero fatto loro schiava. Per sempre.
Il giorno dopo, l’ultimo prima del suo trasferimento, mi presentai mezz’ora prima, così da potermi trattenere più a lungo. Ero decisa a rivelargli che la mia assidua presenza non dipendeva soltanto dal mio rammarico per il suo incidente. No, c’era qualcos’altro che mi teneva legata a lui, qualcosa di meravigliosame
Avevo con me il mio carillon amaranto.
- Ciao, Caroline.
- Ciao, come stai?
- Potrebbe andare peggio. Oggi il chirurgo ha detto che c’è speranza che mi possano impiantare delle protesi.
La notizia mi fece gioire e allo stesso tempo intristire.
- Ho … ho una cosa da farti vedere.
Posò sul comodino accanto al letto il libro che stava leggendo e si sporse cautamente verso avanti, incuriosito. Estrassi dalla busta il carillon e glielo mostrai. Lui lo guardò e sorrise. Poi abbassò lo sguardo e si lasciò cadere sul morbido cuscino, silenziosamente. Pareva che lo strumento non lo incuriosisse molto.
- Qualcuno l'aveva abbandonato, e così l'ho preso io. E’ bello, vero? – gli chiesi, stranita dal suo atteggiamento.
- E’ bellissimo, Caroline. Soprattutto le cromature amaranto.
Pronunciò queste parole senza enfasi, quasi fosse stato abituato a farlo.
- Ne hai già visto uno simile?
- Certo. A casa ne avevo uno uguale.
- Davvero? Ce l’hai ancora?
- Non più, purtroppo. Molto tempo fa lo persi per strada.
Un brivido mi attraversò la schiena.
- Vuoi dire che …
- Esatto. Quel carillon era mio.


6.

- Io … io non sapevo … insomma …
- Non devi scusarti, non è colpa tua. Avrei dovuto incidere il mio nome, da qualche parte su quella scatoletta. Ma sono contento che ce l’abbia tu.
Fece un larghissimo sorriso, e fece sorridere anche me.
- Caricalo, ti prego. Da bambino ascoltavo sempre la sua melodia. Mi piaceva un sacco. Passavo pomeriggi interi ad ascoltarla e riascoltarla ancora e ancora.
- Ehm …
Non me la sentivo di dirgli che era rotto, ma cos’altro avrei dovuto fare? Lo caricai e lo lasciai lì immobile, muto.
- Oh …
- Era già rotto quando l’ho trovato, mi dispiace … Forse il freddo deve averlo danneggiato.
- Sì, sarà stato così.
La sua espressione delusa mi fece sentire colpevole. Tentai di rimediare.
- Però si può aggiustare, vero?
- Non credo: è un modello molto vecchio. Se è stato logorato il meccanismo, è difficile poterlo rimettere in sesto. Purtroppo, questo bel carillon non suonerà mai più.
Accompagnò quest’ultima frase con un sospiro affranto. Dopodiché, calò il silenzio. Chinai il capo e mi strinsi nelle spalle, e avvertii il suo sguardo sui miei capelli bruni. Sentii il calore delle sue iridi che perforava il mio cuoio capelluto e scendeva dritto verso il mio cuore. Basta ad aspettare. Era giunto il momento di farsi avanti.
- No, ti sbagli. - esordii, fissandolo dritto nelle iridi lucenti - Questo carillon ha suonato, e continuerà a suonare. Questo carillon è stato il sottofondo dei miei pomeriggi, ogni singolo giorno della mia vita, durante questi ultimi anni. Questo carillon ha suonato le note che nessuno, oltre a me, avrebbe mai potuto ascoltare, perché provenivano dallo spartito del mio cuore che la mia mente aveva scritto, che i miei occhi avevano inciso, inglobando le immagini di ogni giorno e trasformandole in pura melodia. Questo carillon è stata la causa per cui quello sciagurato giorno in cui mia madre ti privò delle gambe io non ho mai smesso di pensare ai tuoi occhi, alle loro iridi amaranto piene di sofferenza e di dolore. E ogni volta che venivo qui era per controllare che quegli occhi esistessero ancora, e non fossero stati semplicemente frutto della mia immaginazione. E ogni volta li ritrovavo, insieme al tuo sorriso e alla tua malinconia, ed ero qui per dirti di non abbatterti, perché, finchè ci sarà una musica da ascoltare, al mondo, nessuno dovrà mai rinunciare allo sforzo che costa vivere la vita. E se oggi sono qui, è perché ho trovato qualcuno che possa sostituire questo carillon, qualcuno che possa intonare la voce della mia anima, dei miei sentimenti. E questo qualcuno sei tu. I tuoi occhi mi hanno attratto, e la tua melodia mi farà restare. Proprio come un carillon …
Due mani larghe e tiepide si poggiarono sulla mia nuca, spingendo le mie labbra contro le sue. Dovetti alzarmi sulle punte, perché lui era più alto di me di quasi una spanna. Mentre stavo parlando, non mi ero accorta che si era alzato in piedi, nonostante le osse delle sue gambe fossero rotte, e faceva una sforzo immane per mantenere quella posizione. Potevo sentirlo dal tremore delle sue dita, delle sue mani, delle sue braccia. La sua testa, però, rimaneva immobile, come non volesse turbare quel bacio così appassionato, così caldo e sentito, così musicale.
Sentivo una sinfonia, in sottofondo, ed ero sicurissima di ascoltarla, non me la stavo immaginando.
Il ragazzo staccò la sua testa dalla mia, e reprimendo un grido di dolore, si lasciò ricadere violentemente sul lettino. Voltai la testa per capire da dove venisse quella musica così meravigliosa, e il mio sguardo si posò sul carillon, immobile sul comodino di fronte a me.
Suonava. Stava suonando. E non quello che il mio cuore gli diceva. Dopo tutti questi anni, il carillon stava suonando la sua melodia.
Ed era la melodia più bella di sempre.








 
   
 
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