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Autore: Sogno87    09/11/2013    0 recensioni
Cosa accadrebbe se Albus Severus Potter, un bambino infelice e disadattato, incapace di confrontarsi con il suo ruolo di "diverso" all'interno della sua famiglia, trovasse inaspettatamente il libro del Principe Mezzosangue?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Harry Potter, James Sirius Potter
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Il colore del coraggio (Sogno87)

Ho sempre creduto di essere diverso. Nella mia mente questa certezza galleggiava evidente, per quanto cercassi con tutte le forze di reprimerla, fino a farla sprofondare negli abissi dell’ignoto. Quel giorno lo ero stato davvero. Avevo finalmente eliminato la distanza che intercorreva fra ciò che ero e ciò che credevo di essere.
Sentivo il cuore pulsare spaventato e disilluso. La stanza buia sembrava riflettere i miei pensieri. Dalla finestra della sala si poteva ammirare il chiarore della luna, l’unica luce che tentava di fendere il muro di terrore che aleggiava nella stanza. I contorni della casa parevano ombre deformate, come le illusioni della mia coscienza. Tutto parlava di colpa e di morte. Cercavo di non pensare, di annullare ogni sensazione dalla mia mente, di cancellare con una gigantesca gomma invisibile ciò che era stato.
D’un tratto vidi mio padre attraversare il buio che ci divideva. Lo vedevo nonostante l’oscurità, perché percepivo la sua frustrazione e il suo sgomento.
Aveva paura di me. Si vergognava di me.
Alzai gli occhi in un impeto di coraggio e tremai quando incrociarono i suoi. La sua espressione era muta, impercettibile.
“Come sta James?” sussurrai, terrorizzato dalla possibile risposta.
“Meglio. Per fortuna l’abbiamo curato in tempo!” Persino la sua voce era inconsistente, sigillata in un sospiro.
Costrinsi il mio capo a chinarsi di nuovo, quasi a volerlo punire di aver osato troppo. Non dovevo guardarlo negli occhi.
“Cosa credevi di fare?” Mi chiese all’improvviso.
Rimasi impietrito, ma sapevo di dover dare una risposta. Il problema era che non ne avevo una soddisfacente. Qualsiasi risposta tentassi di dare a quella domanda rimaneva sospesa nella mia mente, risultando inutile ed imperfetta.
“Non lo so papà. Non lo so… Forse volevo solo essere qualcuno. Forse volevo capire chi sono. Ho sempre saputo di non essere come voi. Io sono diverso papà, e volevo soltanto dimostrarlo a me stesso. Volevo almeno essere come lui, come il Principe mezzosangue. Credevo che mi sarei sentito rispettato infine, che l’insicurezza insita nel mio cuore sarebbe svanita, che persino James avrebbe compreso che valevo qualcosa. M-mi dispiace…” risposi d’un fiato, con il residuo di coraggio che mi attraversava la pelle. Non osai guardarlo. Sarebbe stata insostenibile la sua delusione.
“Volevi essere diverso per essere qualcuno. Ti capisco meglio di quanto tu possa immaginare”.
Questa volta il mio capo agì da solo, allibito dalle parole che mio padre, il Prescelto, aveva pronunciato. L’uomo che aveva salvato il mondo con il suo coraggio e la sua lealtà poteva comprendere l’oscurità del mio animo. Sembrava impossibile.
Lo fissai a lungo, in silenzio, poi sembrò sospirare e ricominciò.
“Ricordi la prima volta che salisti sull’espresso di Hogwarts, Albus? Allora ti spiegai l’origine dei tuoi nomi. Pensavo di aver detto abbastanza, ma forse la colpa di quello che è successo è soprattutto mia.” Sospirò di nuovo. Sembrava stanco. Poi riprese.
“Tu credi di sapere ogni cosa sul Principe Mezzosangue. Credi che essere come lui significhi seguire la via del male. Sei convinto, come lo ero io un tempo, che essere un Serpeverde comporti un atteggiamento malvagio e colpevole. Sei così simile a tuo padre!”
Si portò una mano alla fronte, comprendo gli occhi che brillavano al chiarore della luna. Sospirò come a riprender coraggio. Tornò in sé e disse:
“Sai chi era il Principe Mezzosangue, Albus?”

Credevo davvero di conoscerlo. L’avevo immaginato tante volte da farlo sembrare reale.
Il mio legame col Principe era iniziato un pomeriggio d’autunno.
Ero accovacciato ai piedi di un grande abete nei pressi del Lago Nero. Ero solo, come spesso mi capitava. Avevo adagiato i miei fedeli libri ai piedi dell’arbusto e fingevo di studiare, sebbene i miei occhi si affannassero nel cercare una figura lontana.
Lei era sdraiata sul prato, bellissima e circondata da ragazze. I capelli corvini le incorniciavano le guance appena arrossate dall’aria fresca. Un timido sorriso le sfiorava il viso.
Sara mi aveva stregato. Mi bastava ammirarla per sentirmi appagato. Era del mio stesso anno, ma, diversamente da me, lei era una Grifondoro. Quando la vidi nell’aula di Pozioni, ancora una volta pensai che nel mio sangue scorresse qualcosa che mi teneva lontano dalla felicità. Ancora una volta odiai il Cappello Parlante, che mi aveva condannato ad essere diverso ai suoi occhi.
Non avrei mai osato avvicinarmi a lei, perché, ne ero sicuro, mi avrebbe guardato con disprezzo, come tutti gli altri fortunati che vivevano nel mondo dorato dei buoni. Il verde del mio mantello faceva di me un essere immondo per tutti coloro che mi conoscevano. Persino mio fratello evitava di parlarmi quando era in luoghi affollati. Io ero una vergogna per lui. Ero un Serpeverde!
Eppure mi nutrivo di lei ogni volta che mi era possibile. La seguivo nel parco, la osservavo mentre sorrideva con le compagne, la spiavo durante le lezioni, sempre mantenendo la giusta distanza, senza dimenticare la mia diversità.
Era un desiderio irrealizzabile cui protendevo con tutto il mio essere, come un bambino che guarda estasiato un ninnolo che non avrà mai. Ciò che ci è proibito suole attirare la nostra attenzione in modo ingiusto.
Lei non poteva sapere quanti sogni riempiva la notte, quante speranze alimentava con un sorriso, quanta malinconia diffondeva nel mio spirito. Mai, neppure una volta, l’illusione di poterla conquistare aveva sfiorato la mia mente. Mai avrei osato nemmeno rivolgerle la parola per il timore agghiacciante di sentirmi respingere. Mi alimentavo di lei in silenzio, senza pretese, senza illusioni.
Quel pomeriggio d’autunno, tuttavia, non fui capace di mantenere il controllo.
Esplosi, semplicemente.
Lo vidi distante, mentre si alzava dall’ombra del suo albero e volgeva lo sguardo verso di lei. Pian piano i suoi piedi si misero in ordine, creando un percorso che mirava a raggiungerla. Pian piano fu sempre più vicino. Sempre di più.
La sfiorò. Lei si voltò, curiosa, sul giovane che la cercava. Sorrise non appena capì chi era. Sorrise, come non aveva mai sorriso prima d’ora. Era lusingata. Felice.
Il brillio dei suoi occhi color del cielo mostrava chiaramente ogni sua più recondita emozione. Era un libro aperto, delizioso da scoprire. Questa volta, però, il suo contenuto non mi piacque.
James parlò, il mio perfetto fratello Grifondoro, con la consueta autorevolezza.
Quando apriva bocca sembrava che il mondo si fermasse ad ascoltarlo. Il suo carisma non aveva eguali, come la sua prestanza fisica e il suo coraggio. Molti lo avrebbero paragonato al nonno per l’orgoglio e la popolarità che lo caratterizzavano.
Era un portento con le ragazze. Poteva conquistare anche le più carine, perché sapeva incantare, ma quel pomeriggio, quel maledetto pomeriggio d’autunno, il mio perfetto e disgustoso fratello Grifondoro aveva puntato la ragazza sbagliata.
Il mio cuore sembrava impazzito, ruggiva violento di sofferenza.
Sara sorrideva. Felice. Mai prima d’allora il suo sorriso mi era parso tanto rivoltante.
James sembrò concludere il discorso e mollò la preda ormai spacciata.
Il cuore continuava a tamburellare nel mio petto, irrefrenabile, mentre i miei occhi, ancora protesi su Sara, la vedevano arrossire delicatamente. Era meravigliosa. E crudele.
Non pensai. Persi il controllo del mio corpo, come se il legame che collegava le mie azioni e la mia mente fosse irrimediabilmente perduto. Infilai con forza i libri nella borsa e mi alzai, irritato. Decisi di seguire mio fratello, per fare qualcosa, anche se non sapevo ancora cosa.
Lo vidi mentre si avviava verso il proprio dormitorio, quello stesso che avevo anelato nei miei sogni di bambino, immaginandolo ricolmo di drappeggi dorati e del color della porpora. Quello stesso che aveva visto crescere i miei genitori e tutte le persone che ammiravo. Quello stesso di cui James si vantava con orgoglio ogni volta che gli era possibile, descrivendone il profumo accogliente e il tiepido tepore. Quello stesso che io non avrei mai visto.
James. Lui aveva avuto tutto ciò che mi era sempre stato precluso. Era diventato ciò che sarei voluto essere. La mia ammirazione per un fratello tanto perfetto da risultare ripugnante era pari al mio disprezzo.
Lo amavo perché era sangue del mio sangue, gli volevo bene come si vuole bene ad un fratello, ma, nelle profondità del mio animo, una parte di me sapeva di odiarlo, perché James era la prova vivente del mio fallimento. Da sempre, osservando la sua perfezione, mi crogiolavo nella mia diversità. James mi rendeva diverso, quasi sbagliato.
Raggiunse il settimo piano. Io cercai di seguirlo, ma lo persi di vista proprio dinanzi all’arazzo di Barnaba il Babbeo bastonato dai Troll. Ripresi fiato. Non riuscivo a stargli dietro.
Mi aveva battuto ancora una volta, pur senza saperlo.
In quell’istante preciso il mio cuore gridò vendetta. L’odio celato nei meandri della mia coscienza evaporò sottile e si prese gioco della mia volontà. Desiderai ardentemente vederlo soffrire. Una follia disgustosa che partiva dal mio stomaco lo vide ferito, coperto di sangue, che implorava pietà.
Fu un attimo, un battito di ciglia, e il muro dinanzi ai miei occhi si mosse. I mattoni presero a spostarsi, in ordine, fino a formare un’apertura, che ben presto si mutò in una porta. La porta, dapprima minuscola, infantile e ridicola, si alzò, poi ancora si allargò e di nuovo si alzò fino a raggiungere il soffitto. Due maniglie comparvero ai bordi delle ante, invitandomi ad aprirle.
Rimasi estasiato da un tale prodigio. Il timore di cattive sorprese mi spinse a titubare prima di afferrare la maniglia dorata, ma infine la curiosità ebbe la meglio, piegai il polso, esercitando una leggera flessione sulla porta, sospirai, come per farmi coraggio, ed entrai.
Un mondo complesso si aprì dinanzi ai miei occhi. Scaffali e scaffali di oggetti, labirinti di ninnoli e cianfrusaglie si contorcevano nello spazio di quella stanza. Migliaia di ricordi e di esperienze erano ammassati in quel ripostiglio della memoria. Mi aggirai stupefatto fra abiti dismessi, oggetti incomprensibili, libri sfaldati, mobili risalenti ad epoche e mondi sconosciuti. Tutto sembrava respirare una storia, tutto pareva parlare di un passato, nascosto chissà dove.
D’un tratto una luce dorata comparve dinanzi ai miei occhi, richiamando la mia attenzione. Iniziò a muoversi, ondeggiando leggermente, fra gli scaffali popolati di memorie. Mi lasciai guidare, come un bambino aggrappato alla gonna della madre, e raggiunsi un busto capeggiato da una parrucca, che desolato giaceva fra miriadi di minutaglie.
La luce dorata si posò dunque su un libro insignificante, adagiato ai piedi del busto. Era logoro, ma trasudava esperienza. Sentii un leggero brivido quando lo afferrai. Mi sembrava la soluzione a tutti i problemi. Non avrei mai potuto immaginare che quel libro sarebbe divenuto un compagno indispensabile.
Si trattava di un semplice libro di Pozioni, che aveva vissuto la sua storia in un lontano passato. Mostrava i segni del tempo che lo aveva visto percorrere, giorno dopo giorno, la vita dei suoi proprietari. Sfogliandolo incrociai appunti del suo effettivo possessore, probabili intuizioni dovute alla sua esperienza di mago. Vi erano annotati anche degli incantesimi, a me completamente sconosciuti.
Sulla legatura stropicciata trovai scritto: “Questo libro è proprietà del Principe Mezzosangue”. Quando i miei occhi accarezzarono svelti tale nome per la prima volta, un brivido insipido s’infilò sotto la mia pelle. Una sensazione di noto e di passato mi balenò alla gola.
Lo conoscevo? Pronunciare il suo nome mi procurava un sapore familiare in bocca.
Il Principe Mezzosangue… trapassava i miei pensieri incessantemente, era una droga che riempiva le mie giornate, convogliando i miei sforzi e le mie capacità.
Da allora non passò istante in cui la mia mente si liberò del suo ricordo. Non passava giorno senza che sfogliassi il libro impaziente, al fine di apprendere quanto più potevo dalla sua acutezza.
Mi ero sempre dimostrato un alunno talentuoso: comprendevo facilmente gli incantesimi più complessi ed ero affascinato dalla misteriosa arte delle pozioni. Mescolare elementi disparati poteva produrre incanti ineguagliabili. Stupefacenti.
Grazie alle illuminazioni del Principe, tuttavia, riuscii ad afferrare il vero scopo della magia,
la finalità dell’imperscrutabile. La conoscenza che mi procurava seguirlo era il piacere più grande. Mi nutrivo della sua perfezione, trasformandola nello specchio della mia.
Inoltre la mia immaginazione aveva cominciato a mostrarsi feconda nei riguardi di una tale personalità. Non conoscevo nulla che lo riguardasse davvero, ma percepivo la sua presenza nelle mie sensazioni. Talvolta il sentore che qualcosa di impercettibile mi legasse a lui lo rendeva molto vicino al mio cuore. Credevo di sapere chi fosse.
Un Serpeverde, di sicuro, ma soprattutto un grande mago. Lo rappresentavo imbattibile e intrigante nella sua autorevolezza. Iniziai pian piano ad idealizzarlo. Plasmai un’immagine, basandomi su ciò che desideravo che fosse. Anzi, lo resi quel qualcuno che sarei voluto essere. Divenne la fonte di ogni mia ispirazione, la meta da raggiungere, l’esempio che tanto avevo cercato.
Se non mi era concesso diventare un mago come mio padre, né seguire la via della gloria e della fama che da sempre aleggiava sulla mia famiglia, allora avrei mirato ad un obiettivo differente. Lontano, sicuramente sconosciuto, ma di certo unicamente mio.
Il Principe mi apparteneva. Era il segreto che avevo confessato alla mia coscienza.

Ricordo ancora l’aria fresca di quella mattina, tanto vicina ai miei pensieri da gelarli di memoria. La scuola era in subbuglio per l’imminente finale del Campionato di Quidditch, che avrebbe visto gareggiare il coraggio dei Grifondoro contro l’ambizione dei Serpeverde.
Quando lasciai il dormitorio appannato di vocii il sole era ancora debole all’orizzonte e carezzava dolcemente la distesa del Lago Nero. Mi recai alla partita controvoglia, con l’unica speranza di ammirare tra la folla l’angelo che mi aveva rapito il cuore.
Sara si perdeva tra la moltitudine di Grifondoro. Non appena i miei occhi la catturarono, mi sembrò d’aver conquistato la riva, guidato dal faro della passione. Era mescolata in quel mare di oro e porpora che urlava eccitato. Il suo sguardo sembrava fisso su un punto preciso, in fondo al campo.
James se ne stava entusiasta all’interno della sua divisa da Cercatore, appoggiato alla Firebolt regalatagli lo scorso Natale, con un sorriso beffardo sul volto. Anche il successo nel Quiddich aveva ereditato da nostro padre, che a suo tempo si era distinto come il più giovane Cercatore della storia dei Grifondoro, nonché come capitano della squadra.
Suonò il fischio d’avvio e la partita prese le sue mosse. James balzò in groppa alla scopa con estrema eleganza e s’avviò prepotente alla ricerca del boccino. Sapeva che avrebbe potuto procacciarsi il merito della vittoria. Tra lanci, cadute e svolazzi confusi, il mio sguardo tentava di soffermarsi su quello di Sara, che osservava attento lo svolgersi dell’incontro.
Nel momento in cui James si allontanò dal campo, sfrecciando potente, gli occhi di Sara lo seguirono ansiosi, e il suo volto, come un girasole ammaliato, si perse nel pensiero di lui.
Lo inseguiva tra le nuvole lontane.
Ancora una volta il sangue che scorreva nelle mie vene sembrò rivoltarsi violento. Un’ira esplosiva s’impossessò del mio essere. Cercai con gli occhi mio fratello. Lo cercai per distruggerlo.
Dovevo annientarlo. Dovevo vederlo soffrire.
Fuggii, spaventato dai miei pensieri. Abbandonai gli spalti dello stadio in fretta, proprio nell’istante in cui lo speaker annunciava la vittoria dei Grifondoro. Il loro Cercatore aveva disputato una partita eccellente.
Preferii non voltarmi, preferii evitare gli occhi ammirati di Sara. Di sicuro erano ricolmi d’orgoglio. E d’amore.
Corsi lontano. Mi ritrovai all’improvviso ad un passo dalla Foresta Proibita, che mi osservava cupa e tetra dall’alto del suo mistero. Quanto avevo camminato?
Scrollai il capo, quasi a voler cacciare via il ricordo di quel volto estasiato, ma non vi riuscii. I mormorii della vittoria raggiungevano anche l’oscurità della foresta.
Afferrai nervoso la borsa che portavo con me, ed estrassi con impeto il libro del Principe, quasi a voler cercare conforto nella sua compagnia. Lo aprii a caso ed iniziai a sfogliarlo, senza motivo. Mi soffermai su una nota più appariscente delle altre, posta al margine di una pagina stropicciata.
Vi era scritto: “SECTUMSEMPRA”, e accanto, come suggerimento, “da usare contro i nemici”.
Si trattava di un incantesimo, uno di quelli a me sconosciuti che il Principe aveva creato grazie al suo intuito formidabile.
Il Principe… Di sicuro non si sarebbe trovato in una simile situazione. Di sicuro avrebbe avuto quello che voleva, senza compiere errori, senza cedere al timore.
Forse ero diverso anche da lui.
Un rumore di passi giunse alle mie orecchie all’improvviso. Mi alzai, riponendo il libro nella borsa, al riparo. Mi nascosi dietro un albero molto largo, servendomi della sua ombra, e attesi che quei passi si mutassero in persone.
Allora li vidi.
James era ancora disgustosamente sorridente, la sua aria sfrontata era stampata su quel volto intrigante, mentre godeva del suo successo.
Sara annuiva con grazia e arrossiva, mentre il vento scherzava con i suoi capelli, facendola apparire dolorosamente meravigliosa.
Poi accadde qualcosa che il mio cuore non resse. Si spezzò, violento, senza lasciare spazio al controllo, senza consentire alla mia mente di recuperare un briciolo di ragione.
James le afferrò una mano, l’avvicinò a sé e la baciò. Semplicemente.
Fece ciò che nei miei sogni avevo anelato in modo incessante con una semplicità orrenda.
Le sue labbra si posarono sulle labbra di lei leggermente socchiuse, ed era fatta. Sara era sua.
Un altro pezzo della mia anima era stato conquistato dalla sua perfezione.
Il sole era ormai alto nel cielo e accompagnò sincero Sara che si allontanava felice.
La gioia si leggeva nel suo sorriso così luminoso da sciogliere il petto.
Ma quel sorriso non era per me.
James la fissò compiaciuto e la vide scomparire dietro agli alberi prepotenti, infine la perse tra i contorni del sole. Alzò gli occhi al cielo, come per ringraziarlo, e fece per andar via.
Mi avvicinai a lui furtivo, irritato persino dal fruscio che i miei passi producevano sfiorando il prato. La rabbia si era impossessata del mio corpo. Agivo senza pensare, perché la mia mente galleggiava solitaria nello stupore ed una nebbia crudele era penetrata nei miei pensieri.
Mi accostai a lui in silenzio, senza sapere perché, senza proferire parola.
James si voltò, mi riconobbe ed esclamò: “Albus”.
Sembrava stupito, ma per nulla pentito del suo gesto. In fondo come poteva il mio perfetto e disgustoso fratello Grifondoro comprendere il dolore che graffiava il mio cuore? Come poteva afferrare il senso di un gesto tanto crudele appena compiuto dinanzi ai miei occhi? Cosa sapeva James della solitudine, del fallimento, della rabbia e della disperazione?
James aveva tutto. Tutto ciò che io avevo sempre desiderato.
Parlò di nuovo. I suoi occhi indagatori tentavano di comprendere cosa mi stesse capitando.
“Albus, cosa ti prende?” pronunciò con ironia. La sua voce era pronta a ridere di me.
Ancora una volta.
“Perché l’hai fatto? Perché l’unico scopo della tua esistenza è annullare la mia?” Ringhiai furioso. James mi guardò titubante. Non capiva. Potevo leggere sul suo volto sarcastico i segni dello stupore più vero.
“Albus di cosa stai parlando? Tu sei mio fratello… Certo, non posso accettare che tu sia un viscido Serpeverde, ma rimani pur sempre mio fratello. Perché dovrei desiderare il tuo male?” Tentò di rispondere, utilizzando il solito tono irrisorio. Si divertiva.
“Basta!” La mia voce, irriconoscibile e feroce, rimbombò tra le fronde della foresta. Un fruscio di terrore ne derivò sottile. Infine tornò in silenzio, un silenzio spaventoso.
“Sono stufo! Stufo di vederti riuscire in tutto ciò che a me è precluso. Stufo di sentirmi una vergogna per la mia famiglia, per mio padre ed anche per te! Sono stufo, James, di dover sempre sforzarmi di essere qualcuno che non sono. Io sono un viscido Serpeverde, ma questo non significa che tu sia meglio di me! Posso sconfiggerti, sai? Posso dimostrarti la mia potenza!” Urlai infervorato, ormai inconsapevole di ogni mio gesto. Percepivo soltanto il suono tetro del mio cuore, che pulsava rabbioso e vendicativo. Era il momento di dimostrare a me stesso che potevo davvero essere qualcuno.
“Sei stufo Albus? Stufo di sentirti sbagliato? Ma tu lo sei fratello mio!Tu sei figlio di Harry Potter, del Prescelto, dell’uomo che ha salvato il mondo da Colui che non può essere nominato, eppure sei un viscido Serpeverde! Sei come tutti coloro che nostro padre ha sempre combattuto, ed io questo non posso accettarlo. Non posso permettere che tu distrugga l’onore di nostro padre. Dovresti vergognarti Albus! Tu non sarai mai nessuno!”
La sua espressione disgustata annullò ogni mio pensiero. Il vuoto s’impossessò della mia mente. Passò un istante che durò un’eternità e le mie mani operarono da sole.
Non so dire cosa mi spinse. Desiderio di rivincita? Forse.
James mi aveva descritto nella maniera esatta in cui io stesso mi vedevo. Aveva pronunciato la crudele verità: il problema più grande per me non era mai stato mio fratello, ma mio padre. Io mi sentivo inadeguato nei confronti della sua condotta. Come potevo dimostrare di meritare un onore così grande, io, che rappresentavo tutto quello che mio padre aveva sempre combattuto? Forse agii esclusivamente perché spinto da un odio profondo verso me stesso. Forse James non aveva colpe e il vero colpevole ero io.
Eppure le mie mani raggiunsero veloci la bacchetta che era riposta nel mantello, la puntarono contro mio fratello, ancora accigliato dinanzi ai miei occhi verdi e, in un semplice istante crudele, mi tradirono.
“Sectumsempra” Urlai disperato, come per cancellare, con quella semplice parola, tutto il senso di colpa che mi atterriva. Chiusi gli occhi, al fine di non vedere l’effetto che l’incantesimo aveva prodotto sul corpo del mio disarmato fratello, ma quando li riaprii, più per curiosità che per preoccupazione, ne rimasi stravolto.
James giaceva in un bagno di sangue, privo di sensi. Il sorriso canzonatore era infine svanito dal suo volto. L’avevo eliminato per sempre.
La voce di mio padre aveva appena abbandonato la sua eco all’interno della stanza. Lui mi guardava impercettibile, nascosto nel mezzo dell’oscurità. Speravo che parlasse al mio posto, che mi spiegasse le ragioni del mio terribile errore.
D’un tratto lo vidi sedersi su un divano sfumato di notte. Appoggiò i gomiti sulle gambe tremanti e disse: “Ti svelerò qualcosa che da sempre nascondo nel mio animo. Un senso di colpa feroce mi ha impedito di parlartene fino ad ora e ti chiedo perdono, Albus.”. Lo scrutai disorientato. Sembrava soffrire nel profondo.
Ricominciò: “Quel libro, il libro del Principe, in realtà apparteneva a qualcuno che ti è molto vicino. L’uomo dal quale hai ereditato il nome: Severus Piton”. Si fermò, quasi a voler controllare la mia reazione, poi riprese, senza concedermi l’eventualità di parlare.
“Non sono stato capace di comprenderlo, Albus. Non ho capito quanto gli fossi debitore finché non l’ho visto morire, finché i suoi occhi non hanno incrociato i miei, mentre mi supplicava di guardarlo spirare l’ultimo fiato di vita.”.
Fu impercettibile la lacrima che vidi scivolare sul suo volto. Rimasi ad ascoltarlo, in silenzio.
“Severus Piton, il Principe Mezzosangue, era un Serpeverde, un grande mago, un Mangiamorte. Commise degli errori, ma posso assicurarti che scontò la sua pena. Sai, Albus, anch’io credevo che fosse diverso. Lo immaginavo crudele e gelido, raccapricciante e malvagio. Quanta stupidità dominava il mio animo!”
Sollevò il verde dei suoi occhi sino ad incontrare il mio. In seguito decise di rizzarsi dal divano e mi raggiunse, oltrepassando il velo d’oscurità che ci divideva.
“Leggi la mia mente, Albus. Scava fra i miei ricordi, e comprenderai quanto insignificanti siano i colori di un mantello o le apparenze rispetto al coraggio di un uomo. Supera i pregiudizi, figlio mio, afferra il vero senso della vita, non compiere il mio stesso errore” .
Sembrava supplicare. Non avevo mai visto quegli occhi tanto affranti.
“Legilimens” Sussurrai, e la mia mente s’intersecò con quella di mio padre. Fiumane di reminiscenze attraversarono i miei pensieri. Capitoli di una vita che avevo solo immaginato sfrecciarono a velocità impressionante all’interno della mia anima, senza che potessi controllarli. Un simile miscuglio di emozioni si schiarì su un giovane dai capelli scuri e dal naso adunco che osservava con dolcezza una bambina dai capelli rossi. Gli occhi verdi che emergevano dal viso gioioso di lei mi sembrarono familiari e sinceri. Vidi lo stesso giovane indossare un mantello verde e cercarla fra la folla di oro e porpora che tanto lo disgustava. Lo osservai piangere lacrime amare, mentre stringeva con rabbia il suo braccio marchiato di male. Lo vidi accasciato ai piedi di un mago dalla folta barba bianca, che piangeva disperazione. D’un tratto riconobbi mio padre da bambino. I suoi occhi verdi emersero tra i miei ricordi, riproponendomi quella sensazione di noto e di passato che mi tremava in gola. Infine il flusso di sensazioni si soffermò su una cerva d’argento, mentre attraversava elegante una foresta innevata. Un’ombra la attendeva. Ancora un serpente enorme e verde osò intrufolarsi nella mia mente, ma il suo morso traditore provocò un fiume di sangue e poi ancora il buio, che spense ogni colore.
Riemersi sconvolto dalla mente di mio padre.
Non avevo parole da pronunciare. Ogni suono mi moriva in gola profondo.
Mio padre comprese il mio sgomento e tentò di dissipare ogni dubbio: “Albus, non sempre ciò che ci appare di un colore mantiene quella sfumatura nel suo percorso. Spesso sono i nostri occhi a colorare la vita, scegliendo la gradazione sbagliata. Da ragazzo ho giudicato il verde del tuo mantello considerandolo sinonimo di malvagità e crudeltà. Ho confuso un amico con il mio peggior nemico. Ho sbagliato, Albus, e non voglio che tu compia il mio stesso errore”.
Abbassò il capo, sconfitto dai ricordi. Un brillio soffocato sgorgò dalla sua figura.
Allora presi coraggio e provai ad interpretare ciò che il mio cuore mi stava suggerendo:
“Il mio nome ha a che fare con un grande uomo, non è così? Un Serpeverde, un Mangiamorte cui devi la vita. Cosa vuoi dirmi papà?” Chiesi confuso.
“Devi capire Albus che il coraggio non ha colori e che la verità può essere più astuta di una menzogna. Tu puoi essere il migliore degli uomini, figlio mio. Non sarà un mantello verde a provare chi sei. Sarai l’uomo che desideri essere e la mia speranza è che tu possa assomigliare al Principe che ti ha donato il nome”.
Le sue parole acquisirono un senso all’improvviso. Finalmente compresi ciò che mio padre cercava di suggerirmi: nella vita, anche coloro che vibrano di sfumature confuse possono comprovare la loro presenza, scegliendo di dipingere le proprie azioni del colore del coraggio.
  
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