Fanfic su attori > Logan Lerman
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Autore: Martina Sapientona    09/11/2013    1 recensioni
Questa storia è una Logandra solamente che i due personaggi non sono famosi ma sono esattamente ragazzi come noi.
Genere: Drammatico, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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8. Lametta. Dannata lametta.


La settimana dopo tornò a scuola, tutti iniziarono a dirgli che per la sua situazione emotiva doveva socializzare e smetterla di stare solo con me. Ogni volta che lo sentivo dire era come una pugnalata per me, per lui. Di quel bacio non se ne parlò più, soprattutto a scuola. Tra noi si creo un imbarazzo strano. Iniziammo a frequentarci meno. Tutte le ragazze che a scuola che gli andavano dietro gli si incollarono come sanguisughe a suon di “poverino ha perso il padre”, ma quelle non capivano che facendo cosi, ricordandoglielo sempre, avrebbero solo peggiorato la situazione. E fu per colpa loro che iniziò. Iniziò a tagliarsi. Me lo disse tramite un bigliettino, a scuola, durante storia. La mia sorpresa era grande quanto me e sconvolta non gli chiesi più nulla. Io non ne parlavo con nessuno. Non volevo che le ragazzine che gli sbavavano dietro avessero un altro motivo per prenderlo in giro.
Un giorno, mentre attraversavo i corridoi per andare a fare le fotocopie lo vidi, in bagno con la lametta in mano e la maglietta verde macchiata di sangue. Non dissi niente, corsi giù per le scale arrivando al tavolo delle bidelle con il fiatone e gli chiesi del disinfettante e delle bende. Corsi su alla velocità della luce e mi fiondai verso il bagno. Lo trovai seduto in un angolo, che mi guardava con occhi vacui e pieni di lacrime. Il mio sogno era quello di fare il medico. Gli disinfettai i tagli e glieli bendai. Intanto la professoressa spaventa per la mia assenza prolungata venne a cercarmi. Quando mi vide, li china su di lui, intenta a fasciargli il braccio, per poco non svenne. Ci mandò immediatamente dallo psicologo della scuola. Lui, pallido come un cencio non riuscì a dirmi nulla tranne un grazie. Non si reggeva in piedi. Lo portai un po’ di peso un po’ lo lasciai camminare ma non mi fidai a lasciarlo andare da solo. Facevo bene.
Arrivati nello studio, lui ancora gocciolante di sangue dal braccio per lo sforzo, con la maglietta sporca quanto la mia per averlo portato lo feci sedere. Lo psicologo capì in un secondo. Mi chiese di aiutarlo a stenderlo sul lettino. Una volta li, lui prese la mia mano, più forte di quanto mi aspettassi e non la mollò. Gli spiegai con delicatezza che dovevo tornare a fare lezione ma lui non mollò la presa. Lo psicologo, Marc, ci disse che avrebbe spiegato lui alla professoressa e ci lasciò soli dentro la stanzetta dai colori spenti. Andò ad accendere i registratori e tornò in un batter d’occhio. Mi chiese che cosa era successo e io gli spiegai, intanto la sua stretta ti irrigidì e diventò sempre più forte. Quando finii di parlare si rilassò e lasciò la stretta un po’ più molle. Marc gli chiese il perché di questo gesto e lui gli disse che avrebbe parlato solo e solamente con me. Marc, da bravo psicologo uscì dalla stanza e spense i microfoni, sicuro che io poi gli avrei raccontato tutto. Lui mi disse che il suo dolore era troppo grande e che si sentiva solo ora che noi ci eravamo staccati. Che aveva provato a farsi altri amici ma nessuno riusciva ad essere come me. E che quando era molto solo e arrabbiato si puniva per cose che non faceva, tagliandosi. Lo faceva con qualunque cosa, sua mamma non ne era al corrente ma pensava che avesse visto qualche cosa mentre dormiva. Mi fece vedere il braccio. Pieno di tagli. E poi un tentativo di mettere fine a tutto, una linea verticale. Gli dissi che potevamo tornare come prima, che io gli volevo ancora bene, molto. Che doveva smetterla perché mi faceva stare male solo il pensiero di vederlo così. Mi disse che non poteva. Che non ci riusciva. Tornò a casa. Sua mamma, capì tutto aiutata da me e dallo psicologo.
Le voci correvano a scuola, tutti lo prendevano in giro per questa nuova debolezza. Una volta mi chiamarono e iniziarono ad insultarlo davanti a me. Solitamente sono una che si tiene tutto dentro e subisce senza dire nulla. Questa volta no. Iniziai a dire a bassa voce di smetterla. Continuavano. Iniziai ad alzare la voce, dicendo che dovevano smetterla perché così lo facevano stare ancora più male. Qualcuno smise. Altri continuarono, imperterriti a prendere in giro me e lui. Iniziai a gridare che erano degli idioti e che non sapevano nulla. E che se non avevano niente di meglio da dire era meglio che si cucissero la bocca. La notizia di questa scena arrivò anche a lui a casa. Mi ringraziò per averlo difeso. Era la prima volta che facevo vedere il mio carattere.

POSTILLA DELL'AUTRICE

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