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- Hela, abbiamo una cosa per
te.
Le mie sorelle, tutte e sei
dalla più piccola alla più grande, entrarono in
fila indiana nella mia stanza.
Le osservai posizionarsi composte davanti a me, una serie di testoline
brune,
alcune più scure, altre più sfumate, in
silenziosa attesa. Erano giorni che
cercavo di abituarmi all’idea di perderle, ma non ero ancora
venuta a patti con
questa realtà.
- Abbiamo messo insieme
tutti i nostri averi, ma non siamo riuscite a prenderti che questo.
Lana alzò le mani e mi
mostrò un nastro turchese nuovo, lucente. Ricacciai le
lacrime in fondo al
cuore e le abbracciai tutte una a una, non riuscivo a credere che non
le avrei
riviste mai più.
Salutare i miei genitori non
fu più semplice: eravamo una famiglia affettuosa, abituata
alla compagnia e al
contatto fisico, non c’erano mai state separazioni,
né brevi né lunghe e questo
addio fra di noi suonava come qualcosa di alieno.
- Il bene che stai facendo
tornerà egli stesso a ricompensarti, Helaida –
disse mio padre, in un ultimo
abbraccio.
- E qualunque cosa accada,
non dimenticarti chi sei e come sei – aggiunse mia madre.
Nutrivano uno
sviscerato attaccamento per le frasi intense e io mi ero sempre
imbevuta di
esse. Raccolsi a coppa le loro ultime parole nelle mie mani e le
riversai nel
mio animo.
E, a quel punto, non restò
che andarmene.
L’occhiata che mi riservò
Tristan Arsediel la disse lunga sul mio lungo abito sdrucito, sui miei
capelli
mossi legati con il nastro azzurro in una coda alta e disordinata e
sulla
minuscola borsa che rappresentava il mio bagaglio.
- Il vostro cavallo? –
domandò sprezzante.
- Non ho un cavallo, l’unico
che possediamo serve a mio padre.
- E come pensate di
viaggiare?
Lui teneva per le briglie un
esemplare splendido: imponente, dal pelo lucido e di forma smagliante.
Avrebbe
sostenuto entrambi senza difficoltà, ma pareva evidente che
non intendeva
offrirmi aiuto.
- Andrò a piedi – dissi,
stringendomi
nelle spalle.
Lui rise, ma di un ghigno
sarcastico che mi fece rabbrividire.
- Siete pietosa! Molto bene,
camminate, ma non azzardatevi a lamentarvi per la stanchezza, il mal di
piedi,
la sete o il caldo, o qualunque altra cosa possa risultarvi spiacevole.
Vi
assicuro che non sono un compagno di viaggio gradevole e
basterà molto poco per
farmi irritare.
- Non mi è difficile
immaginarlo.
Mi afferrò un polso con
violenza e mi strattonò verso di sé.
- Non siate arrogante con
me, ragazzina. Da voi pretendo occhi bassi e bocca chiusa, obbedienza
cieca e
rispetto; questo inizierà a mettervi dell’avviso
di ciò che vi accadrà alla Roccaforte.
Mi strappò di mano la borsa,
legandola al fianco della cavalcatura; poi montò in sella e
mandò il cavallo al
passo.
Ero abituata a camminare a
lungo: le passeggiate erano tra i pochi svaghi che mi erano rimasti,
poiché non
costavano nulla. Così mi affrettai a seguire il cavallo ad
andatura sostenuta,
badando di mordermi la lingua per non replicare alle male parole di
Tristan
Arsediel.
La possibilità di offrirmi al
Granduca era stata a lungo discussa, prima di arrivare alla sofferta,
soffertissima, decisione finale.
Ciò che il Granduca Roman
Fedar chiedeva ai baroni e ai conti delle sue nuove terre acquisite era
la più
completa sottomissione, che si riconduceva all’offerta delle
proprie
primogenite per il suo già gremito harem. Chiunque negasse
il proprio personale
contributo, veniva oppresso e schiacciato fino a ridursi a veder morire
di fame
la propria gente. Così, uno alla volta, tutti i signori si
erano ritrovati a
cedere e ad offrire le proprie figlie in sacrificio per il bene delle
proprie
terre; erano rimasti in pochi ancora a resistere e mio padre era stato,
fino a
pochi giorni fa, tra quelli. Ma la situazione si era fatta
insostenibile e,
dopo lunghe riunioni familiari, era stato decretato il mio sacrificio.
Le voci che arrivavano dalla
Roccaforte circa la crudeltà del Granduca Roman Fedar non
avevano facilitato la
decisione: non si trattava solo di offrirmi a un harem, ma ad una vera
e
propria vita di supplizio. L’avevo accettato, certo, mi
sentivo pronta. Ma
anche terribilmente spaventata.
Per mia fortuna non mancavo
di ostinazione, così, quando i miei piedi da indolenziti si
fecero
insopportabilmente doloranti, strinsi le labbra e continuai a
camminare. La
velocità, la mancanza di soste e di acqua e le distanze che
mai si colmavano mi
avevano sfinita fin quasi a perdere i sensi, e tuttavia non cedevo:
l’arroganza
di Tristan Arsediel e la sua cafoneria mi avevano a tal punto
indisposta da
preferire i piedi sanguinanti alla prospettiva di dargli soddisfazione.
Quando, al tramonto,
entrammo in un villaggio e ci fermammo presto un’osteria per
la cena, per poco
non svenni dal sollievo. Ma non avevo previsto quello che sarebbe
venuto.
- Avete soldi per pagarvi la
cena? – mi domandò gelidamente il mio compagno di
viaggio, mentre sedevamo a un
tavolo.
Alzai su di lui un paio di
occhi sgranati che dicevano, con tutta chiarezza, che non avevo una
sola moneta
in tasca. Pensavo avrebbe pagato lui... Ero o non ero diventata
proprietà del
Granduca?
Beh, evidentemente non
ancora, perché Tristan Arsediel ordinò minestra e
carne per sé lasciandomi a
bocca asciutta.
- Se non avete i soldi per
comprarvi da mangiare, digiunerete – commentò,
nella più assoluta indifferenza
– Ma se non potete neppure pagarvi una stanza per la notte,
dovremo ripartire e
cercare un luogo dove accamparci.
Le sue parole mi scivolarono
lungo la schiena come ghiaccio e non potei trattenere un sussulto di
sconforto:
ero affamata, affamata da morire dopo tanto cammino, e andando a piedi
mancavano ancora giorni all’arrivo alla Roccaforte. Avrei
dovuto digiunare
tutto il tempo?
L’indifferenza con cui
Tristan Arsediel masticava davanti al mio sguardo sofferente mi diceva
che sì,
avrei digiunato, a meno che non mi fossi messa a raccogliere radici e
bacche
per strada sperando di non morire avvelenata.
- E voi, figliola, non
mangiate? Sembrate così stanca, dovreste mandare
giù qualcosa!
La locandiera, paffuta e gioviale,
mi rivolse uno sguardo di comprensione. Appoggiò la caraffa
di vino di fronte a
Tristan e aspettò una risposta che le mie labbra si
rifiutarono di dare.
- Non ha soldi per pagare –
disse lui, al posto mio.
- Non ha soldi per pagare? –
La locandiera mostrò con evidenza tutta la sua costernazione
– E voi non potete
offrirle qualcosa, giovanotto? Non posso certo credere che la lascerete
patire
la fame, mentre voi v’ingozzate!
- Potete crederlo, invece.
Il tono di lui era
sufficiente a smorzare ogni dissenso, la sua voce si colorava di una
perentorietà che sfiorava senza malintesi la minaccia.
- Oh, bene! – lo rimbrottò
la donna, incrociando le braccia sopra il seno –
Vorrà dire che farò io la
vostra parte e offrirò di mio pugno la cena alla vostra
accompagnatrice!
Non credetti ai miei occhi,
quando un piatto ricolmo comparve davanti alla voragine del mio
stomaco. Tristan
non commentò, mentre divoravo tutto ciò che la
donna mi offriva né disse nulla
quando mi sperticai in ringraziamenti, ma fui certa di scorgere del
disappunto
sul suo viso.
Per qualche motivo, l’uomo
inviato a scortarmi dal Granduca mi disprezzava. Non poteva trattarsi
di
qualcosa di personale: mi aveva detestata dal primo momento in cui
aveva posato
su di me il suo sguardo, prima ancora che io avessi aperto bocca o
fatto
alcunché, e questo lo rendeva pericoloso, poiché
godeva nell’umiliarmi e nel
mettermi in difficoltà.
Credevo che le mie pene
avrebbero avuto inizio con l’arrivo alla Roccaforte, ma era
chiaro che già
questo viaggio mi avrebbe fatto consumare una buona dose di pazienza.