Then I see your face, I know I'm finally yours.
Day 1: Cliché.
You're the silence in between what I thought and
what I said.
Sebastian odiava i cliché. Per
lui erano la cosa più stupida che si potesse fare, quella scontata per antonomasia.
E se c’era qualcosa che lui non era, quella era essere scontato.
Eppure ora si guardava intorno,
fissando le pareti di quella stanza che sembravano trattenere le eco delle loro
parole, dei loro gesti, delle grida e dei pianti, delle risate e delle attese,
e si rendeva conto che non c’era altro da fare.
Anche
se sarebbe stato uno stupido cliché.
Thad odiava i cliché. Checché se
ne potesse dire, di quanto romanticismo lo si potesse accusare, i cliché erano
una delle poche cose che non avrebbe mai mandato giù. Sapevano di scontato e
patetico, come l’ultima carta giocata prima di arrendersi.
Eppure mentre camminava con fare
impettito e passo sicuro, si stava lentamente rendendo conto che non desiderava
altro che vedere quegli occhi che lo avevano fatto capitolare dalla prima volta
che li aveva incrociati; non
desiderava altro
che sentire la sua voce, da lontano e il suo respiro affannato.
Anche
se sarebbe stato uno stupido cliché.
~
Sebastian non aveva mai corso
tanto in vita sua. E dire che c’era stato quel periodo, poco dopo il liceo, in
cui aveva deciso di provare l’atletica leggera – ovviamente aveva lasciato
perdere subito perché non faceva per lui. Eppure neanche allora aveva corso
come in quel momento.
Per l’ennesima volta urtò –
travolse qualcuno di non ben identificato che aveva avuto la sfortuna di
trovarsi sulla sua traiettoria e gridò uno “scusi” mezzo strozzato dalla poca
aria che aveva nei polmoni, senza curarsi più di tanto del fatto che
probabilmente il malcapitato non l’avesse neanche sentito o che sicuramente gli
stesse a sua volta gridando qualcosa di sconveniente da ripetere.
Non aveva tempo. Doveva fare in
fretta.
Aveva parcheggiato la macchina
Dio solo sapeva come, probabilmente bloccando l’uscita ad almeno altre tre
veicoli e quasi certamente non l’aveva chiusa prima di cominciare a correre, ma
tutte quelle cose avevano improvvisamente perso di significato. Mentre correva,
l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che avrebbe avuto una possibilità
solo se avesse fatto in fretta, solo che avesse fatto in tempo a dire tutto
quello che aveva sempre taciuto.
Lo vide. Thad era in cima alle
scale mobili e in attimo era di nuovo scomparso tra la gente. Sebastian si
fermò, sfinito: stava per fare il check-in, in pochi istanti avrebbe superato
lo sportello e si sarebbe imbarcato. E poi...?
Poi ebbe così pausa di quello
che sarebbe stato che riprese a correre. Non aveva alcun biglietto da mostrare,
ma avrebbe sempre potuto gridare.
«Harwood!», chiamò, prima ancora
di fare gli ultimi gradini. «Harwood!».
Lo vide fermarsi. Esitare. Fu
tutto quello di cui ebbe bisogno.
«Sono un idiota. Sono un idiota
e tu non fai che ricordarmelo». Thad non si era ancora voltato, ma non stava
neanche andando avanti; Sebastian volle credere che fosse un incoraggiamento a
proseguire.
«Sbaglio in continuazione,
sbaglio così tante volte che ormai le mie scuse
varranno meno dei soldi del Monopoly ai grandi
magazzini... ma stavolta non posso sbagliare. Non farmi sbagliare.»
Thad non poteva credere a quello
che stava ascoltando: non si era voltato ancora solo per paura che fosse una
sua fantasia, che quella voce sarebbe sparita e lui sarebbe rimasto solo.
«Mi dispiace» e quelle parole
ormai non costavano più come un tempo, perché Smythe ne aveva compreso a pieno il
significato «Mi dispiace per quello che ho detto, per quello che non ho
detto, ma... mi hai spaventato. Eri serio, eri sicuro quando mi hai chiesto di
restare, di restare per sempre ed io ho avuto paura. La tua sicurezza mi ha
sempre fatto paura, Thad, perché io non lo sono mai stato, con te. Perché per
quanto lo voglia, ho sempre il timore che qualcosa vada storto, che faccia una
stupidata e ti perda per sempre – e alla fine faccio di peggio».
Se non sei sicuro, allora perché
sei qui?, si
chiese Harwood, cominciando a ricredersi sulla sua bella fantasia.
«Ma ora lo so. Lo so,
Thad. L'ho capito nell'istante in cui te ne sei andato, che non avrei potuto
più fare a meno di te. In un attimo, ti sei portato via tutto e il mio
appartamento era così vuoto, così estraneo che mi sono chiesto che cosa ci
facessi lì. Se non ci sei, nulla di ciò che mi circonda ha più senso e questa è
un'altra cosa che mi fa dannatamente paura. Il modo in cui... mi condizioni, il
modo in cui mi sia praticamente impossibile farcela senza di te... Dovevo
rischiare di perderti per rendermene conto».
Le parole di Sebastian, nella
mente di Thad, si sovrapponevano alla lite che avevano avuto appena un'ora
prima, quando gli aveva chiesto di restare, di vivere insieme ed avere una
famiglia e tutto quello che Smythe aveva saputo fare era restare in silenzio e
guardarlo shoccato, come se gli avesse chiesto di
buttarsi da un burrone.
Ora, invece, era lì e stava
gridando tutte quelle cose di fronte a chissà quanta gente, ma soprattutto di
fronte a lui. Gli stava dicendo cose che non avrebbe mai pensato sarebbero
uscite dalle sue labbra. E nonostante tutto, lui restava fermo, non aveva la
forza di muoversi.
Ora era lui ad avere paura.
«Ti prego, Thad, guardami...».
Si voltò, sostanzialmente perché
Sebastian non pregava mai.
«Come faccio a sapere che non lo
rifarai? Che se ti lascio entrare di nuovo non soffrirò ancora?». Poteva
sembrare stupido, ma il silenzio con cui il ragazzo aveva risposto alla sua
proposta era stato peggiore di qualsiasi parola, lo aveva fatto male come
pochissime altre cose, gli aveva tolto ogni speranza.
Sebastian poteva vedere, anche
da quella distanza, gli occhi arrossati di Thad. Aveva preso un taxi per
arrivare all'aeroporto e doveva aver pianto durante il tragitto. Aveva pianto
per causa sua. Eppure poteva capirlo, poteva capire la sua domanda, ma non
sapeva cosa rispondergli. Ancora una volta il silenzio attraversò lo spazio fra
di loro. E di nuovo, a Thad fece male.
«Vorrei che tu potessi leggermi
dentro e sentire quello che provo», sussurrò Smythe, mentre l'altro stava di
nuovo per voltarsi. «Non posso essere certo che non succederà di nuovo – non
puoi esserne certo neanche tu... Ma dammi una possibilità di farti capire
quanto dannatamente voglia provarci».
«Provare a fare cosa?».
«A restare con te per sempre».
Thad avrebbe detto che c'era una
vocina nella sua testa che gli stava suggerendo di stare attento, perché
avrebbe potuto stare di nuovo così male o di più, ma la verità era che non
esisteva nulla del genere, perché era sempre stato sicuro di Sebastian, molto
tempo prima che le cose diventassero così serie fra loro, forse da sempre.
Aveva solo dovuto aspettare.
Gli si lanciò fra le braccia,
lasciando cadere la borsa che aveva e stringendolo forte, respirando il suo
odore: gli era mancato – era stato uno stupido anche solo a pensare che sarebbe
riuscito a vivere senza di lui.
«Ti rendi conto che mi hai
inseguito e raggiunto prima che mi imbarcarsi per poi farmi un discorso
smielato davanti a decine di persone?», gli sussurrò, senza avere voglia di
lasciarlo andare.
«Lo so, un tremendo cliché. Ma
era per farti capire che sarei disposto a fare di tutto per te, Thad. Di
tutto».
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Ebbene sì, Alch ha deciso che stavolta non poteva
lasciarsi scappare un evento come la Thadastian Week e
nonostante i salti mortali per scrivere, eccovi il Day:
1.
Un paio di precisazioni: il titolo della shot è tratto da “Pieces” dei Red; quello della shot, invece, è tratto da “No Light, No Light” dei Florence + The Machine – sì, facciamo finta che senta la musica in modo sano.
Detto questo… vi rimando a domani per il Day 2: Parigi!
Un bacio.
Alch ♥