Day 2: Parigi.
Only miss the sun when it stars to snow.
Sebastian se ne stava appoggiato
con le braccia sulla ringhiera di quel balconcino, lo sguardo perso nella
miriade di puntini luminosi che era Parigi sotto suo sguardo, dall’alto della Tour
Eiffel e respirava lento, dando l'impressione di godersi quel paesaggio
notturno.
In realtà, vedeva appena quello
che lo circondava: le persone che lo affiancavano, le voci che disturbavano il
silenzio contemplativo, il movimento, tutto era filtrato ai suoi occhi dal
ricordo dell'ultima volta che era stato lì, mesi prima.
Allora faceva caldo, era pieno
Agosto: aveva addosso una maglietta sottile a metà maniche ed i pantaloncini si
fermavano poco sopra il ginocchio. Adesso invece, infilava il naso nello
sciarpone grigio per cercare un po' di calore, a pochi giorni dalla fine
dell'anno. A Sebastian mancava quel caldo, quel tepore che sembrava poter
curare ogni cosa e che, no, non era dovuto soltanto al sole... Ora piccoli
fiocchi bianchi danzavano davanti ai suoi occhi, quasi a voler rimarcare la
differenza totale di quella situazione.
La vibrazione del suo cellulare
lo fece sussultare, troppo perso nel passato per avere capire subito che cosa
fosse. Ci mise qualche istante in più del necessario a rispondere perché il
nome sul display lo sorprese, lasciandogli una strana sensazione all'altezza
dello stomaco.
«Thad».
«Hey, Sebastian! Buon
Natale!».
Il ragazzo represse una risata –
sarebbe stato inappropriato, ma ecco il punto: Thad era il solo in grado di farlo
ridere sempre e comunque. C'era riuscito ancora.
«Harwood, Natale è passato da
due giorni», gli fece notare, fingendosi offeso.
«Immagino
tu abbia ragione, uh? Scusa il ritardo», cercò di rimediare quello, la voce leggermente titubante. «Come stai?».
Sebastian dovette pensarci su
qualche secondo, prima di rispondere la cosa più facile – e comunque non del
tutto falsa.
«Tutto bene. Tu?».
«Me
la cavo... sai, soliti problemi da matricole del College, ma ci sto prendendo
la mano».
Smythe annuiva, consapevole del
fatto che l'altro non avrebbe potuto vederlo: gli faceva piacere sapere che ad
almeno uno di loro due le cose andassero bene sul serio. Lui faticava ancora ad
abituarsi ad un contesto così diverso dalla Dalton, che aveva lasciato mesi
prima, alla solitudine che era arrivata, inaspettata, nonostante avesse
due compagni di camera davvero niente male.
Il silenzio, fra loro, durò un
po' troppo per non tingersi di imbarazzo – non si erano più sentiti da dopo il
liceo, erano passati mesi. Una parte di Sebastian non riusciva a spiegarsi
perché stesse parlando con Thad proprio in quel momento; l'altra semplicemente
si rattristava del fatto che parlare con lui non era più una sua abitudine –
gli era diventato così estraneo da sorprendersi persino di una chiamata?
«Dove
sei?». La
domanda lo colse un po' di sorpresa.
«A Parigi. Sai per le vacanze di
Natale e cose così».
«Parigi!», Thad sembrò improvvisamente
entusiasmarsi «É la stessa dell'ultima
volta in cui ci siamo stati?».
«Perché dovrebbe essere
cambiata, Harwood?».
Erano stati a Parigi subito dopo
il diploma – lui, Thad, Nilson, Wilson e Duvall e
Sterling, ovviamente. In realtà avevano organizzato il viaggio in modo tale da
fermarsi in varie capitali europee, soggiornando almeno tre giorni in ognuna e
concludendo con quella francese. L'ultima sera, prima della partenza, erano
stati proprio sulla Tour Eiffel, nello stesso ristorante a cui ora Sebastian
stava voltando le spalle – aveva, allora, i tavolini all'aperto ed una zona
centrale era stata momentaneamente adibita a piccola pista da ballo.
«Ricordi
il giro sulla Senna?»,
continuò intanto Thad.
«Ricordo che Nilson
per poco non ci cascava dentro per guardare meglio chissà cosa».
Sentì l'altro ridere e si rese
conto di quanto quel suono gli fosse mancato in tutti quei giorni. La visita alla Senna era un ricordo così trascurabile a confronto di quello che sentiva per
la loro ultima sera a Parigi che avrebbe riso per l'ironia della situazione.
Ancora una volta, aveva avuto la conferma che per Thad non era stato niente di
particolare, che per colpa sua non aveva capito nulla.
«Sei
più stato sulla Tour Eiffel?».
«Ci sono proprio adesso», rise,
sperando che gli occhi non si facessero troppo lucidi e ringraziando il fatto
che comunque non avrebbe potuto vederlo.
«Oh!
E quel ristorante che scegliemmo? Aveva una vista della città spettacolare».
«La sto guardando adesso».
«É
stato davvero un bellissimo viaggio».
«Indimenticabile». In quel
momento Sebastian avrebbe voluto mettere giù e lasciar perdere tutto – in fondo
non era più così felice di sentire Thad.
«Ricordi
la cena, quando per poco Jeff non si è strozzato con un escargot?»
«Ricordo che Nick nella fretta
di farlo respirare ha quasi fatto cadere un cameriere che si trovava a passare
accanto al nostro tavolo con almeno quattro portate in mano».
«E
poi, quando la band ha cominciato a suonare, Flint e Trent
si sono gettati nella mischia».
«É stata la cosa più
imbarazzante della mia vita», Sebastian si coprì gli occhi con una mano a quel
ricordo.
«Sì», rise Thad «La gente li guardava sconvolta».
Di nuovo una pausa.
«Poi però è partito un lento,
ricordi?»
Non venne suono dall'altra
parte, ma Sebastian sapeva che Harwood c'era ancora, poteva sentirlo respirare.
«E allora ti ho chiesto-»
«Vuoi ballare?».
Smythe sussultò, spalancando gli
occhi. La voce non era arrivata dal telefono, ma dall'altro orecchio,
improvvisamente riscaldato dal fiato di qualcuno. Si voltò di scatto e lo vide,
a così poca distanza da sé da far male: sorrideva, Thad, avvolto in un lungo
cappotto scuro e con una sciarpa azzurra che lo copriva appena sopra il mento;
i capelli forse erano un po’ più lunghi dell’ultima volta che lo aveva visto,
ma avevano lo stesso taglio di sempre e i grossi occhi scuri brillavano come
del riflesso delle illuminazioni intorno.
«Che… che cosa ci fai qui?». Era
raro che rimanesse spiazzato da qualcosa, lui che adorava sorprendere gli
altri, prenderli in contropiede e bearsi delle facce sorprese – o più spesso
sconcertate.
«Non hai risposto alla mia
domanda. Vuoi ballare?».
Sebastian lo guardava come si
guarda qualcuno che è appena uscito di testa. Restava immobile, senza avere la
minima idea di cosa fare.
«Non c’è la musica», esalò,
rendendosi immediatamente conto di quanto idiota fosse quell’affermazione,
probabilmente la più idiota che avesse mai detto.
«Non ne abbiamo bisogno», disse
semplicemente l’altro, allungando una mano verso di lui «Immagina che sia quel
lento».
Smythe non provò neanche a
dirgli che non lo ricordava, quel lento – sarebbe stata una bugia troppo grossa,
una a cui neanche tutto il buon cuore di Thad avrebbe creduto. Prese
semplicemente la sua mano e si lasciò guidare dove un po’ di spazio, tra le
persone, avrebbe permesso ad entrambi di ballare. Harwood posizionò le sue mani
all’altezza della propria vita e lasciò le proprie sul suo collo, sorridendogli
appena: era molto più sicuro di sé dell’ultima – unica volta in cui avevano
ballato, quando invece era stato Sebastian a condurlo, in qualche modo.
«Perché sei venuto qui, Thad?»,
ormai bastava un sussurro per parlarsi.
«Perché l’ultima volta che siamo
stati qui, aspettavo qualcosa… ho creduto che fossi sul punto di fare qualcosa,
invece non è successo niente. Voglio sapere perché».
«E sei dovuto venire a Parigi
per chiedermelo?».
«A casa non c’eri…». Lo aveva
cercato. La sera della vigilia si era defilato quasi subito dalla cena con la
famiglia e lo aveva cercato, ma i suoi genitori gli avevano detto che era
partito già da qualche giorni per Parigi.
«Quella sera… era perfetta,
Thad. Tutto era perfetto, tu eri perfetto…».
«E poi?».
«Poi il lento è finito, le
coppie sono tornate ai loro tavoli ed io semplicemente non avevo detto nulla.
Non c’è stato giorno, da quando è finito quel viaggio, che non mi sia dato
dello stupido per non aver detto niente, per averti lasciato andare così».
«Cosa mi avresti detto?».
Ondeggiavano, senza nessun ritmo
preciso, in qualcosa di lento e dolce che entrambi parevano conoscere senza
aver mai provato, come se i passi calzassero perfettamente ai loro corpi e non ci
fosse bisogno di pensare prima di muoversi. Sebastian sospirò lento, le luci di
Parigi che vorticavano intorno a lui e il respiro di Thad sulla sua spalla.
Proprio come l’ultima volta.
«Ti avrei detto che hai
completamente sconvolto la mia vita, in questi anni. Ti avrei detto che sei
riuscito a mostrarmi un modo nuovo di osservare quello che ho intorno, che gli
ultimi giorni passati alla Dalton non ho fatto altro che pensare a come sarebbe
stato stare lontano da te e che sono stato male, per tutto questo tempo, perché
mi sono reso conto che sei una delle pochissime cose di cui non mi stancherei
mai, la sola che porterei con me per sempre».
«Ho aspettato. Quella sera,
tutta la sera ho aspettato di sentire queste parole… i tuoi occhi, i tuoi occhi
erano diversi mentre siamo stati in Europa ed ogni sera aspettavo che
succedesse qualcosa. Ma siamo tornati a casa e non è cambiato niente. E poi ci
siamo persi…».
«L’abbiamo fatto davvero?».
Per la prima volta, in tutta
quella situazione, era Thad ad essere sorpreso dalla domanda.
«Intendo, ci siamo persi
davvero? Siamo qui, sulla Tour Eiffel, a ballare un lento. Non direi che ci
siamo persi».
«Ma se non l’avessi fatto… se
non avessi preso il primo volo per Parigi, tu saresti tornato?».
«Sarebbe stata solo una questione
di tempo, Thad. Credo che per noi sarà sempre solo una questione di tempo».
A Thad non servì altro per
baciarlo.
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Buon Day 2!
Vi dirò… questa robina non mi convince particolarmente, è troppo… cioè poco… ah, non so cosa, ma non mi piace affatto. Eppure, l’idea di loro due che ballano un lento sulla Tour Eiffel non sono riuscita a togliermela dalla testa, quindi alla fine l’ho scritta comunque ^^’
Boh, diciamo che l’idea di fondo è che, prima o dopo, Thad e Sebastian siano destinati ad incontrarsi, ad amarsi…
Solito titolo musicale, stavolta
tratto da “Let her go” dei Passenger.
Okay, sì, la smetto.
A domani (vado ad ultimare la shot del Day 3: In un’altra vita!)
Alch ♥