A
chi assomiglio?
“Mamma,
a chi assomiglio?”
Questa
fu una delle tipiche domande
esistenziali che mi ponevo all’età di dieci anni,
ma, con mio grande sollievo,
non ero l’unica.
I
bambini fra i sette e gli undici anni si
pongono spesso quesiti del genere; dubbi sul perché i pesci
vivono nell’acqua,
su come facciano gli uccelli a volare… persino rompicapi su
in che modo le
ruote delle auto riescano a girare con la semplice spinta di un pedale.
Io
mi ricordo. C’erano notti in cui non
riuscivo a prendere sonno per via del caffè dopo cena;
sapete quando, nel buio
della propria cameretta, ci si stringe nelle coperte e si cerca di non
pensare
a nulla perché si crede che in quel modo il dolce sonno
sopraggiunga prima? Bè,
per me era così.
Solo
che è impossibile non pensare.
Continuavo a ripetermi incessantemente: “Non pensare, non
pensare, non
pensare…”; poi stupidamente mi accorgevo
dell’errore e allora andavo in cerca
di un altro metodo ‘ infallibile’. Finivo per
tentare di immaginarmi il nero
assoluto e, immancabilmente, continuavo a parlare tra me e me.
A
ripensarci mi viene da ridere. Quando si
pensa che una persona sia stupida quando parla, quando questa medita,
allora…
Ad
ogni modo ero così in quelle notti. Infreddolita
dalle leggere coperte di cotone appena scostate, immersa
nell’oscurità della
tarda sera. Si dice che le migliori idee compaiano proprio in quel
momento. E’
vero, in un certo senso.
Terminata
la mezz’ora in cui non facevo altro
che girarmi e rigirarmi nel letto, iniziavo a domandarmi
perché non mi
addormentavo. Quello era il tipico interrogativo di ogni notte, seguito
sempre
da uno sbuffo sonoro e un sospiro esasperato. Passata quella fase
partivo
decisa con la mia litania che mai funzionava ma in cui io tanto
credevo:
“Dormi… Dormi…
Dormi…”. Al conteggio delle pecorelle avevo
già rinunciato da
tempo. Forse ero io, ma immaginarmi delle pecore che saltavano un
recinto non
mi era tanto di aiuto per indurmi al sonno. Non arrivavo nemmeno a
cinque che
già mi chiedevo che fine facessero quegli animali una volta
saltato lo
steccato. E divagavo, perdendomi nelle vastità della mia
mente da bambina contorta.
Constatando
ogni notte che nemmeno quella
maledetta tiritera funzionava, con delusione cronica, mi arrendevo
definitivamente, maledicendomi per aver bevuto quel dannato
caffè e
ripromettendomi solennemente di non farlo mai più. Questo,
ribadisco, capitava
minimo tre sere alla settimana. Non tenevo gran fede alle mie promesse,
dopotutto.
Ed
era proprio in quel preciso momento di
resa che la mia mente prendeva a dilungarsi sugli argomenti
più disparati.
Iniziavo con una sola parola, trovavo qualche frase in cui
l’avevo già sentita,
magari in qualche conversazione con le amiche, e da lì
rivivevo intere giornate
trascorse al parco o in piscina, riguardavo pezzi di film che mi erano
piaciuti, ripensavo a lezioni già studiate…
Una
volta ricordo di aver pensato ad una
semplice roccia color marrone scuro. L’avevo studiata qualche
settimana prima. “La
roccia è composta da uno o più minerali; essa
può essere Ignea, Sedentaria o
Metamorfica.” Questa era la sua definizione. In un tempo
indefinito che poteva
essere pochi secondi, come un’ora intera, avevo viaggiato
sino a Pompei,
all’epoca dell’eruzione del Vesuvio, da dove
probabilmente quella roccia era
nata, poi mi ero trasferita sull’Etna per ritornare a Napoli.
Avevo riesaminato
i trulli della Puglia ed analizzato il problema
dell’inquinamento atmosferico.
Incredibile
di quanti argomenti avevo parlato
nella mia mente. Ci credereste che erano trascorsi solo 15 minuti
dall’inizio
del viaggio virtuale? Eppure il mio orologio fluorescente del comodino
non
sbagliava mai.
Più
irritata di prima, ricaddi sul cuscino e
chiusi gli occhi. Dopo varie imprecazioni, ripresi le mie teorie.
Chissà
come, ripensai a quel giorno dove mi
ero sentita dire da qualcuno di cui non ricordavo il nome quanto io
assomigliassi a mio padre.
“D’altronde,
tale padre tale figlia…” aveva
ammiccato l’uomo senza volto.
Decenne
quale ero, feci una smorfia
disgustata tirandomi su le coperte fino al mento per sopprimere una
risatina.
Io,
uguale a mio padre?
Che
errore madornale!
“Tanto
per iniziare, io non ho né barba né
calli sulle mani.” mi dissi sicura.
Ma
quello era solo l’inizio. Insomma, ero
decisamente minuta rispetto all’energumeno quale è
mio padre, più mingherlina e
decisamente sopracciglia meno folte e grigiastre.
Per
fare altri esempi scandagliai la mia
mente, giusto per avere prove abbastanza soddisfacenti da contraddire
quel
tipo.
Dunque,
capelli e occhi totalmente diversi.
Quelle erano due moventi schiaccianti!
Mio
padre ha i capelli ricci e biondi, almeno
un tempo, e gli occhi celesti, mentre io ero totalmente
l’opposto. Capelli
castani e lisci con occhi verde scuro.
“Ah!”
esultai. Quel tizio, chiunque fosse
stato, non avrebbe potuto contestare tutto questo! Sorrisi compiaciuta
del mio
fantastico lavoro e, senza che me ne accorgessi, mi assopii sino ad
addormentarmi profondamente.
Il
giorno dopo tornai a casa da scuola
sfinita. A dieci anni pensavo che le elementari fossero difficili,
anche se
eccellevo in tutte le materie. D’altronde, era un passo
più avanti dell’asilo.
E tra un anno sarei passata alle scuola medie. Il top del top!
Sembra
stupido, ma a quell’età tutti i
bambini la pensano allo stesso modo. Eccetto rari casi, ovviamente, ma
la
maggioranza sostiene la mia teoria e questo basta.
Salutai
mia madre con un “ciao” sospirato e,
posato lo zainetto, mi fiondai in cucina per pranzare.
Il
tavolo era apparecchiato solo per me:
acqua, posate, bicchiere e un piatto stracolmo di pennette alla
carbonara.
Gustando quella deliziosa pietanza, raccontavo a mia madre la mattinata
appena
trascorsa, mentre lei si accingeva a pulire i fornelli.
“Sai,
mamma, che oggi la maestra di
matematica non c’era?” dissi con la tipica
espressione da bimba entusiasta.
“E
perché?” mi chiese semi-attenta.
“Boh”
risposi con una scrollata di spalle “Non ci hanno detto
niente.”
Mia
madre assentì.
Sarà
stata la mia mente contorta o la mia
insaziabile curiosità a riaprire quella questione
dell’altra notte. Solitamente
non mi ricordavo mai quello che
“Mamma,
perché dicono che assomiglio a papà?”
le chiesi bevendo un sorso d’acqua generoso.
“Perché
è vero.” Fu la sola risposta che
ottenni.
Avevano
tutti i salami sugli occhi?
“Ma
non è vero!” urlai quasi nella speranza
di farmi capire meglio “Io sono diversissima da
papà! Lui è grande e io sono
piccola… e poi è un maschio e io no!”
Ricordarmi
quella risposta mi fece sbellicare
dalle risate. D’accordo che ero piccola e che non capivo, ma
ripensarci all’età
di sedici anni fa uno strano effetto.
Mia
madre
“La
somiglianza tra te e tuo padre non è
puramente fisica.” Mi sorrise notando la mia fronte
corrugata. “Quando una
persona ti dice così si riferisce per lo più ai
tratti del viso e al
carattere…”
Alzai
un sopracciglio.
“Per
esempio, da tuo padre hai ereditato il
naso.” Mi disse.
“Il
naso?” ripetei incredula.
“Certo.
Dove credi di aver preso quella forma
a patata che ti separa gli occhi?” rise di gusto mentre
contraevo le labbra in
una smorfia tra il divertito e l’offeso.
“Va
bene. E poi?” chiesi ancora, assorta
nella conversazione.
“Bè,
del carattere hai preso quasi tutto.”
“Tutto
in che senso?” le chiesi accigliata.
“La
tenacia, per farti un esempio.”
“Tenacia?”
chiesi non sapendo cosa volesse
dire quella parola. Ehi, avevo solo dieci anni!
“Sì…
è quella che io chiamo cocciutaggine.
Quando vuoi sempre aver ragione anche quando hai torto.”
Sorrise dandomi un
buffetto sulla guancia.
“Poi
c’è la perseveranza, la voglia di fare,
l’amore per qualsiasi cosa che sia elettronica e per i
dolci.” Contò sulle dita
con fare divertito.
Quel
giorno, parlando con mia madre, capii
tante cose.
D’un
tratto, assomigliare a mio padre non mi
parve più tanto orribile, ma, al contrario, ne andavo fiera.
Scrissi
anche un tema su quell’argomento
qualche tempo dopo, quando la maestra ci assegnò un compito
scritto sulla
persona a cui pensi di somigliare maggiormente.
Adesso,
scrivendo questo breve aneddoto della
mia vita, vedo tutto in modo diverso.
Penso
sempre di assomigliare a mio padre,
questo è un dato di fatto, ma crescendo ho scoperto altre
parti del mio
carattere che, sono sicura, con mio padre centrano tanto poco.
Mi
piace la musica, per esempio. Ogni giorno,
almeno un’ora la impiego per cantare a squarciagola in camera
mia. Fortuna che
abito in campagna e la mia voce non disturba nessuno. Questo
particolare credo
di averlo ereditato da mio zio. Lui aveva fatto scuola di canto al
conservatorio di Torino, mi pare. Non è molto, ma certe cose
non spuntano dal
nulla, giusto?
Infine,
da mia nonna, ormai defunta, ho
ricevuto l’eredità più bella che
potessi mai desiderare di possedere. Lei
leggeva molto. Lo adorava.
Tengo
ancora i suoi vecchi libri sullo
scaffale di camera mia. Non potrei mai separarmene.
All’epoca
non si avevano abbastanza soldi per
comprarsi cose frivole come dei romanzi rosa e di questo mi dispiace
perché
sono sicura che mia nonna avrebbe svuotato tutte le librerie della
provincia
con la sua sete di lettura. Bè, ci sto pensando io.
Per
ora detengo il mio record con tre libri
alla settimana, rigorosamente acquistati e letti subito dopo.
Scrivere
è una cosa che adoro.
Penso
sia la mia caratteristica più bella.
Saper
scrivere è un’arte, un po’ come
disegnare, ma diverso al tempo stesso.
Un
pittore rappresenterebbe un semplice
paesaggio così come lo vede, aggiungendo, tuttavia,
particolari che
renderebbero il ritratto mistico e abbagliante a chi lo ammirerebbe per
la
prima volta. Creerebbe un miscuglio di colori tanto semplice quanto
complesso
da rendere il disegno carico di storia e spessore a tal punto da
desiderare che
fosse vero.
Per
uno scrittore rappresentare lo stesso
paesaggio sulla carta è simile e disuguale. Descriverebbe
minuzie agli occhi
insignificanti, ma utilizzando un linguaggio tanto forbito da farli
risaltare
più di altri. Lo scrittore ha la capacità di
rapire il lettore e trasportarlo
attraverso i campi di girasole fino alle viuzze strette dallo stile
medievale;
ha il potere di descrivere un riflesso di sole come una magia eterea
dalle
mille sfaccettature creando un’intera atmosfera di incanto e
seduzione dall’aspetto
surreale.
Questo
è ciò che mi piace. Saper trarre dalla
quotidianità assoluta uno sfondo di negromanzia pari ad un
sogno
incomprensibile e cristallino.
Saper
scrivere non è solo una narrazione come
saper disegnare non è solo pennello su tela.
La
capacità di trasferire su carta dolore,
incertezza, delusione e gaiezza è arte. Far scivolare le
emozioni e i
sentimenti dalla mano, alla biro fin sul foglio è il potere
in sé di conoscere
e comprendere ciò che ci circonda e ciò che si
riesce ad imparare da noi
stessi.
Nessuna
persona di mia conoscenza
descriverebbe queste sensazioni così come io le ho esposte
ora.
Certe
cose si ereditano dai parenti come
impronte di loro stessi sui loro discendenti, ma a ognuno di noi viene
fatto
dono di una caratteristica totalmente propria, originale, inedita.
Per
quanto mi riguarda, è questo il mio dono.
Un passaggio virtuale tra la realtà e il sogno di cui non ho
intenzione di fare
a meno. E’ la mia liberazione, la mia valvola di sfogo. A
certe persone è
chiara sin dalla nascita, ad altre sta il compito di trovarla.
Hilary
Un
saluto a tutte le
persone che hanno avuto il coraggio e la voglia di leggere questa breve
storia.
^^
Inizialmente
questa
one-shot è nata come un semplice tema di Scienze Sociali (A
scuola sto facendo
un lavoro con la prof sull’identità), ma poi ho
pensato comunque di postarla
sul sito. ^^
Che
dite, ho fatto
bene?
Il
tema è appunto “A
chi assomiglio?”, una riflessione su me stessa e la mia
famiglia, ma l’ho
ampliata abbastanza.
Sono
certa che non è
granchè, ma, siccome la Prof mi darà il voto,
gradirei che mi diciate voi cosa
ne pensate e provaste ad assegnarmi un giudizio da 1 a 10. ^^
Ditemi
cosa ne pensate
del mio breve saggio. Magari fatemi notare se ci sono degli errori. Ve
ne sarei
grata.
Grazie.
Kiss kiss, Hilaryssj